Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

domenica 29 settembre 2013

L’Era del Drone - Noam Chomsky

Da "http://serenoregis.org/2013/09/26/lera-del-drone-steven-garbas-intervista-noam-chomsky/" :

Steven Garbas intervista Noam Chomsky

Noam Chomsky è Institute Professor e professore emerito presso il Dipartimento di Linguistica e Filosofia del MIT. La fonte vivente più citata al mondo, le sue teorie sono state estremamente influenti nei campi della filosofia analitica, della psicologia, del linguaggio moderno, e della scienza informatica.
Ha scritto oltre cento libri esaminando i media, la politica estera USA, problemi sociali, la storia dell’America Latina e dell’Europa e altro.

Abbiamo incontrato il professor Chomsky a Cambridge in maggio per discutere lo sviluppo dell’era del drone sotto il presidente Obama.
NC: Oggi, guidando, stavo ascoltando il notiziario della NPR. Il programma è iniziato con l’annuncio, molto eccitato, che l’industria dei droni sta esplodendo così rapidamente che le università stanno cercando di tenere il passo e di aprire nuovi programmi nelle scuole di ingegneria e via di seguito e di insegnare la tecnologia dei droni, perché è questa che gli studenti muoiono dalla voglia di studiare a causa del numero fantastico di posti di lavoro che si stanno creando.
Ed è vero. Se si leggono i rapporti pubblici, si può immaginare quali siano quelli segreti. E’ noto da un paio d’anni, ma apprendiamo sempre più che i droni, tanto per cominciare, sono già forniti dai dipartimenti di polizia per la sorveglianza. E sono progettati per ogni possibile scopo. Voglio dire, teoricamente, forse praticamente, potremmo avere un drone delle dimensioni di una mosca che potrebbe ronzare là fuori [indica la finestra] ad ascoltare ciò di cui stiamo parlando. E sospetto che non ci vorrà molto prima che questo diventi realistico. E naturalmente sono utilizzati per assassinare. E’ in corso una campagna globale di assassinii che è parecchio interessante se si considera com’è condotta. Immagino che tutti abbiano letto la prima pagina dell’articolo del New York Times,che è più o meno una dritta della Casa Bianca, perché là sono apparentemente orgogliosi di come funziona la campagna globale di omicidi. Fondamentalmente il presidente Obama e il suo consigliere per la sicurezza nazionale, John Brennan, oggi capo della CIA, si incontrano al mattino. E Brennan pare un ex prete. Parlano di Sant’Agostino e della sua teoria della guerra giusta e poi decidono chi sarà ucciso oggi. E il criterio è molto interessante. Ad esempio se, diciamo, in Yemen un gruppo di uomini è visto da un drone radunarsi attorno a un camion è possibile che stiano complottando di fare qualcosa che ci danneggerà e allora perché non ci mettiamo al sicuro e non li uccidiamo? E ci sono altre cose di questo genere.  
E in realtà sono sorti interrogativi su cosa ne sia stato del giusto processo, che dovrebbe essere il fondamento della legge statunitense;  in effetti risale alla Magna Carta, ottocento anni fa … che cosa ne è? E il dipartimento della giustizia ha risposto. Il procuratore generale Holder ha affermato che ricevono un giusto processo perché “è discusso nel ramo esecutivo”. Re Giovanni nel tredicesimo secolo, che fu costretto a firmare la Magna Carta, avrebbe amato quella risposta. Ma è la che ci stiamo dirigendo. Le fondamenta della legge civile sono semplicemente fatte a pezzi. Questo non è il solo caso, ma è quello più impressionante.
E le reazioni sono parecchio interessanti. Dicono molto sulla mentalità del paese. Così un editoriale, penso fosse di Joe Klein, una specie di editorialista liberale per uno dei giornali … gli è stato chiesto a proposito di un caso in cui quattro ragazzine sono state uccise in un attacco di un drone. E la sua risposta è stata qualcosa del tipo: “Beh, meglio che siano uccise le loro ragazzine piuttosto che le nostre.” Dunque, in altri termini, questo forse ha fermato qualcosa che alla fine ci avrebbe danneggiato.
C’è una riserva nella Carta delle Nazioni Unite che consente l’uso della forza senza autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, una limitata eccezione nell’articolo 31. Ma si riferisce specificamente a un “attacco imminente” che sia o in corso o imminente in modo così chiaro che non ci sia tempo per riflettere. E’ una dottrina che risale a Daniel Webster, la Dottrina Caroline,  che specifica queste condizioni. E’ stata fatta a brandelli. Non solo con gli attacchi dei droni, bensì da molto tempo.
E così lentamente le fondamenta della libertà sono stracciate, fatte a pezzi. In effetti Scott Shane, uno degli autori dell’articolo del Times, ha scritto un articolo di risposta alle varie critiche apparse. Il suo finaleera molto appropriato, ho pensato. Ha detto qualcosa del tipo: “Guardate, è meglio di Dresda”. Vero? Sì. E’ meglio di Dresda. Dunque questo è il criterio: non vogliamo semplicemente distruggere totalmente ogni cosa. Li uccideremo perché forse un giorno potrebbero farci del male. Forse. Nel frattempo, beh, naturalmente, cos’è che facciamo loro?
Penso si vada da questo ai sistemi di sorveglianza che saranno di portata e carattere inimmaginabili. E naturalmente oggi i dati si possono raccogliere senza fine. In effetti Obama dovrebbe avere in  costruzione da qualche parte nello Utah un sistema di archiviazionein cui viene immessa ogni sorta di dati.  Chi sa di cosa si tratta? Probabilmente tutte le nostre email, tutte le nostre conversazioni telefoniche, un giorno quello che ci si dice per strada, dove si è stati ultimamente, sai, con chi si parla, probabilmente una tonnellata di roba che sarà là. Significa qualcosa? In realtà non tanto quanto molti temono. Non penso che quei dati siano in realtà utilizzabili. Di fatto sospetto siano utilizzabili per un solo scopo: se il governo per una ragione o per l’altra punta a qualcuno. Vuol sapere qualcosa di questo tizio, beh, allora si possono trovare dati su di lui. Ma, a parte ciò, la storia e l’esperienza suggeriscono che non c’è molto che ci si possa fare.
Persino quarant’anni fa, cinquant’anni fa … all’epoca sono stato in effetti coinvolto in processi della resistenza contro la guerra del Vietnam. Ero un co-cospiratore non incriminato in un processo, mi sono presentato spontaneamente al processo e ne ho seguiti altri. Ho potuto osservare piuttosto attentamente quali accuse erano basate su dati dell’FBI sulle persone. Erano comiche. Voglio dire, ci sono stati casi in cui hanno preso la persona sbagliata. Prendevano uno, e intendevano qualcun altro. In uno dei processi ho continuato a essere confuso con un tizio di nome Hershel Cominsky; non riuscivano mai a capire correttamente i nomi ebrei. Incredibile. In realtà nel processo Spockfecero davvero arrabbiare due persone: Mark Raskin, che misero sotto processo e voleva essere processato,  e Art Waskow che voleva essere processato e che non misero sotto processo. E’ possibile che Waskow fosse la persona che cercavano, ma non furono in grado di distinguerlo da Raskin. E semplicemente non furono in grado di collegare i due casi.
Il processo Spock fu un caso molto interessante. L’ho seguito da vicino. È quello in cui ero un co-cospiratore non incriminato, perciò sedevo al banco della difesa, parlavo con gli avvocati e ho conosciuto tutti. L’accusa, l’FBI, mise in piedi un caso così mal abborracciato che la difesa decise semplicemente di non intervenire. Non fu opposta una difesa, perché la difesa avrebbe proprio collegato insieme cose che loro non avevano scoperto. Era un processo per cospirazione; tutto quello che dovevano fare era collegare le cose tra loro. Ed era trasparente, tutto era accaduto in modo completamente pubblico. Quello era l’intero punto. E l’FBI apparentemente ignorava semplicemente tutto ciò che era pubblico, non vi credeva, il che era quasi tutto quello che c’era. Quasi tutto; non tutto. E cercavano qualche collegamento segreto con chissà chi, la Corea del Nord o qualsiasi altra cosa.
Ma qui abbiamo un sacco di dati, proprio di fronte ai nostri occhi e loro non sanno come usarli. E penso che ci sia parecchio di questo.
SG: Tornando a quell’articolo del New York Times che lei ha citato. Delinea il processo dietro la “lista dei bersagli” e le riunioni gestite dal Pentagono dove decidono se si può aggiungere un nome. Tradizionalmente i presidenti hanno mantenuto le distanze dalle operazioni legalmente torbide della CIA. Ma l’articolo del Times afferma che Obama è l’autorità finale sull’aggiunta di un nome alla lista. Può commentare l’esistenza della lista e su quanto vicino sia Obama alla procedura?
NC: Beh, queste liste andrebbero sottoposte a una critica severa. Compresa la lista dei terroristi. Ora c’è una lista dei terroristi, sai, una lista dei terroristi a cura del Dipartimento di Stato. Dacci un’occhiata un giorno. Fino a quattro anni fa su questa lista c’era Nelson Mandela. C’è un motivo: Ronald Reagan è stato un forte sostenitore dell’apartheid, e uno degli ultimi, praticamente fino alla fine. E certamente alla fine del suo mandato ha continuato a sostenere il regime dell’apartheid. Nel 1988 l’ANC, l’African National Congress di Mandela, è stato dichiarato uno dei più famigerati gruppi terroristici del mondo.
Dunque quella è la giustificazione per appoggiare il regime dell’apartheid: fa parte della guerra al terrore di Reagan. È lui quello che dichiarato la guerra al terrore, non Bush. Parte di essa era: “Dobbiamo difendere il regime bianco contro i terroristi dell’ANC”. E allora Mandela è finito in quella lista. È solo nell’ultimo paio d’anni che può recarsi negli Stati Uniti senza autorizzazione speciale.
Quella è la lista dei terroristi. Ci sono altri casi. Così prendiamo, ad esempio, Saddam Hussein. Saddam Hussein era stato ufficialmente considerato un terrorista. È stato tolto dalla lista da Ronald Reagan e dalla sua amministrazione nel 1982 perché gli Stati Uniti volevano offrire aiuto e sostegno a Saddam, cosa che, per inciso, hanno fatto e cercato di coprire, per ogni sorta di cose. Ma, OK, dunque lo tolgono dalla lista. Hanno uno spazio vuoto. E allora cosa fanno? Ci mettono Cuba.
Tanto per cominciare Cuba era stata un bersaglio del terrorismo internazionale maggiore probabilmente del resto del mondo messo insieme da quando Kennedy aveva scatenato la sua guerra terroristica contro Cuba. Ma in realtà ebbe il suo picco negli anni 1970. Abbattimento di un aereo di linea e uccisione di settanta persone, attentati dinamitardi alle ambasciate, ogni sorta di cose. Dunque, ecco il paese che è il bersaglio del terrorismo più di ogni altro e lo mettono sulla lista dei terroristi per sostituire Saddam Hussein che noi [in seguito] dobbiamo eliminare perché non vogliamo appoggiarlo.
Ciò che questo ci dice è incredibile se ci si riflette a fondo. Naturalmente non se ne discute mai, e anche questo dice qualcosa. Ma questo è il genere di domanda che dovremmo porre a proposito della lista dei terroristi: chi vi è inserito e perché? Inoltre: come si giustifica?
È una decisione del ramo esecutivo del governo, non soggetta a revisione giudiziaria o di altro genere. Dicono “Sei sulla lista dei terroristi!”. OK. Sei nel mirino per qualsiasi cosa.
E anche altre liste sono simili. Le famose liste di McCarthy sono esempi minori. Questi sono esempi gravi, queste sono liste ufficiali del governo. Così, tanto per cominciare, dovremmo mettere da parte l’idea che ci sia qualche sacralità, persino qualche autorità, nella lista. Non c’è. Queste sono semplicemente decisioni statali secondo il capriccio dell’esecutivo per qualsiasi motivo esso abbia. Non il genere di cose cui si debba portare alcun rispetto. Certamente non in questo caso.
SG: Una volta o l’altra, nel lontano futuro, Obama potrebbe essere incolpato legalmente proprio per la sua stretta connessione con la lista dei bersagli da uccidere?
NC: Sono certo che lo sa. Sospetto sia uno dei motivi per cui è stato molto scrupoloso nel discolpare tutte le amministrazioni precedenti. Dunque nessun processo a Dick Cheney o George Bush o a Rumsfeld per le torture, per non parlare dell’aggressione. Non possiamo neppure parlare di questo. Evidentemente gli Stati Uniti sono semplicemente esenti da qualsiasi accusa di aggressione.
In effetti, non è molto ben noto, ma sin dagli anni 1940 gli Stati Uniti si sono auto-esentati. Così gli Stati Uniti hanno contribuito a creare la moderna Corte Mondiale nel 1946, ma hanno aggiunto una riserva: che gli Stati Uniti non possono essere accusati di violazioni dei trattati internazionali. Quella che avevano in mente, naturalmente, era la Carta dell’ONU, il fondamento della legge internazionale moderna. E la Carta dell’OAS, la carta dell’Organizzazione degli Stati Americani. La Carta dell’OAS contiene una dichiarazione molto forte che esige da qualsiasi paese latinoamericano di non sollevare obiezioni contro ogni forma di intervento. Chiaramente gli Stati Uniti non sarebbero stati limitati da ciò. E la Carta dell’ONU, assieme al principio di Norimberga, che vi è recepito, avevano una dura condanna dell’aggressione, parecchio ben definita. E lo capivano, naturalmente. Potevano leggere le parole del Procuratore Speciale statunitense a Norimberga, il giudice Robert Jackson, che parlò in modo parecchio eloquente alla corte quando decisero la pena di morte per gli imputati, principalmente per aver commesso quello che il tribunale considerava il “crimine internazionale supremo” -  cioè l’aggressione, ma anche molti altri – e disse che stavano “porgendo a queste persone un calice avvelenato, e se ne sorseggiamo dobbiamo essere sottoposti allo stesso giudizio o altrimenti l’intero procedimento sarà una farsa.” Non detto bene, ma dovrebbe essere ovvio. Ma c’è una riserva che esclude gli Stati Uniti.
In realtà gli Stati Uniti sono esclusi anche da altri trattati. Essenzialmente da tutti. Se si dà un’occhiata alle poche convenzioni internazionali che sono firmate e ratificate, contengono quasi sempre un’eccezione che dice “non applicabile agli Stati Uniti”. Si chiama ‘inapplicabilità diretta’. Cioè occorrono delle leggi specifiche per attuarle. Questo vale, ad esempio, per la Convenzione sul Genocidio. Ed è arrivata nei tribunali. Dopo i bombardamenti della Jugoslavia nel 1999 la Jugoslavia ha accusato la NATO davanti alla Corte, e la Corte ha accettato l’accusa. Le norme della Corte sono che uno stato è soggetto ad accuse solo se accetta la giurisdizione della Corte. E i paesi della NATO hanno accettato tutti la giurisdizione della Corte, con una eccezione. Gli Stati Uniti si sono rivolti alla Corte e hanno fatto presente che gli USA non sono soggetti alla Convenzione sul Genocidio. Una delle accuse era di genocidio. Dunque gli Stati Uniti non sono soggetti alla Convenzione sul Genocidio in forza della nostra solita eccezione.
Così l’immunità dai processi non è semplicemente praticata e ovviamente la cultura … non potrebbe nemmeno essere immaginata nella cultura, il che è un commento interessante sulla cultura. Ma anche semplicemente è legale.
In realtà la stessa domanda potrebbe essere posta a proposito della tortura. L’amministrazione Bush è stata accusata, diffusamente e in modo rilevante, di attuare la tortura. Ma se mai la questione finisse in un processo penso che un avvocato della difesa avrebbe una posizione da assumere: gli Stati Uniti non hanno mai realmente firmato la Convenzione dell’ONU sulla Tortura. L’hanno firmata e ratificata, ma solo dopo che è stata riscritta dal Senato. Ed è stata riscritta specificamente per escludere le forme di tortura praticate dalla CIA, che l’agenzia ha mutuato dal KGB russo.
Ciò è studiato bene da Alfred McCoy, uno dei principali studiosi che si è occupato della tortura. Egli segnala che le torture di KGB/CIA … hanno apparentemente scoperto che il modo migliore per trasformare un uomo in un vegetale è quella che si chiama “tortura mentale. Niente elettrodi nei genitali, ma il genere di cose che si vedono a Guantanamo e Abu Ghraib, che sono definite tortura mentale. Essenzialmente non lasciano segni sui corpi.È il modo migliore e noi lo pratichiamo. In effetti lo pratichiamo in continuazione nelle carceri di massima sicurezza. E così il trattato è stato riscritto per escludere il genere di cose che la CIA pratica e che noi pratichiamo e che in realtà sono praticate di routine in patria, anche se la cosa non è emersa. E penso che [la riscrittura] sia stato firmata come legge interna, penso sotto Clinton.
Dunque l’amministrazione Bush è colpevole di torture in base alla legge internazionale? Non è del tutto evidente. In realtà non è del tutto evidente chi potrebbe esserlo. Per tornare alla tua domanda originale, penso che Obama abbia seri motivi per assicurarsi che, come dice lui, “E’ ora di guardare al futuro, non al passato”. È la posizione standard di un criminale.
SG: In alcuni dei documenti che sono stati fatti trapelare e ottenuti nel mese scorso, una delle cose pubblicate sul Times e da McClatchy parlava di come la CIA avesse ridotto il suo utilizzo di siti segreti in parte per il timore di incriminazioni, che i suoi dirigenti potessero essere accusati di crimini di guerra. Così, tenuto conto di quanto lei ha appena descritto, perché la CIA avrebbe avuto timori tali da correggere le sue politiche?
NC: Beh, quello che temono, immagino, è il genere di cose che apparentemente teme Henry Kissinger quando si reca all’estero. C’è un concetto di “giurisdizione universale” che è affermato molto diffusamente. Significa che un criminale di guerra, una persona che ha commesso crimini di guerra veramente gravi, grandi crimini – non occorre che siano crimini di guerra – se arriva nel suo territorio, quel paese ha il diritto di sottoporlo a processo legale. E si chiama “giurisdizione universale”. E’ una specie di zona grigia negli affari internazionali, ma è stata applicata. Il caso Pinochet a Londra è stato un caso famoso. Il tribunale britannico ha deciso che, sì, aveva diritto di rimandarlo in Cile per essere processato.
E ci sono altri casi. Attualmente, ad esempio, ci sono casi recenti in cui alti dirigenti israeliani sono stati diffidenti nel venire a Londra e in alcuni casi hanno cancellato i loro viaggi perché potevano essere sottoposti alla giurisdizione universale. Ed è stato riferito, almeno, che lo stesso vale per alcune delle preoccupazioni di Kissinger. E io penso che probabilmente sia a questo che lui si riferisce. Non si può essere sicuri che … sai, il potere sta diversificandosi nel mondo. Gli Stati Uniti sono ancora potenti in misura schiacciante, ma nulla è com’era un tempo. Ci sono molti esempi di questo. E non si può essere certi di cosa gli altri faranno.
E un esempio eclatante delle restrizioni del potere USA al riguardo è venuto da uno studio che è stato pubblicato, ma non penso sia stata pubblicata la parte davvero importante. E’ uno studio sulla globalizzazione della torturadiffuso un paio di settimane fa dall’Open Society Forum. Lo si trova sulla stampa. E’ uno studio sulle ‘consegne’ [rendition]. Le ‘consegne’, per inciso, sono un grande crimine che, di nuovo, risale alla Magna Carta, esplicitamente. Mandare le persone oltremare per essere torturate. Ma questa oggi è una politica pubblica. E questo era uno studio su quali paesi vi hanno partecipato. Ed è risultato che erano più di cinquanta paesi, la maggior parte dell’Europa, del Medio Oriente, che è dove sono stati mandati per la tortura. È dove stavano i dittatori, Asia e Africa. Un solo continente è stato totalmente assente: l’America Latina, in cui non un solo paese è stato disponibile a partecipare a questo grande crimine: E una sola persona lo ha segnalato, Greg Grandin, uno studioso dell’America Latina dell’Università di New York, ma è la sola persona che ho visto segnalarlo.
Ciò è estremamente importante. L’America Latina era normalmente il “cortile di casa”. Facevano quello che dicevamo noi oppure noi rovesciavamo i governi. Beh, inoltre, in quegli anni era uno dei centri globali della tortura. Ma oggi il potere USA è declinato in misura sufficiente perché i tradizionali servi più affidabili dicano semplicemente di no. E’ impressionante. E non è l’unico esempio. Dunque, tornando alla giurisdizione universale, non mi sono mai aspettato molto da Obama, per dire la verità, ma l’unica cosa che mi sorprende sono i suoi incessanti attacchi alle libertà civili. Semplicemente non li capisco.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org
Fonte: http://www.zcommunications.org/the-era-of-the-drone-by-noam-chomsky.html 
Originale: Satellite Traduzione di Giuseppe Volpe

25 settembre 2013
http://znetitaly.altervista.org/art/12451

L’influenza di Tolstoj su Gandhi

Si ringrazia Marco Vignolo Gargini per la segnalazione.
LexMat

Da "http://serenoregis.org/2010/11/25/l%E2%80%99influenza-di-tolstoj-su-gandhi-enrico-peyretti/" :

di Enrico Peyretti

Novembre 25, 2010

Bori, Tolstoj. Oltre la letteratura, Edizioni Cultura della Pace 1991
Bori, L’altro Tolstoj, Il Mulino 1995
Bori-Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni, Il Mulino 1985
Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza. Con Saggio introduttivo di Giuliano Pontara, Einaudi 1996
Gandhi, Vi spiego i mali della civiltà moderna. Hind Swaraj, GandhiEdizioni 2009
Gandhi, La forza della verità, vol. 1, Civiltà, politica e religione, Sonda 1991
Manara, Una forza che dà vita. Ricominciare con Gandhi in un’età di terrorismi, Unicopli 2006
Milone, Tolstoj e il rifiuto della violenza, Servitium 2010
Tolstoj, Il Regno di Dio è in voi, Publiprint Manca editrice 1988
Altieri, Presentazione, a Gandhi, Vi spiego i mali della civiltà moderna (Hin Swaraj). Gandhiedizioni 2009

1 – Alcuni caratteri del pensiero di Tolstoj
Alcuni caratteri del pensatore russo possono essere così individuati: il suo è un anarchismo religioso mistico; egli è accostabile ai “chrétiens sans église”, evangelici non confessionali, contrari al sacramentalismo, al “sola fide” e alla predestinazione, schierati per la tolleranza.
Tolstoj relativizza i contenuti di verità a favore della carità. Apprezza Erasmo, scopre Castellione (fu per la tolleranza, condannò la condanna di Serveto nella Ginevra di Calvino), simpatizza con i quaccheri e con movimenti settari.
È contro la violenza, sia istituzionale che rivoluzionaria, perché viola la legge dell’amore che è la legge della vita (cfr Bori, in Bori-Sofri, p. 137)

2 – Come Gandhi conosce Tolstoj
«Tolstoj fu certamente l’autore non indiano che più influenzò la formazione di Gandhi» (G. Sofri, in Bori-Sofri, p. 45)
Gandhi, dopo il 1890 (quando ha 31 anni), legge gli scritti di Tolstoj su droghe, alcol, tabacco.
Nel 1894 legge Il Regno di Dio è dentro di voi, pubblicato l’anno precedente, e dice: «Mi entusiasmò. (…) Mi fece una impressione incancellabile».
Ha per Tolstoj la stessa ammirazione che ebbe per il Sermone della montagna nei vangeli.
Dirà poi (nel 1928): «A quel tempo io credevo nella violenza. La sua lettura mi guarì dal mio scetticismo, e fece di me un fermo credente nell’ahimsa» (non è ancora il satyagraha) (Sofri, p. 45-46).
Rileggerà quel libro di Tolstoj nel 1908 e lo regalerà a varie persone.
Tra il 1894 e il 1896 legge altri libri di Tolstoj, tra cui Breve esposizione del Vangelo.
Nell’appendice bibliografica a Hind Swaraj (1909) cita sei libri di Tolstoj sui 20 complessivi citati.

Gandhi non lesse mai i grandi romanzi di Tolstoj, Guerra e pace, Anna Karenina.
Forse, ma non è certo, lesse con commozione La morte di Ivan Il'ič, Resurrezione, La sonata a Kreutzer.
Conosceva i racconti popolari di Tolstoj e ne pubblica alcuni nel 1905 su Indian Opinion.
Nello stesso anno 1905 riassume in brevi frasi didascaliche, su Indian Opinion, l’insegnamento di Tolstoj: 
«In questo mondo l’uomo non dovrebbe accumulare beni.
Per quanto male una persona possa arrecarci dovremmo sempre farle del bene.
Questo è il comandamento di Dio e anche la sua legge.
Nessuno dovrebbe combattere.
È peccato esercitare il potere politico, poiché questo causa tanti dei mali del mondo.
L’uomo è nato per compiere il suo dovere verso il Creatore; dovrebbe perciò prestare più attenzione ai suoi doveri che ai suoi diritti.
L’agricoltura è la vera occupazione dell’uomo. È perciò contrario alla legge divina costruire grandi città, dar lavoro a centinaia di migliaia di persone che si occupano dei macchinari delle industrie così che i pochi sguazzano nel denaro.
Se lo possono permettere sfruttando gli indifesi e la povertà della maggioranza».
(in La forza della verità p. 118 e in Sofri-Bori p. 48).

Nel 1910, presentando la traduzione inglese di Hind Swaraj, Gandhi scrive: «Tolstoj è stato uno dei miei insegnanti per molti anni» (La forza della verità, p. 257).
E in una lettera del 21 maggio dello stesso anno, egli dice di Tolstoj:
«Ciò che ha predicato, come del resto tutti i maestri del mondo, è che ogni uomo deve obbedire alla voce della propria coscienza, deve essere maestro di se stesso e cercare il Regno di Dio dentro di sé. Secondo lui non esiste governo in grado di controllarlo senza la sua approvazione.
Tale uomo è superiore ad ogni governo» (ivi, p. 280).
A sua volta, il pensiero indiano e orientale influì su Tolstoj, che attinge alle sapienze antiche, e in nome dell’induismo incoraggia gli indiani alla nonviolenza (cfr Bori, in Bori-Sofri, pp. 149-159).
Nel periodo tra i 50 e 60 anni (1878-1888) non è citato il pensiero indiano nelle letture di Tolstoj (Bori, L’altro Tolstoj, p. 146).
Gandhi legge altri autori del filone anarco-religioso, dell’evangelismo sociale, tra cui il più importante per lui è Ruskin (autore inglese, tra i riformatori sociali e religiosi citati da Gandhi in appendice a Hind Swaraj), che legge nel 1904 in Sudafrica; quindi traduce-sintetizza il suo libro principale Unto This Last in gujarati col titolo Sarvodaya (Il benessere di tutti).
Legge Thoreau nel 1907, lo ammira, ma ne critica i limiti.
Legge Carpenter nel 1909.
Qui è l’inizio, per Gandhi della critica radicale della civiltà moderna che culminerà in Hind Swaraj, nel 1909.

3 – Con la Lettera a un indù Tolstoj conquista Gandhi
Decisiva per l’influsso di Tolstoj su Gandhi è la Lettera a un indù, dello scrittore russo, nel 1908-1909.
Il 24 maggio 1908 un giovane indiano estremista ed esule politico, Taraknath Das, scrive a Tolstoj: «Voi odiate la guerra, ma la fame in India è più spaventosa di qualsiasi guerra … non per penuria di alimenti, ma a causa del depredamento della popolazione e della spoliazione del paese da parte del governo britannico» (Sofri-Bori, p. 107).
Tolstoj riceve la lettera il 7 giugno e lo stesso giorno comincia quella risposta che diventerà la Lettera a un indù, dopo sei mesi di lavoro e 27 (!) stesure successive, per 413 fogli diversi.
Il 14 dic. 1908 annota: «Ho finito la lettera a un indù. È debole. Ci sono ripetizioni».
Il 2 maggio 1909 corregge la traduzione inglese. Estratti della lettera sono già apparsi su due riviste russe.
Das riceve la risposta di Tolstoj, che ormai è una lettera aperta, e la pubblica nel marzo-aprile 1910, con una sua replica, in cui dice che è disposto ad adottare la resistenza passiva, ma anche ad abbandonarla quando si rivela vana (dunque è nonviolento pragmatico, relativo, tattico).

Questa Lettera a un indù è in Bori-Sofri (pp. 181-197). Bori (pp. 163-168) illustra la lettera con varie citazioni dei contemporanei Diari di Tolstoj e da altri suoi scritti.

Facciamo qui una sintesi-schema del testo della Lettera a un indù:
- quali sono le cause dell’oppressione di pochi oziosi sulla maggioranza del popolo lavoratore?
- 200 milioni di Indiani sono assoggettati da una piccola cricca di estranei, incomparabilmente inferiori dal punto di vista etico-religioso
- la causa è l’assenza di insegnamento religioso razionale che illumini la legge della vita, sostituito da principi pseudoreligiosi e pseudoscientifici; questi causano effetti immorali chiamati civiltà
- la storia è sempre stata dominio di pochi su molti
- sia i dominatori che i dominati ritengono il dominio necessario per la convivenza (cfr Hobbes)
- nonostante ciò, c’è la religione universale dell’amore: è un pensiero inerente alla natura umana ed è verità
- ma questa verità è deformata e ostacolata da chi ha il potere, con una religione stabilita dal potere. Questo è accaduto ovunque
- c’è una contraddizione: gli uomini accettano contemporaneamente la legge dell’amore e l’opposizione al male con la violenza, perché accettano l’organizzazione sociale basata sulla violenza
- ma col tempo si è indebolita la fede nel diritto divino dei monarchi
- ci si attenderebbe ora che ci si liberi dalla sottomissione all’autorità, che ha perso il diritto divino
- e invece viene un nuovo inganno: la classe dei governanti che, col pretesto di governare il popolo, vive del suo lavoro
- si pretende dare un fondamento “scientifico” ai nuovi poteri, come prima si dava “religioso”
- la violenza viene presentata e giustificata 1) come legge perpetua della storia 2) come selezione naturale nella lotta per l’esistenza 3) e anche come volontà del popolo (nelle forme rappresentative di governo)
- intanto, l’infelice maggioranza degli oppressi accetta queste stupidità scientifiche, come prima quelle religiose, e continua a sottomettersi ai nuovi sovrani altrettanto crudeli, ma alquanto più numerosi
- la superstizione scientifica prende piede anche in oriente
- alla tesi violenta di Das – resistenza all’aggressione non è solo giustificabile, ma è un imperativo; la non-resistenza offende sia l’altruismo sia l’egoismoTolstoj replica: l’amore è l’unico modo di cui l’uomo dispone per salvarsi da tutte le calamità
- questo fondamento religioso della vita è tipico dell’India dall’antichità, ma ora l’India si contraddice se sostiene la resistenza al male con la violenza
- voi dite che gli inglesi vi hanno asservito perché non avete resistito, ma è vero il contrario: gli indiani sono sottomessi perché hanno creduto alla violenza come principio e fondamento dell’ordine sociale, perché hanno accettato la legge della violenza
- non sono stati gli inglesi, ma gli Indù stessi a ridursi in schiavitù
- dovete non collaborare al male (amministrazione, tribunali, tasse, esercito) e nessuno vi ridurrà in schiavitù
- l’umanità, come una persona che cresce, passa da un’età all’altra e deve assumere una guida adeguata alla nuova età
- ora è questo passaggio ad una nuova età
- occorre superare la contraddizione tra la legge benefica dell’amore e il sistema violento
- la legge della vita è l’amore
- occorre la completa liberazione di questa verità dalle superstizioni religiose e scientifiche, dalle credenze che oscurano la verità
- una sola cosa è necessaria: la legge dell’amore è la legge della vita
- questa è verità connaturata ad ogni uomo e presente in tutte le religioni del mondo
- emergendo quella verità, scomparirà tutto il male da cui ora l’umanità è afflitta

4 – Carteggio Gandhi e Tolstoj
(Il testo integrale di queste lettere è in Bori-Sofri pp. 199-213)
Abbiamo visto che è la Lettera a un indù, di Tolstoj, del 1908, che induce Gandhi a scrivergli.
A Gandhi arriva in mano una copia inglese di quello scritto nell’estate 1909.
Si dice «rapito» dalla lettura, ed entusiasta perché la trova affine al suo pensiero, che lo scritto di Tolstoj rafforza e stimola.
G 1 – Il 1° ottobre di quel 1909 Gandhi scrive a Tolstoj: è la prima lettera del loro carteggio (7 lettere: 4 di Gandhi, 3 di Tolstoj). Gandhi chiede a Tolstoj di poter pubblicare la Lettera a un indù.
T 1 – Tolstoj risponde subito l’indomani dicendosi «molto commosso» della lettera di Gandhi che ha ricevuta il 24 settembre (6 ottobre) e autorizza la pubblicazione.
Gandhi ne riferisce in un articolo dicendo di essere «molto rallegrato» della risposta di Tolstoj: «È motivo di profonda soddisfazione per noi avere il sostegno di un così grande e santo uomo. La sua lettera ci mostra in maniera convincente che la forza dell’animo – satyagraha – è la nostra sola risorsa (Sofri 118).
Gandhi tenta di far pubblicare in Inghilterra la Lettera a un indù, ma non riesce.
Allora la pubblicherà a puntate su Indian Opinion, in inglese e in gujarati, tra dicembre 1909 e gennaio 1910.
Nella Prefazione a questa pubblicazione scrive: «La lettera di Tolstoj ha per me un grande valore. Chiunque abbia goduto dell’esperienza della lotta del Transvaal ne percepirà subito il valore. Un gruppo di satyagrahi indiani ha contrapposto al potere delle armi da fuoco del governo del Transvaal amore e forza d’animo. Questo è il fondamento dell’insegnamento di Tolstoj, dell’ insegnamento di tutte le religioni».
Poco più oltre, troviamo un primo accenno alle differenze tra maestro e discepolo: «Nessuno potrebbe affermare che io accetto tutte le idee di Tolstoj, lo considero uno dei miei maestri, ma certamente non concordo con tutte le sue idee» (La forza della verità, p. 119-120).
G 2 – Il 10 nov. 1909, prima di partire da Londra, Gandhi scrive di nuovo a Tolstoj.
Lo prega di far conoscere al vasto pubblico la lotta degli indiani del Transvaal (questa regione di immigrazione indiana nel 1902 è colonia britannica, autonoma nel 1907, dal 1910 nell’Unione Sudafricana).
Tolstoj non risponde.
G 3 – Gandhi scrive di nuovo il 4 aprile 1910, con l’occasione della pubblicazione in inglese del suo Hind Swaraj. Tolstoj annota nel diario il 19 aprile (2 maggio): «Da un indiano un libro e una lettera in cui smaschera tutti i difetti della civiltà europea, compresi si suoi svantaggi pratici». «Ho letto il libro di Gandhi sulla civiltà. Molto buono». «Molto importante. Devo scrivergli».
Ora, più di prima, prende Gandhi sul serio. «È un uomo molto vicino a noi, a me. .. Voglio scrivergli a lungo». Tolstoj rilegge la propria Lettera a un indù, pubblicata da Gandhi in India e inviatagli: ora gli piace di più di quando la finì, nel 1908 [vedi sopra al 14 dicembre 1908].
Gandhi l’aveva tradotta dal 13 al 22 novembre 1909 in gujarati sulla nave da Londra a Città del Capo, prima di scrivere, nello stesso viaggio (freneticamente, con crampi alla mano destra), Hind Swaraj (Altieri p. 11; Sofri p. 119).
T 2 – Tolstoj risponde brevemente il 25 aprile (8 maggio) 1910. Ha problemi di salute. Apprezza Hind Swaraj. Non trova più le lettere precedenti. Promette una lettera più lunga.
G 4 – Gandhi scrive il 15 agosto 1910. Ha fondato col “tolstojano” Kallenbach una fattoria collettiva: Fattoria Tolstoj. Allega una foto dei suoi abitanti. Si augura di ricevere da lui una «critica particolareggiata» di Hind Swaraj.
T 3 – 16 e 17 settembre (29, 30 settembre) 1910. Ultima lettera di Tolstoj, inviata anche a Londra per essere pubblicata in un periodico di amici tolstojani, per propagandare in Inghilterra le idee di Gandhi.
Gandhi la riceve solo due mesi dopo, il 26 novembre, quando Tolstoj è già morto.
Però, via Londra, la lettera di Tolstoj è già arrivata e lo stesso giorno è pubblicata su Indian Opinion, insieme a un commosso necrologio di Tolstoj scritto da Gandhi, col titolo: Il Conte Tolstoj e la resistenza passiva; un messaggio agli indiani del Transvaal.
In questo necrologio, Gandhi evidenzia il maggior merito di Tolstoj: «La grande virtù di Tolstoj fu di mettere in pratica ciò che predicava» (La forza della verità, p. 121).
Ripeterà questo motivo di ammirazione in varie occasioni, come nel discorso per il centenario della nascita di Tolstoj, nel 1928 (ivi, pp. 123, 125, 128).
Nella sua ultima lettera a Gandhi, Tolstoj dà un aperto riconoscimento alla lotta nonviolenta degli indiani del Transvaal: «.. la vostra attività nel Transvaal, che ci pare ai confini della terra, è l’opera più centrale, più importante fra tutte quelle che si svolgono attualmente nel mondo, e di essa saranno partecipi necessariamente non solo i popoli del mondo cristiano, ma quelli di tutto il mondo».
Sembra una profezia e un testamento del più celebre pacifista e nonviolento in favore del suo più giovane “discepolo” (Sofri, in Bori-Sofri, p. 123)
Per tutta la vita Gandhi riconoscerà il suo debito verso Tolstoj, e continuerà a tenere rapporti coi tolstojani, e a tradurre e pubblicare gli scritti del maestro russo.
Passando in Italia nel 1931 il Mahatma ebbe il piacere di fare visita, a Roma, a Tatiana Tolstoj, figlia di Lev Tolstoj, vedova Sukhotin.
Quando Gandhi fu ucciso, il 30 gennaio 1948, Tatiana scrisse a Nehru, il 3 novembre 1949, per chiedere la grazia per i due assassini condannati a morte.

5- Che cosa Gandhi deve a Tolstoj
In una lettera del 1926, Gandhi scrive: «Non c’è dubbio sul fatto che gli scritti di Tolstoj abbiano avuto un effetto molto forte su di me. Egli ha rafforzato il mio amore per la nonviolenza. Mi ha reso capace di vedere le cose più chiaramente di prima (…). Allo stesso tempo, so che c’erano differenze fondamentali tra noi e, sebbene rimangano, sono poche in confronto alle cose per le quali mi sento riconoscente» (La forza della verità, p. 122).
Nel discorso del 1928 per il centenario della nascita, Gandhi prende spunto dal ricordo di Tolstoj per precisare ai seguaci del proprio movimento il concetto di nonviolenza: «Nonviolenza vuol dire un oceano di compassione, vuol dire respingere da noi ogni traccia di volontà negativa nei confronti degli altri. Non vuol dire abiezione o timidezza, oppure fuggire per paura. Vuol dire, invece, fermezza morale e coraggio, uno spirito risoluto» (La forza della verità, p. 126).
«Questa nonviolenza non si limita a rifiutarsi di uccidere creature invalide. Non ucciderle può essere dharma [dovere], ma l’amore va infinitamente oltre. A che cosa serve salvare le vite di creature invalide, se non si ha avuto visione di tale amore?» (ivi, p. 130. Forse Gandhi pensa all’eutanasia per pietà, che gli approva, a differenza di Tolstoj).
In un’altra lettera del 1928, il Mahatma dice di non escludere che gli scritti e gli insegnamenti di Tolstoj abbiano influito sulla sua decisione a proposito della castità (ivi, p. 123).
Gandhi dichiara in una intervista, nel 1931, i limiti del suo debito verso T.: «Gli debbo molto, certo, e lo vanto come uno dei miei maestri. Ma con tutta umiltà posso dire che Tolstoj non mi ha arrecato qualcosa di nuovo, ma egli mi ha fortificato in certe cose confuse in me. Io non debbo interamente a Tolstoj la dottrina della resistenza nonviolenta, ma è ai suoi scritti che debbo la forza maggiore» (Sofri-Bori, p. 47).
Però lo chiama «il più grande dei satyagrahi» (Sofri-Bori, p. 48)
Nello stesso 1931, l’8 dicembre, di passaggio a Losanna, in un discorso in pubblico, Gandhi chiarisce questa differenza: «È stato spesso sostenuto che la dottrina della nonviolenza la debbo a Tolstoj. Non si tratta di una piena verità, ma certamente io ricavo dai suoi scritti la più grande forza. Ma come lo stesso Tolstoj ammise, il metodo della non-resistenza che ho coltivato ed elaborato in Sudafrica era differente dalla non-resistenza su cui ha scritto Tolstoj e che egli ha raccomandato. Questo non lo dico a detrimento della fama di Tolstoj. Non è allievo adatto quello che non costruisce sulle fondamenta poste dal suo maestro per lui. Egli ha solo bisogno di un buon maestro che possa permettergli di aggiungere all’eredità che lui stesso gli ha lasciato. Sarei un figlio non degno di mio padre se non ampliassi la mia eredità, e così io ho sempre considerato come un punto d’onore che, grazie a Dio, ciò che ho imparato da Tolstoj ha dato frutti cento volte maggiori. Tolstoj ha parlato spesso di resistenza passiva, ma la non-resistenza elaborata in Transvaal era una forza infinitamente più attiva della resistenza che un uomo armato può offrire e sono lieto di ricordare il fatto che in una lunga lettera che mi scrisse, senza esserne richiesto, disse che i suoi occhi erano puntati su di me ovunque fossi. E se studierete i movimenti del Sudafrica e dell’India, troverete come questa cosa sia capace di infinita espansione» (cit. da Manara, p. 108-109).
Ho sottolineato alcune parole: – da Tolstoj Gandhi ricava grande forza; – differenza delle due forme di non-resistenza; – fondamenta poste dal maestro; – aggiungere all’eredità del maestro; – ciò che Gandhi ha imparato da Tolstoj ha dato frutti molto maggiori; – la non-resistenza degli indiani in Sudafrica era infinitamente più attiva; – gli occhi di Tolstoj erano puntati sull’azione di Gandhi.
Quanto alla lunga lettera di Tolstoj, si tratta dell’ultima, del 20 settembre 1910 (meno di due mesi dalla morte di T), lucidissima. Dobbiamo notare che:
1) Gandhi enfatizza la reale attenzione di Tolstoj (“i suoi occhi erano puntati su di me ovunque fossi”) sulla sua azione in Sudafrica e in India;
2) in realtà la lettera di Tolstoj non è totalmente spontanea, perché c’è un carteggio in corso tra loro due;
3) l’elogio dell’azione di Gandhi è soprattutto nella lettera di Certkov (il segretario tuttofare e, pare, un po’ impiccione) del 27 settembre che accompagna quella di Tolstoj.
Questo riconoscimento, e l’aggiunta (termine capitiniano!) gandhiana, ci mostreranno ora le differenze tra Tolstoj e Gandhi.

6 – Gandhi dice le differenze tra lui e Tolstoj
Nel 1920 (dichiarazione alla Commissione Hunter), Gandhi scrive con forza: «Il satyagraha differisce dalla resistenza passiva come il Polo Nord dal Polo Sud».
Nel 1931, nel seguito dell’intervento dell’8 dicembre a Losanna, Gandhi insiste sulla differenza tra satyagraha e resistenza passiva. La radicale novità del satyagraha è che chi lotta così sceglie di non infliggere all’altro alcuna sofferenza, ma di accettarla su di sé.
E ciò è possibile a tutti: vecchi, donne e bambini, purché dotati di forza morale (riassunto da Manara, p. 110).
Ciò rende possibile una rivoluzione popolare nonviolenta e politica, mentre Tolstoj promuoveva una rivoluzione religiosa e culturale, non politica operativa, salvo la fondazione di alcune comuni, e la noncollaborazione dei funzionari pubblici e dei soldati di leva.

7 -Differenze oggettive tra Tolstoj e Gandhi

7/1 – Sulla resistenza
La non-resistenza di Tolstoj è diversa dalla nonviolenza-satyagraha di Gandhi.
Tolstoj sembra spesso identificare la resistenza al male con la violenza (Bori-Sofri, p. 210, nell’ultima lettera a Tolstoj; p. 191, nella Lettera a un hindù, cap. V).
Gandhi romperà l’equazione resistenza = violenza e farà resistenza al male senza fare violenza.
Del resto, Tolstoj ha precisato più volte che intende l’evangelico «Non resistere al male» (Matteo 5,39, che è per lui il nocciolo del messaggio di Gesù), come «non resistere al male col male».
Sia Tolstoj che Gandhi conoscono e hanno a che fare con le correnti terroristiche nei loro paesi.
Vi si oppongono costruttivamente entrambi: Tolstoj più sul piano morale-profetico, pre-politico; Gandhi più sul piano attivo-politico, sulla base morale chiarificata da Tolstoj.
Giuliano Pontara (Saggio introduttivo a Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, p. XXVIII) scrive: «È importante che la nonviolenza gandhiana non venga identificata con la posizione del tradizionale pacifismo religioso, del quale il maggior esponente è forse Lev Tolstoj».

7/2 – Sull’uccidere
Pontara (ibidem, p. XXX) sottolinea che il rifiuto che Gandhi oppone alla violenza non è di carattere assoluto.
Addirittura, per Gandhi, «uccidere può essere un dovere» (ivi p. XXXIII e p. 69).
Vedi il caso classico del pazzo omicida tra la folla, oppure l’eutanasia per pietà, o il caso del cane idrofobo, o delle scimmie che distruggono il raccolto.
Per Tolstoj, invece, il non uccidere è assoluto; un vero cristiano non ucciderà nemmeno il pazzo dell’esempio fatto da Gandhi (si può leggere questo caso estremo, in Il Regno di Dio è in voi, p. 40-41, riassunto in Milone, Tolstoj e il rifiuto della violenza, p. 122).
Vedi anche il fatto, narrato da Tolstoj, dell’esame di religione della ragazza, la quale afferma che uccidere è sempre vietato, mentre il prelato insegna che è permesso uccidere in guerra e come pena capitale (nell’ultima lettera di Tolstoj a Gandhi, in Bori-Sofri, p. 211).

7/3 – Sull’abolire la violenza nella vita e nelle strutture
Per Tolstoj sono da abolire, mediante la non collaborazione e l’obiezione di coscienza, tutte le istituzioni, che usano la violenza.
Per Gandhi, invece, nessuna attività è possibile senza un certo grado di violenza, quindi «ciò che dobbiamo fare è limitare questa violenza quanto più possibile».
L’imperativo di Gandhi non è tanto il negativo “Astieniti dalla violenza” quanto il positivo (kantiano) «Agisci in modo tale che la tua azione porti alla maggior riduzione possibile della violenza a lungo termine e in tutte le sue forme!» (v. Pontara, citato, pp. XXXII-XXXIII).

7/4 – Schematicamente:
Tolstoj è predicatore-profeta, Gandhi è sperimentatore-innovatore: è stato chiamato il “Galileo della scienza dei conflitti”.
Tolstoj rifiuta ogni violenza, Gandhi costruisce la cultura e i metodi per il superamento progressivo della violenza.

7/5 – Sullo stato
Sull’antistatalismo di Tolstoj, osservo (da uno spunto in Milone, p. 173) che l’istituzione stato ha due facce, può essere vista da due punti di vista.

Un punto di vista più pessimistico-disperato:
1 - Lo stato sancisce la violenza da cui nasce (E. Krippendorff, Stato e guerra, Gandhiedizioni 2008)
2 - Lo stato pone qualche regola-limite, imperfettissima, all’homo homini lupus
a) L’unica nonviolenza possibile è la democrazia, cioè contare le teste invece di tagliarle (è questa la posizione di Norberto Bobbio e della sua scuola), cioè il rispetto dei diritti umani e la tolleranza delle opinioni diverse.

Un punto di vista più ottimistico-impegnato:
a) La “legge della vita” è la cooperazione sociale-politica; essere per gli altri, “amore” effettivo (Tolstoj e Gandhi)
b) Sorge una domanda-ricerca-speranza: la convivenza umana saprebbe attuarsi meglio con istituzioni associative nonviolente, invece che con l’impero della legge sanzionata da pene, cioè da violenza contro violenza? Tolstoj nega tribunali e pene; Gandhi oscilla tra il programma di autoamministrazione dei villaggi, senza potere statale, e un certo maggiore adattamento realistico allo stato.

Due critiche dello stato:
1 - di sinistra, in nome della nonviolenza: Capitini indica l’onnicrazia (il “potere di tutti”) come aggiunta e compimento della democrazia; e i “centri di orientamento sociale”, invece dei partiti rivali, come luoghi di elaborazione condivisa delle scelte sociali.
2 - di destra, in nome del liberalismo individualistico: v. la destra statunitense che insiste sul diritto costituzionale a difendersi da soli con le armi per non sottostare allo stato (Internazionale 22 ottobre 2010, “Cittadini a mano armata”, pp. 56-60), a curarsi coi propri mezzi economici, giudicando “socialista” la riforma sanitaria di Obama, tendente all’uguale diritto alla salute.

Tra le dichiarazioni di Gandhi sullo stato, alcune spingono i nonviolenti a non accettare cariche politiche (come voleva Tolstoj), mentre altre volte Gandhi li autorizza.
Nel 1940, Gandhi prevede uno stato nonviolento che non avrà esercito, ma probabilmente avrà ancora bisogno di una polizia: «Questo, lo confesso – dichiara Gandhi – è un sintomo dell’imperfezione del mio ahimsa», ma «le sue file saranno composte da seguaci della nonviolenza.
Questi saranno i servitori e non i padroni del popolo».
«La forza di polizia disporrà di alcune armi, ma ne farà uso solo raramente, se non addirittura affatto.
Di fatto i poliziotti saranno dei riformatori»1.
«L’India sta cercando di sviluppare una vera democrazia, ossia libera dalla violenza»2.
È interessante evidenziare che proprio nel Sudafrica delle prime esperienze gandhiane, nei primi anni del Novecento, alla fine dello stesso secolo si è verificato un importante e molto innovativo esperimento di giustizia nonviolenta con il processo “Verità e Riconciliazione”.
Questo metodo, con la mediazione dello stato, ha affrontato le violenze dell’apartheid razziale e le loro conseguenze non sulla base di pene vendicative, non di amnistie generali, ma mediante operazioni serie e concrete, veritiere, di riconoscimento della dignità offesa delle vittime da parte dei colpevoli, che ricevevano amnistia personale a condizione di ristabilire il rapporto umano violato e, in assenza di ciò, ricevevano le pene giudiziarie tradizionali.3

Enrico Peyretti, 24 novembre 2010
Testo per il convegno di studi nel centenario della morte di Lev Tolstoj, indetto dal Centro Gandhi e dal Corso serale dell’IPSSAR G. Matteotti
Pisa 16 novembre 2010

Note
1Teoria e pratica della nonviolenza, p. 144. Su questo punto è necessario ricordare la differenza tra forza e violenza, contro una confusione verbale anche voluta (vedi l’espressione corrente “forze armate” per dire l’esercito attrezzato per la violenza, non per la sola forza di contenimento), quindi la differenza tra polizia ed esercito. Vedi l’articolo Distinzione tra forza e violenza, in http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti&p=2
2 Ivi, p. 141.
3 Cfr una sintesi della vicenda nel mio contributo al volume di AA VV, Teoria e pratica della Riconciliazione, Edizioni Qualevita, 2009, (info@qualevita.it), pp. 39-50.

sabato 28 settembre 2013

Nietzsche e la nascita della filosofia contemporanea

Da "http://www.giuseppecirigliano.it/filos_storia_nietzsche.htm" :

Quantunque la mentalità positivista sia tutt'altro che scomparsa, la filosofia contemporanea ha reagito ad essa per vari motivi.
Soprattutto essa ha posto in dubbio l'oggettività della scienza, disconoscendole il merito (affermato dai positivisti) di essere l'unica forma valida di conoscenza, ed anzi ponendo come fondamento della conoscenza stessa non più la ragione (ritenuta incapace di cogliere l'essenza del reale) bensì un'altra facoltà: per esempio l'intuizione o la volontà.
L'attacco più deciso, non solo al positivismo, ma all'intera tradizione filosofica, fu portato da Friedrich Nietzsche (1844-1900), la cui opera ha determinato una svolta radicale nel pensiero contemporaneo.

A partire da lui, infatti, la filosofia non solo è entrata in dubbio sui criteri di verità (e dunque sulla validità del proprio sapere), ma riconosce e dichiara che non vi sono più criteri validi.
In nessun'altra epoca, come quella che si apre dopo Nietzsche, si trova un accordo generale, proprio tra i grandi filosofi, nel manifestare con tanta chiarezza l'insufficienza della filosofia.
           Come ha scritto Gianni Vattimo: "ecco lo scenario che si apre dopo Nietzsche e che funziona da sottofondo a tutto il pensiero del Novecento. E si usa indicare questo scenario col termine nichilismo, che è appunto di matrice nietzscheana, e a cui si collegano tutte le altre formule che caratterizzano la filosofia di Nietzsche: volontà di potenza, eterno ritorno, superuomo."

Il nichilismo

 
Il concetto di nichilismo cominciò a formarsi nella mente di Nietzsche nel 1882, quando egli segnalò con la "morte di Dio" la fine di ogni trascendenza e, con essa, il dissolversi dei valori tradizionali. Lo stesso motivo venne poi sviluppato nel libro più celebre di Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883-1885), e trovò un compendio illuminante in un brevissimo testo del Crepuscolo degli idoli (1888), intitolato "Come il mondo vero finì per diventare favola".

Ma la sua più chiara formulazione si trova in un frammento che risale al 1888:
           Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al perché?; che cosa significa nichilismo? - che i valori supremi si svalutano".
Il nichilismo è dunque la mancanza di senso che subentra quando viene meno la forza vincolante e consolante delle risposte tradizionali al "perché?" della vita e dell'essere in generale, determinando quella condizione di insensatezza e di assurdità che investe l'uomo contemporaneo e che è attestata anche in letteratura, ad esempio da grandi scrittori come Kafka e Pirandello.

La critica alla tradizione

 
Ma come si è giunti a questa condizione?
           Per comprendere la risposta di Nietzsche a questa domanda occorre richiamare l'asserto platonico secondo cui gli uomini sono spinti a filosofare dalla "meraviglia" che essi provano quando, di fronte agli accadimenti del mondo, ne ignorano le cause.
           A questo proposito risulta assai interessante (anche se non altrettanto convincente) l'interpretazione di Emanuele Severino, il quale ha sottolineato che la parola greca thàuma, che traduciamo con "meraviglia", ha in realtà un significato molto più intenso: essa indica anche lo stupore attonito di fronte a ciò che è strano, imprevedibile, mostruoso.

Se infatti non si conoscono le cause di ciò che accade, allora l'accadimento delle cose è inquietante e diventa fonte di terrore e di angoscia.
Dunque, affermando che la filosofia nasce dalla meraviglia, Platone, secondo Severino, intende dire (anche se evita di sottolinearlo) che la filosofia nasce dal terrore provocato dalla imprevedibilità del divenire.
Proprio per sottrarsi a questo terrore, secondo Nietzsche, Platone ha instaurato il dualismo tra mondo delle idee e mondo sensibile, assegnando verità al primo e annullando così il senso profondo del divenire.
Egli, insomma, ha sdoppiato la realtà: da un lato ha posto il mondo ideale delle pure essenze, eterne, indistruttibili, vere; dall'altro il mondo degli enti materiali, caduchi, inessenziali, non-veri.
E a partire da Platone, la filosofia ha cercato altri idoli in grado di riscattare l'inessenzialità del mondo.
           Ma Nietzsche afferma che il rimedio è stato peggiore del male.

Infatti tutte le varie realtà immutabili evocate dalla metafisica (Essere, Origine, Causa, Idea, Sostanza...), culminanti nel concetto di Dio, rappresentano sì il rimedio contro il terrore provocato dalla imprevedibilità del divenire, ma un po' alla volta presentano anch'esse un volto terrificante: perché distruggono la vita, rendendo impensabile quell'evidenza originaria che consiste nel continuo divenire di tutte le cose.

Il nichilismo e l'eterno ritorno

 
La civiltà occidentale (socratico-platonico-cristiana) è dunque per Nietzsche affetta da quel nichilismo che lo stesso filosofo apostrofava come "il più inquietante degli ospiti".

Un ospite scomodo, sinistro, di cui non è facile liberarsi proprio perché la sua espulsione non può avvenire con un ritorno ai falsi valori del passato, che hanno solo dissolto il vero senso della vita.
           Affinché il nichilismo possa essere superato, occorre che esso giunga a compimento; e perché ciò avvenga è necessario pensare questo pensiero nella sua forma più terribile: l'esistenza, così com'è, senza senso e senza scopo, ma inevitabilmente ritornante, senza un finale, nel nulla: l'eterno ritorno.

Questa è la forma estrema del nichilismo: il nulla (la mancanza di senso) eterno.
           Il compimento del nichilismo richiede dunque il pensiero dell'eterno ritorno.

Ciò significa che non dobbiamo pensare soltanto che la vita non si prefigge nulla e che nulla insegue nella sua corsa se non (ciecamente) se stessa: ma dobbiamo pensare anche che tutto questo ritorna eternamente.
La conclusione di Nietzsche è coerente: il carattere complessivo del mondo è caos per tutta l'eternità.

Il superuomo e la volontà di potenza

 
Ma chi può mai essere in grado di sopportare questo terribile pensiero, che sembra rendere insostenibile l'esistenza?
           Intanto, è superfluo ripetere che la liberazione dal nichilismo non consiste, per Nietzsche, in un ritorno impossibile ai falsi valori del passato.

La soluzione sta invece nell'amor fati, cioè nella capacità (e volontà) di accettare totalmente la vita, che non concede il bene senza il male, la salute senza la malattia, l'ascesa senza la decadenza, la verità senza la finzione, in un eterno ritorno della medesima vicenda di nascita-morte, creazione-distruzione.
E tale accettazione sarà propria ed esclusiva del superuomo (o oltreuomo: Übermensch).
           Questa figura non va intesa nel senso di un essere prodigioso che abbia potenziato a dismisura le facoltà dell'uomo normale, ma come colui che, esprimendo la massima concentrazione di volontà di potenza, accetta appunto l'eterno ritorno delle cose pronunciando un "sì" incondizionato alla vita, in tutti i suoi aspetti, "al di là del bene e del male", perché l'unico mondo reale, per quanto minaccioso e terrificante è il mondo dell'esperienza.

Il superuomo è dunque colui che ama incondizionatamente il proprio destino (amor fati), accettandone "gioiosamente" anche le conseguenze che alla gioia uniscono il dolore e la morte.
           Anche i bambini sanno che il profeta dell'avvento del superuomo è lo Zarathustra dell'opera omonima di Nietzsche, mentre Nietzsche stesso non fu in grado di interpretare un tale ruolo... Ed impazzì.

Conclusione su Nietzsche

 
Anche se il carattere frammentario dell'opera di Nietzsche rende difficile un'esposizione lineare del suo pensiero, è facile rilevare che l'analisi del nichilismo, l'ipotesi dell'eterno ritorno, la figura del superuomo e la dottrina della volontà di potenza sono connesse in una sequenza teorica coerente. 

Il concetto di nichilismo resta comunque l'eredità più rilevante trasmessa da Nietzsche non solo alla filosofia del Novecento, ma anche alla letteratura (ne risentono, per limitarci a due nomi soltanto, autori fondamentali come Thomas Mann e Robert Musil).

Paul Valéry

Da WikiPedia:

La crisi di Genova

Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1892, a Genova cadde in ciò che avrebbe poi descritto come una grave crisi esistenziale. Al mattino era deciso a ripudiare gli idoli della letteratura, dell'amore e dell'imprecisione per consacrare l'essenza della sua vita a ciò che indicò come la via dello spirito: ce lo testimoniano i suoi cahiers, diari nei quali si costringe ad annotare ogni mattino tutte le sue riflessioni.
Dopo di cui, aggiunge come battuta di spirito, avendo consacrato queste ore alla via dello spirito, mi sento in diritto di essere sciocco per il resto del giorno.
Aveva quindi escluso completamente la poesia dalla sua vita?
No, anche se, a suo dire, ogni poema che non avesse la precisione esatta della prosa non ha nessun valore, oppure, come aveva affermato Malherbe, la tiene alla stessa distanza del suo predecessore che aveva detto molto più seriamente che un buon poeta non è più utile al suo paese di quanto non sia un buon giocatore di bocce.
Ad ogni modo, Valéry indicò ripetutamente questa notte come la sua vera nascita, l'inizio della sua vita mentale.
Nel 1894, si trasferì a Parigi, dove trascorse il resto della sua vita, e dove cominciò a lavorare come redattore al ministero della guerra.
Rimase lontano dalla scrittura poetica per consacrarsi alla conoscenza di sé e del mondo.
Segretario personale di Edouard Lebey, amministratore della Havas, la prima agenzia di stampa, si affannava ogni mattino all'alba alla redazione dei suoi Cahiers, diari intellettuali e psicologici, che vedranno la pubblicazione, non interamente, solo dopo la sua morte.
Nel 1900 sposò Jeannine Gobillard, con cui ebbe tre figli.

La jeune Parque

Nel 1917, sotto l'influenza principalmente di André Gide, ritornò alla poesia, con La Jeune Parque, pubblicato presso la Gallimard, a cui seguirono un altro grande poema, Le Cimetière marin (1920) e una raccolta, Charmes (1922).
Sotto l'influsso di Stéphane Mallarmé, privilegiò sempre nella sua poetica il formale dominio a scapito del senso e dell'ispirazione.
Dopo la prima guerra mondiale, divenne una sorta di "poeta ufficiale" immensamente celebre che, nella sua mancanza di interesse verso le cariche e gli onori, si diverte a vedere gli ossequi di cui è circondato.
Nel 1924, venne eletto presidente del Pen Club francese, poi membro dell'Académie française l'anno seguente.
Seguirono anni di cariche sempre più importanti, al consiglio dei musei, al centro universitario di Nizza, la presidenza della commissione di sintesi per la cooperazione culturale per l'esposizione universale del 1936; nel 1937, addirittura, una cattedra (quella di poetico al Collège de France) venne creata appositamente per lui.
Infine, nel 1939 divenne presidente onorario della SACEM.
Ma durante tutto questo tempo, la sua vera professione continuava nell'ombra: la profondità delle riflessioni che diede alle stampe in opere consistenti (Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, La soirée avec monsieur Teste), i suoi studi sul divenire della civiltà (Regards sur le monde actuel) e la sua viva curiosità intellettuale lo resero un interlocutore ideale per Raymond Poincaré, Louis de Broglie, Henri Bergson e Albert Einstein.

L'occupazione nazista

Sotto l'occupazione, essendosi rifiutato di collaborare, Valéry perse il suo posto d'amministratore a Nizza. Morì il 20 luglio 1945, poche settimane dopo la fine del secondo conflitto.
Il presidente francese Charles de Gaulle richiese per lui funerali di stato, dopo i quali venne sepolto a Sète, al cimitero del mare che aveva già celebrato nel suo famoso poema.
Dopo la sua morte, furono pubblicati alcuni estratti dei suoi diari, i Cahiers, ai quali consegnava quotidianamente l'evolversi della sua coscienza e le sue relazioni con il tempo, i sogni, il linguaggio.

I "Cahiers"

I Quaderni di Valéry (261 quaderni manoscritti, 26.600 pp.), vero e proprio "laboratoire intime de l'esprit" schiudono a numerose riflessioni, filosofiche, estetiche, religiose ed antropologiche.
Essi testimoniano la perenne ricerca che animò la sua riflessione intorno ad ambiti diversi, tesa, in un primo momento, a cercare un "système" di operazioni mentali esteriorizzabili, che a loro volta costituissero la compiuta messa in forma del "travail de l'esprit"; vi si scoprono le sue inquietudini sull'eternità della civilizzazione (Le nostre civilizzazioni sanno adesso d'essere mortali), sul futuro dei diritti dello spirito, sul ruolo della letteratura nella formazione, e la retroazione del progresso sull'uomo; la critica ai concetti "vaghi e impuri" di cui si serve la filosofia (quali, ad esempio, spirito, metafisica, interiorità), quindi la conseguente azione di "repulisti" della situazione verbale, oltre che un'insospettata componente affettivo-spirituale che aspira a liberarsi da un "divino" istituzionalizzato per recuperarlo in maniera pura, scevra di ogni contaminazione fiduciaria.
La serie Variété, invece, si compone di scritti di tutt'altro tono: quelli che gli sono stati richiesti e che, senza alcun dubbio e per sua stessa confessione, non avrebbe mai scritto.
Non sono meno testimoni di altri della profondità di analisi spesso abbagliante (si legga in particolar modo Notre destin et le lettres, in Regards sur le monde actuel).
La sua corrispondenza, segnatamente quella con André Gide, ma anche quella con Gustave Fourment, André Fontainas e Pierre Louÿs è stata ormai pubblicata interamente, mentre la totalità dei Cahiers è consultabile nella biblioteca del Centre Pompidou di Parigi; inoltre, i principali manoscritti inediti sono conservati per la maggior parte presso il Dipartimento dei Manoscritti Occidentali e Orientali della Bibliothèque Nationale di Parigi (site Richelieu).
Questo materiale è tuttora in corso di pubblicazione, specialmente ad opera dell'Equipe des Etudes Paul Valéry (ITEM-CNRS).


Da WikiQuote:

Citazioni di Paul Valéry

  • Il genio si muove nella follia, nel senso che si tiene a galla là dove il demente annega.
  • [Su Marcel Proust] Il suo modo di scrivere si collega senza dubbio alla nostra migliore tradizione. Qualcuno fa notare che le sue opere non sono di lettura molto facile. Ma io non mi stancherò mai di affermare che dobbiamo accogliere con entusiasmo gli autori difficili del nostro tempo. Se qualcuno li leggerà, non sarà solamente per la loro piacevolezza. Essi ci riportano a Montaigne, a Descartes, a Bossuet e ad altri che vale forse ancora la pena di leggere.
  • Il vero snob è colui che non osa confessare che s'annoia quando s'annoia e che si diverte quando si diverte. (da Melange)
  • La fede (religiosa) è forse un mito. I credenti che si incontrano sono posseduti innanzitutto dai propri interessi. Ma se si prescinde dalla loro sorte, dalle loro paure, dai loro bisogni − la loro fede non è niente. (da Quaderni, 1894-1945)
  • La Francia, dove l'indifferenza in materia di religione è tanto comune, è anche il paese dei miracoli più recenti. Negli stessi anni in cui Renan sviluppava la sua critica e il positivismo o l'agnosticismo si diffondevano, un'apparizione illuminava la grotta di Lourdes.
  • La marchesa uscì alle cinque. (citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993)
  • La venerazione del passato conduce a un pessimismo ingiustificato sul presente e impedisce di capire che l'avvenire non è già più quello che era. (da Letterature)
  • Nell'arte della danza, i movimenti dei corpi non hanno nessun fine. (citato in Corriere della Sera, 18 giugno 2003)
  • O credente, ammetto che hai un ideale, e il tuo lume nella tua foresta; pensi che io non abbia il mio? Ma mentre il tuo l'hai ricevuto e accettato senza quel severissimo esame che il problema merita, se ha qualche importanza; e mentre ti giunge dalla bocca altrui, bell'e fatto e articolato, il mio si forma nei miei tentativi − ed è inseparabile da essi, se addirittura non vi si confonde completamente. È la ricerca il mio espediente, e non potrei trovare niente che valga di più della propria ricerca, compreso l'ideale da assegnarsi. (da Quaderni, 1894-1945)
  • Quando non si può attaccare il ragionamento, si attacca il ragionatore. (citato in Marco Travaglio e Peter Gomez, Inciucio, BUR, 2005)
  • Quello che viene creduto da tutti, per sempre, dovunque, ha molte probabilità di essere falso.
  • Verona, con le sue vecchie mura che l'attorniano, i suoi ponti dai parapetti merlati, le sue lunghe e larghe vie, i suoi ricordi del medio evo, ha una grande aria che incute rispetto.[6]

Album di versi antichi

  • Sento i corni profondi e le trombe militari | ritmare la volata dei remi; il chiaro canto | dei curvi vogatori incatena il tumulto, || e gli Dei, sulla rupa eroica esaltati | nell'antico sorriso che la schiuma insulta | tendono a me le braccia indulgenti e scolpite. (da Elena)
  • Qual cuore può soffrire l'incanto inesorabile | della notte abbagliante e il firmamento fatale | senza erompere un grido puro siccome un'arma? (da Lo stesso incanto)
  • Si bagna un carneo frutto in una giovane vasca, | (azzurro nei giardini tremanti) ma fuor d'acqua, | isolando la chioma che ha forza d'elmo, splende | l'aureo capo che tronca alla nuca una tomba. (da Bagnante)
  • Quanto lamento il puro e fatale tuo splendore | da me sì dolcemente circondata o fontana, | dove attinsero gli occhi in un mortale azzurro | la mia immagine d'umidi fiori incoronata! (da Narciso parla)
  • Estate, roccia d'aria pura, e tu, ardente alveare, | o mare! Sparso ovunque in mille mosche sopra | i cespi di una carne fresca come una brocca, | e fino nella bocca dove ronza l'azzurro, || e, casa ardente, Spazio, caro Spazio tranquillo, | dove l'albero fuma e perde qualche uccello, | ed infinitamente vi si rompe il rumore | del mare, e del moto e delle turbe d'acque, || conche d'odori, grandi cerchi delle felici | stirpi sul golfo che corrode e che ascende al sole, | nidi puri, cascate d'erbe, ombre d'onde cave, | cullate la fanciulla immersa in un fondo sonno. (da Estate)
  • Anna che in bianco drappo si avvolge e abbandona | i dormenti capelli sugli occhi male aperti, | contempla le sue braccia mollemente adagiate | sulla pelle incolore del ventre discoperto. || Ella vuota, ella riempie d'ombra il suo petto lento, | e come un ricordo che preme le sue carni, | una bocca spezzata e piena d'acqua ardente | svolge il sapore immenso ed il riflesso dei mari. || Alfine in abbandono, libera d'esser nuova, | l'addormentata sola dall'ombre colorate | fluttua sul grigio letto e con un labbro riarso | nella tenebra sugge un soffio amaro di fiore. || E sul lenzuolo dove increspa l'alba insensibile, | cade, d'un braccio gelido sfiorato di carminio, | la rilassata mano cui sfugge la delizia | tra le sue dita ignude spogliate dall'umano. (da Anna)
  • E m'abbandono all'adorabile corso: leggere, vivere dove conducono le parole. La loro apparizione è scritta; le loro sonorità concertate. Il loro agitarsi si compone, seguendo un'anteriore meditazione, ed esse si precipiteranno in magnifici gruppi o pure, nella risonanza. Gli stessi miei stupori sono fissati; essi sono celati in anticipo e fanno parte del numero.
    MOSSO dalla scrittura fatale, e se il metro sempre futuro incatena senza ritorno la mia memoria, io risento ogni parola in tutta la sua forza, per averla infinitamente attesa. Questa misura che mi trasporta e che io coloro, mi protegge dal vero e dal falso. Né il dubbio mi divide né la ragione mi affatica. Nessun caso, ma soltanto una sorte felice si fortifica. Io trovo senza sforzo il linguaggio di questa felicità; e artificiosamente penso un pensiero tutto certo, meravigliosamente preveggente, dalle pause calcolate, senza tenebre involontarie, il cui moto mi domina e la quantità mi colma: un pensiero eccezionalmente compiuto. (da L'amatore dei poemi)

Cattivi pensieri

  • Il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà.
  • A volte penso, a volte sono.
  • Ogni mente è plasmata dalle esperienze più banali.
  • Ogni pensiero costituisce un'eccezione a una regola generale: quella di non pensare.
  • Giudica le intelligenze facendo attenzione a dove mirano.
  • Le idee hanno un valore puramente transitivo.
  • Abbiate timore di ciò che avreste potuto pensare.
  • La maggior parte degli uomini ignora tutto ciò che non ha nome; e la maggiora parte crede all'esistenza di tutto ciò che ha un nome.
  • L'animale messo nella situazione critica, quella in cui i suoi automatismi d'azione non funzionano più, tende verso il pensiero.
  • Un uomo è intelligente quando manifesta una certe indipendenza dalla comuni aspettative.
  • L'intelligenza fa di nulla qualcosa, e fa di qualcosa nulla.
  • Proseguire, perseguire qualcosa significa lottare contro ogni cosa.
  • Non c'è nessuna profondità che sia in relazione con qualche infinito.
  • Ogni perché implica molte cose che bisogna guardarsi bene dal porre dopo di esso.
  • La retina rende tutto contemporaneo.
  • La coscienza regna e non governa.
  • Con le etichette delle bottiglie non ci si ubriaca né ci si disseta.
  • Il bisogno del nuovo è indice di stanchezza o di fragilità della mente, che reclama ciò che le manca. Non c'è nulla, infatti, che non sia nuovo.
  • L'uomo porta su di sé la propria morte come un segreto, un tesoro nascosto, un pegno certo della fine di ogni cosa- un nulla, che riassume il tutto.
  • Senza saperlo, l'uomo scommette quasi tutto il tempo della sua vita che nei dieci minuti o dieci secondi successivi non sarà fulminato.
  • Quello che non si fa; quel che non si farebbe mai- è questo a deliniare la nostra figura.
  • Non ci si riconosce nelle proprie emozioni. Nulla di più estraneo-di ostile, anzi.
  • Ciò che si è, è sempre un po' di quel che si è stati, e un po' di quel che non si è stati.
  • Soffrire è vivere senza poter vivere; è anzi... essere vissuto da...
  • Chi pensa- si osserva in ciò che non è.
  • Se la vita fosse tutta delizie,/ se la vita fosse tutta tortura,/ non esisterebbe più da un bel po' di tempo.
  • L'assoluto dell'amore si riconosce dall'inquietudine di chi ama.
  • Felicità: l'arma più crudele nelle mani del tempo.
  • La vanità non è altro che l'esser sensibili alla eventuale opinione degli alri su di noi. L'orgoglio nell'essere insensibili ad essa.
  • Quel che dici può dire più di quanto tu creda- se chi ti ascolta è più di quanto tu credi che sia.
  • Se pensi come la maggioranza, il tuo pensiero diventa superfluo.
  • Gli essere sensibili non hanno voce potente, o meglio non gridano. Più quel che dicono li tocca, più l'abbassano.
  • Tutto quel che dici parla di te: in particolar modo quando parli di un altro.
  • È buona cosa apparire brutti in uno specchio deformato.
  • Amare, ammirare, adorare hanno come indice della loro verità i segni negativi del potere di esprimersi.
  • Chi non ha le nostre stesse ripugnanze ci ripugna.
  • È meglio non essere nulla che essere inferiore.
  • Quel che ci colpisce nei giudizi espressi su di noi è l'inevitabile semplificazione che ogni giudizio comporta per poter essere formulato.
  • Non affrontate i vostri nemici. Non fatene degli avversari -ovvero, degli eguali.
  • Il domani è forse per noi come la fascinazione della fiamma per l'insetto.
  • Che il presente invece lo sia per me. (LexMat)
  • La morte è scrutata solo da occhi viventi.
  • Un uomo serio ha poche idee. Un uomo con molte idee non è mai serio.
  • Il vero coraggio è la quantità di simulazione disponibile.
  • Se il Bene, invece che estraneo, incomprensibile, un altrui capriccio, ci apparisse nostro, espressione di ciò che vogliamo profondamente, non ci sarebbe alcun merito ad obbedirgli, poiché non vi sarebbe alcuna amarezza.
  • Quando arriviamo allo scopo, crediamo che la strada sia stata quella giusta.
  • Essere umani vuol dire sentire vagamente che c'è in ognuno qualcosa di tutti e in tutti qualcosa di ognuno.
  • La verità è nuda, ma sotto il nudo c'è lo scorticato.
  • Il semplice è sempre falso. Ciò che non lo è, è inutilizzabile.
  • Quale gioiello della vita, quale adamantino momento varrà mai il dolore che può causare la sua perdita?
  • La speranza vede il punto debole delle cose.
  • Ogni emozione, ogni sentimento mette in rilievo un difetto di adattamento.
  • Le qualità eminenti dell'intelligenza si esercitano a spese del reale.
  • Il reale è solo un caso particolare.
  • Ci sono cose che si possono esprimere solo in una ganga di sciocchezze, con delle assurdità, delle contraddizioni. Sventura vuole che siano le più preziose.
  • L'uomo può creare solo a spese della Creazione.
  • Chi vuole imporre le proprie idee non crede abbastanza nel loro valore.
  • Ciò che ci manca, ciò che ci ferisce ci individua.
  • I pensieri che uno serba per sé si perdono.
  • Non sei forse l'avvenire di tutti i ricordi che sono in te?
  • Una persona non è altro che risposte ad una quantità di avvenimenti impersonali.
  • Di "universale" c'è soltanto ciò che è abbastanza grossolano per esserlo.
  • Ciò che è sempre nella mente quasi mai è nelle labbra.
  • Un'opinione è una scelta che facciamo conoscendo solo una parte delle cose e supponendo di vederne la totalità e tutte le conseguenze.
  • L'"individuo" è un errore sulle condizioni della vita. Per la vita non ci sono individui.
  • La brava gente augura, senza saperlo, tutto il male possibile al "cattivo soggetto".
  • L'umanità è una somma di inumani [...] senza altri un uomo non è un uomo.
  • Gli autori si pongono molto raramente la domanda: che interesse può avere per un lettore la frase che ho appena scritto?
  • L'opinione media non conta.
  • Un capo è un uomo che ha bisogno degli altri.
  • La "civilizzazione" è prospettiva.
  • La vita perde in velocità ciò che guadagna in varietà, in complessità, in conservazione.
  • Se vuoi vivere, vuoi anche morire; oppure non capisci che cos'è la vita.
  • Proverbio per i potenti: se qualcuno ti lecca le scarpe, mettigli il piede addosso prima che incominci a morderti.
  • Una donna intelligente è una donna con la quale uno può essere stupido quanto vuole.

Il sorriso della Gioconda

  • Il pittore dispone su una superficie piana determinati impasti, le cui linee di separazione, gli spessori, le fusioni e contrasti, gli servono per esprimersi. Lo spettatore vi scorge soltanto un'immagine più o meno fedele di carni, gesti e paesaggi, come attraverso la finestra del muro d'un museo. Il quadro è giudicato in base allo stesso spirito con cui si giudica la realtà.
  • Credo che il metodo più sicuro per giudicare un quadro, sia quello di non riconoscervi, in principio, nulla, e di fare successivamente tutta la serie d'induzioni imposta da una presenza simultanea di macchie di colore in metafora, di supposizione in supposizione, la comprensione del soggetto, e talvolta solo la consapevolezza del piacere, consapevolezza che non sempre si ha inizialmente.
  • Quel sorriso [della Gioconda] è sepolto sotto una massa di vocaboli, e scompare fra innumerevoli paragrafi che cominciano col dichiararlo inquietante finendo poi in una descrizione d'animo generalmente vaga. Esso meriterebbe tuttavia studi meno inebrianti. Leonardo non si serviva affatto di osservazioni inesatte e di segni arbitrari: se così fosse, la Gioconda non sarebbe mai stata eseguita. Egli era guidato da un'indefessa capacità di discernimento.
  • Una teoria non vale che per i suoi sviluppi, logici e sperimentali.
[Paul Valéry, Varietà, a cura di Stefano Agosti; citato in La Fiera Letteraria, n. 40, 14 novembre 1971]

L'idea fissa

Incipit

Ero in preda a grandi tormenti; certi pensieri acutissimi e attivissimi mi guastavano tutto il resto della mente e del mondo.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]

Citazioni

  • Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia.
  • Un'idea è un cambiamento.
  • Come si fa a pretendere che il Tutto sia rappresentato da un'immagine o da un'idea qualunque? Il Tutto non può avere figure consimili.
  • Ogni concetto è un espediente.
  • Altri così facendo, immaginano di avvicinarsi a... ciò che essi sono, a costo di una concentrazione e di una sorta di... negazione esteriore assai penosa.
  • La nostra speranza è che il nuovo assomigli a ciò che già conosciamo almeno quel tanto da poterlo comprendere.
  • Il cinema è falso tramite il vero.
  • valori Il problema principale del sistema che pensa è la valutazione.
  • "Perché non vuole accettare ciò che esiste?" "Perché significherebbe non accettare più di esistere".
  • "Morti di che?" "D'essere nati..."
  • Se noi capissimo gli altri, non potremmo più capire noi stessi.
  • La vita oggi somiglia a un accidente... che si è dato delle leggi.
  • Un uomo non è nulla finché non qualcosa non trae da lui degli effetti o delle produzioni che lo sorprendono.
  • In ogni istante coincido con ciò che tendo a percepire. Ognuno di noi, insomma, a un dato momento della sua vita è un sistema... virtuale di attrazioni e repulsioni, nonché di... presentimenti di potenza e di resistenza. Ma questa distribuzione varia col tempo.
  • Non c'è alcun motivo per cui un essere vivente possa arrivare a rappresentarsi la vita.
  • "Il fatto è che la nostra previsione di noi stessi è estremamente incerta..." "Probabilmente perché non esiste un Noi stessi al di fuori... dell'istante..."
  • Se il valore di una cosa viene fatto dipendere dall'effetto di sorpresa che è in grado di produrre, si arriverà a definire quella cosa solo attraverso il suo valore di choc...
  • Il misticismo è presente ogni volta che facciamo qualcosa di diverso dal... ripeterci!
  • Il nostro mondo è circoscritto dall'insiemo combinato delle nostre percezioni e dei nostri atti.

Tel Quel

  • La politica è l'arte di impedire alla gente di impicciarsi di ciò che la riguarda.
  • Fra due parole bisogna scegliere la minore.
  • Un uomo tirava a sorte tutte le sue decisioni. Non gli capitò maggior male che a quelli che riflettono.

Variété

  • Definire il Bello è facile: è ciò che fa disperare.
  • L'Europa diventerà quello che in realtà è, cioè un piccolo promontorio del continente asiatico?
  • La storia è la scienza delle cose che non si ripetono. (IV)

Incipit di alcune opere

Il cimitero marino

Questo tetto tranquillo, passeggio di colombe,
palpita tra i pinastri, tra le tombe.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]

Monsieur Teste

La stupidità non è il mio forte.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]

Citazioni su Paul Valéry

  • Come teorico Valéry è andato troppo avanti per poter essere seguito; è andato avanti per conto suo, e questo non è progresso. (Mario Picchi)
  • Esponente di una cultura raffinata, attraverso Gide e Claudel aveva le sue radici in Mallarmé, Valéry portò la parola alle estreme possibilità espressive con un rigore che trova pochi esempi nelle poetiche del secolo. Il giudizio di Emilio Cecchi, "il maggior lirico francese dopo Baudelaire", non trova più riscontro nella realtà. (Mario Picchi)
  • Fa a volte bei versi, ma li fabbrica con la macchina dell'intelletto... Ma anche l'intelletto suo è disorganico, frammentario. È un dilettante dell'intelligenza. (Benedetto Croce)
  • Il maggior lirico francese dopo Baudelaire. (Emilio Cecchi)
  • Valéry è stato oggetto di ammirazione per molti; è stato per molti un faro che, in una zona di frontiera, al limite del noto e dello ignoto, si sforzava di mandare la sua luce anche laddove non c'era nulla da illuminare. (Mario Picchi)


Da "http://rebstein.wordpress.com/2009/05/16/elogio-della-lentezza-paul-valery-e-la-forma-della-poesia-di-giuseppe-panella/" :

Elogio della lentezza. Paul Valéry e la forma della poesia

di Giuseppe Panella

«La calma nell’azione. Come una cascata diventa nella caduta più lenta e sospesa, così il grande uomo d’azione suole agire con più calma di quanto il suo impetuoso desiderio facesse prevedere prima dell’azione.»
(Fredrich Nietzsche, Umano, troppo umano, I)

     1. La soluzione etica della poesia
Fedele ammiratore della snella levigatezza della danza, Valéry teme la fretta e la concitazione della corsa, ha timore della frenesia concatenata alla perdita di sensibilità del moto senza tregua.

Più che dal vuoto (1), appare atterrito dal movimento infinito e senza senso che incontra ad ogni pie’ sospinto: il rifiuto di “ogni prodigioso incremento di fatti e di ipotesi” (2) compare in quasi tutte le sue opere. Basteranno alcuni specimina a dimostrarlo:
« – Vuole dire che più si trova, più si cerca; e che più si cerca, più si trova?
- Esatto. Certe volte mi sembra che fra la ricerca e la scoperta si sia formata una relazione paragonabile a quella che i stabilisce fra la droga e l’intossicato.
– Molto curioso. E allora tutta la trasformazione moderna del mondo…
– Ne è il risultato; e ne rappresenta, del resto, un altro aspetto … Velocità. Abusi sensoriali. Luci eccessive. Bisogno dell’incoerenza. Mobilità. Gusto del sempre più grande. Automatismo del sempre più “avanzato”, che si manifesta in politica, in arte, e … nei costumi» (3).
L’idea fissa, dialogo tra il Narratore ed un medico, è del 1931 (4) mentre in quella raccolta di études de circonstance che è il volume Regards sur le monde actuel (1945) spicca proprio un articolo, “Propos sur le progres”, che insiste sul carattere “terroristico” della velocità e della fretta.
Consapevole del fatto che la nozione di progresso come evento positivo e la sua negazione come “nuova barbarie” siano entrambi luoghi comuni, Valéry ritiene il progresso e la morte inestricabilmente connessi. In un passo che sembra anticipare Theodor Wiesengrund-Adorno nei Minima Moralia (5), l’atteggiamento astorico della velocità del cambiamento viene coniugato con la consapevolezza (che ad esso è collegata) della sicura caducità del mondo:
«L’un des effets les plus sûrs et les plus cruels du progrès est donc d’ajouter à la mort une peine accessoire, qui va s’aggravant d’elle-même à mesure que s’accuse et se précipite la révolution des coutumes et des idées. Ce n’était pas assez que de périr; il faut devenir inintelligibles, presque ridicules; et que l’on ait été Racine ou Bossuet, prendre place auprès des bizarres figures bariolées, tatouées, exposées aux sourires et quelque peu effrayantes, qui s’alignent dans les galeries et se raccordent insensiblement aux représentants naturalisés de la série animale» (6).
Se il progresso come tale implica la sempre più veloce erosione del passato, se la capacità di consumo della bellezza diventa sempre più elevata e l’illeggibilità del mondo una consuetudine, è anche vero che la sintesi che l’impetuoso sviluppo produttivo delle risorse disponibili impone serve ad unificare ciò che apparentemente sembrerebbero quantità inconciliabili : potenza e precisione (7).
Il discorso finora abbozzato non deve servire soltanto a mostrare un aspetto del Valéry polemista, analizzatore delle vicende a lui contemporanee e partecipe in misura critica di modificazioni che non sempre arriva ad accettare (anche se si tratta pur sempre di una sfaccettatura della produzione valéryana che non sempre è stata tenuta nel giusto conto (8), sacrificandola alla retorica del “puro canto dell’ Io” e del “linguaggio più puro della tribù” (9)).
L’azione poetica consiste sempre per il poeta autentico in lente progressioni, in circonvoluzioni avvolgenti, in avvicinamenti circospetti e, tuttavia, ambiziosi: Valéry vuole sempre giungere alla totalità e alla totalità sacrifica la possibilità, permettendo ad essa di rifluire in quella, coinvolgendole entrambe nella stessa dinamicità.
La verità si coglie attraverso la linea serpentina della bellezza (10), la “lunga impazienza” (11) durante la quale si tessono “i leggerissimi sistemi” della creazione artistica (12), non certo mediante la malia ansiosa della facilité. Artefici sono ragni e serpenti, platani e palme, filatrici e ballerine (13).
I poeti sono rigorosi costruttori di improbabilità, coloro che sanno procedere per paragoni e analogie (14), coloro la cui intelligenza si rivela dans un ordre insensé (15), coloro che sanno improvvisare senza smettere di pianificare o di pensare.
Il fare poetico coincide con il pensiero e l’intelletto si palesa come poesia. Per questo motivo, le immagini della poesia coincidono con quelle della mente e le parole non possono che essere subordinate ad esse.
Ha scritto Chateaubriand che “si dipinge bene il proprio cuore soltanto attribuendolo a un altro” (Memorie d’oltretomba). Il proposito di Valéry, tuttavia, pur essendo simile a quello dello scrittore romantico, sembra quello di sostituire coeur con cerveau (16) e, soprattutto, di attribuire al proprio tutti i cervelli altrui possibili.
Il suo punto di partenza è sempre quello con cui si chiude la narrazione della vita intellettuale di Monsieur Teste:
«Si tratta di passare da zero a zero. – E’ la vita – Dall’incosciente e dall’insensibile all’incoscienza ed all’insensibilità. Passaggio impossibile a vedersi, poiché esso passa dal vedere al non vedere dopo esser passato dal non vedere al vedere. Il vedere non è l’essere, il vedere implica l’essere» (17).
Da ciò si può intravedere, allora, l’importanza del progresso étonnant [...] que a fait la lumière (18), la fondamentale necessità della visione netta e precisa per la composizione ed il tratto, l’amore mai sopito per “la precisione” e “la certezza” che emanano dalle figure delle ballerine (19).
Il passaggio dallo zero allo zero non è la fine o la cancellazione totale della visione, come, a prima vista, si potrebbe intendere (oppure mera eco del Descartes della Diottrica (20) ), ma una sua estensione, la sicurezza che il vuoto del visibile aiuti o annunzi il di più che viene colto e conosciuto mediante l’atto della visione:
«Étrange pouvoir de l’absence! – Plus je te forme et te ressens, plus je souffre – Plus je suis maître de ton image, plus esclave de celle-ci; et plus elle est vrai, plus est vaine» (21).
L’assenza, il vuoto, la mancanza non sono gli aspetti negativi della visione, ciò che la rendono impossibile; sono, invece, ciò che la sostanza visibile mostra di sé insieme a quello che viene veduto. Così l’apparente mancanza di sforzo delle ballerine dei quadri di Degas mostra ciò che nasconde mentre rivela la fatica aerea del rimanere sempre in movimento e mai poter riposare – ciò che per Socrate accomuna lo spirito alla danza.
Allo stesso modo, “il male dell’attività ” che coglie il dottore in L’idea fissa è reso per simulazione:
«Riassumendo, appena mi sento assegnare un’ora, un luogo, un atteggiamento del corpo o dello spirito ai fini dello svago, tutto il mio essere protesta: sbadiglia, fugge… Mi metto a pensare agli affari miei, ai miei malati, al mio mestiere, a una cosa qualsiasi…» (22).
Il dottore “simula” di perdere tempo per non doverlo fare per davvero (ha detto precedentemente di dormire a teatro, di essere esasperato al cinema, di stancarsi viaggiando, di trovare insopportabili i romanzi) (23); in questa modo, si stanca artificialmente quando non può farlo sul serio. Lo stesso avviene per l’attività artistica dove lo sforzo della creazione non può essere rivelato se non nel momento in cui è già in atto. La costruzione compiuta, solo apparentemente ricoperta dal fascino della facilità dell’invenzione, si rivela alla visione come assenza e, contemporaneamente, come affermazione di ciò che comporta in termini di sforzo e fatica.
La danza, come la poesia, emerge attraverso il suo prevalere sull’assenza e per la prepotenza della sua tensione ideale rispetto al vuoto che caratterizza la massima tra le mancanze: la vita. La danza (ancora come la poesia) costruisce su un vuoto (che è quello della vita ordinaria) la sua piramide di esaltazione e di ebbrezza:
«Fedro. Ma da parte mia, Socrate, la contemplazione della ballerina quante cose mi rende concepibili, e quanti legami di cose che sul momento si mutano nel mio proprio pensiero e in qualche modo pensano in luogo di Fedro. Sorprendo in me bagliori che non avrei per nulla ottenuto dall’unica e sola presenza della mia anima» (24).
Ma la poesia (come la danza) non è soltanto esaltazione; è, al fondo dell’azione creativa, riflessione, consolidamento, destino.
In una parola, produzione consapevole a partire dalla capacità di costruzione del nesso (o di nessi plurimi, possibili) tra parola e sensazione, tra idea e sua trasformazione in opera. Valéry sintetizza questo procedimento, arricchendolo delle sue valenze deduttivo-epistemologiche, in un neologismo: l’implexe (25).
« [...] l’ Implesso non è attività. Tutto il contrario. E’ capacità. La nostra capacità di sentire, reagire, fare, comprendere – individuale, variabile, più o meno percepita da noi –, e sempre in maniera imperfetta, e sotto forme indirette (come la sensazione di fatica), spesso ingannevoli. A ciò bisogna aggiungere la nostra capacità di resistenza … [...] Riassumendo, intendo per Implesso ciò in cui e per cui siamo eventuali … Noi, in generale; e Noi, in particolare …» (26).
Eventualità coincide con possibilità e, inevitabilmente, con opportunità. L’Implesso non solo individua ciò che è necessario nel momento in cui lo è (tropismo dell’ Implesso), ma prova a trasformarlo in qualcosa che possa sempre essere attirato ed utilizzato al momento giusto. La sua funzione produttiva, dunque, diventa sostanzialmente gnoseologica portandosi al limite estremo della conoscenza per afferrare quel “residuo nascosto” che è il margine delle possibili verifiche alla sua operatività. L’ Implesso valéryano rende possibili conoscenze che altrimenti, in quello stesso momento, tenderebbero a rendersi a loro volta méconnaissables.
La ragion d’essere dell’implexe è, dunque, tutta nella sua capacità di sviluppare le potenzialità (espresse o inespresse che siano).
«L’Implesso, infatti, è definito come una memoria potenziale o funzionale proprio in opposizione alla memoria storica, legata cioè ai ricordi personali [...]. Poiché il passato ha valore solo come elemento d’avvenire, le reliquie della vita vissuta sono del tutto prive d’interesse: per Valéry, ciò che conta davvero è l’eventuale, l’implicito. Ed è per questo che il rifiuto della sensibilità, avviato nel 1892 e realizzato sia in Teste sia in Gladiator con la sostituzione di un essere puro ad un essere storico, si attuerà pienamente in Napoleone, l’individuo sovrastorico padrone del futuro» (27).
Per la sua capacità di “secernere il domani” (28), nel suo abbandono pieno ed incondizionato al “male dell’attività”, Napoleone viene rappresentato da Valéry come il modello dell’uomo moderno, che non vive se non nell’anticipazione del futuro, attraverso il presente, non ponendosi il problema del passato. La sua figura attraversa continuamente la ragnatela dei rapporti che produce e, pur essendo sempre presente nell’insieme delle relazioni che senza di lui non potrebbero essere, non si risolve completamente in essi. In ciò è singolarmente vicino all’esperienza (spirituale e corporea insieme – di fusione totale, quindi) che la danza trasmette e produce. Come continua Valéry :
«– [...] Dottore, sa che Napoleone ne ha dato una definizione splendida?
– Ancora Napoleone?
– Ogni tanto. D’altronde è il modello dell’uomo moderno, dell’uomo che ha perduto il tempo, visto che non sapeva perdere il proprio.
- E cosa ha detto Napoleone?
- Un giorno, in una lettera, ha scritto: “Io vivo sempre due anni in anticipo”. Per quest’uomo il presente non esisteva.
                                     [...]
- [...] si tratta di sapere cosa dia la sensazione di vivere di più, se la presenza estrema …dell’istante, o la presenza estrema … del possibile» (29).
La danza, in misura maggiore delle altre attività artistiche dell’uomo, concede questa sensazione “estrema del possibile”. In nome della vita che sempre vuole rinnovarsi per poter ritrovare se stessa, “misterioso moto che col giro d’ogni evento mi trasforma senza tregua in me stesso” (30), la danza partecipa della realtà e, nello stesso tempo, se ne distacca serenamente ed aerodinamicamente per ritornarvi poi ed essere restituita alla terra.
Tra danza e vita esiste un rapporto lieve, fatto di una rassomiglianza impalpabile, eppure immediatamente riconoscibile:
«La vita è una donna che danza – dice Socrate ad Erissimaco, nel dialogo L’anima e la danza – e che finirebbe divinamente d’esser donna se lo slancio che la solleva, potesse lei obbedirvi sino alle nuvole. Ma come noi non possiamo andare all’infinito, né in sogno né in veglia, egualmente lei torna sempre se stessa: termina d’esser piuma, uccello, idea, e insomma ogni cosa in cui al flauto piacque di tramutarla, in quanto la terra medesima che la respinse ora la richiama e la restituisce anelante all’indole sua di donna e all’amato» (31).
La figura di questa esperienza al limite può essere individuata in quel geniale repertorio della danza e delle sue artefici mirabili che costituisce l’opera pittorica di Degas (32) e la sua ratio sistematica nel volumetto che Valéry dedicò al grande pittore parigino (33).
Ma prima di passare ad esaminare le ragioni estetiche dell’implexe e della loro comunicabilità attraverso un’esperienza artistica che sembra raggiungere la propria acme in una sorta di velocissima immobilità figurale, sarà opportuno interrogare le ragioni etiche che spingono Valéry a subordinare la fretta ed il parossismo della velocità contemporanea alla lentezza delle “secrezioni” delle possibilità.
E’ indubbio che, per Valéry, esista una specie di “imperativo categorico” dell’estetica e del fare poetico senza del quale non sarebbe possibile creare o, per lo meno, aspirare a pro-durre arte e letteratura. Tale necessità “imperativa” impedisce di negare, da un punto di vista esclusivamente estetico, la fatica e la pesantezza della costruzione di ogni opera d’arte ed esperimenta l’esistenza di un ostacolo di natura etica, il quale, come avviene spesso nella sfera delle opzioni morali, nasce da una scelta opposta a quella del simpatetico aderire alle flessuose curvature dell’esistenza.
La bellezza della ballerina (sempre in movimento, apparentemente senza fatica, nella sospensione dell’attimo della felicità estatica) si contrappone alla volontà e alla scelta della vita come rottura dell’equilibrio creato da quell’attimo, come mossa volontaria che rimette in volo la freccia ferma della conoscenza.
La scoperta della lentezza annulla l’ idea fissa della continua attività come auto-realizzazione così come la comprensione della suprema armonia dell’accordatura del mondo annulla la necessità di un continuo moto atto e ostinato nell’intento di poterla raggiungere.
Lentezza e perfezione si sposano in una ininterrotta attesa dell’opportunità del possibile, nella paziente ricerca della zona di confine e del margine adeguato a far transitare il noto nell’ignoro, la vita nell’arte, la scelta di essere sempre e comunque al posto di quella di sprofondare nel suo oblio naturale.

     2. Rimanere pur sempre in gioco : nonostante Zenone
Maria Teresa Giaveri traduce il celebre secondo emistichio del primo verso della strofa XXIV del Cimetière marin con bisogna tentare di vivere!; Manlio Dazzi, invece, volge lo stesso verso in Tentiamo di vivere!; Beniamino Dal Fabbro, ancora, spezza l’emistichio in due ulteriori tronconi con Bisogna tentare di vivere!. Infine, Mario Tutino, nella sua traduzione del 1963, scrive: E di nuovo, la vita! (34).
Non si tratta qui di dare torto o ragione o compilare le pagelle di merito per alcuno degli interpreti di un testo stilisticamente e linguisticamente così arduo : tutti coloro che si sono cimentati con Il cimitero marino (comunque si siano prodigati a risolvere gli enormi problemi di resa testuale che gli si ponevano dinnanzi) hanno dato di questo verso cruciale per tutta la poesia del Novecento un’interpretazione apparentemente simile, sicuramente corretta sintatticamente, ma pur sempre diversa da un punto di vista grammaticale (35).
Dall’enunciato imperativo della traduzione Dal Fabbro (Bisogna tentare…) all’esortazione morale di Dazzi (Tentiamo di vivere) all’enigma gnoseologico proposto da Tutino (E di nuovo, la vita!) alla costruzione di un programma esistenziale nel bel calco, sobrio e liricamente più efficace, della Giaveri (e non è poi il caso di proseguire con l’esame di tutti gli altri traduttori del Cimetière marin, perché sono ancora legione), tutti i dettati delle traduzioni lette concordano su un punto.
L’appello alla vita intesa come slancio e come rifiuto delle “pagine del libro” non è proponibile in termini di programma etico, ma va ridotto a “tentazione” della soggettività, di quell‘ Io che rifiuta l’esatto in nome del confuso e variegato mondo mortale.
La proposta etica di Valéry è diversa, anche se parrebbe confondersi con l’empito vitalistico dell’ufficiale di marina che trascorre, insaziato, il mare aperto alla ricerca consapevole di ciò di cui ancora non ha consapevolezza.
Il Vivere dobbiamo del Cimetière non ha nulla a che vedere con il navigare necesse est, non vivere della tradizione di Ulisse e non comporta neppure l’ossequio a quella tradizione umanistica della ricerca che si fa un merito di aver portato il proprio cervello al di là dell’ostacolo.
Per Valéry, non si tratta tanto di scoprire, quanto di trovare. E ogni invenzione si può paragonare ad una produzione, è, in realtà, una forma di produzione. Si trova, solitamente, ciò che si sa già come cercare e si cerca quello che è consueto, prevedibile e previsto, già atteso.
Non si attende ciò che non si saprebbe definire, ciò cui non si saprebbe dare forma.
Nel verso di Valéry, esortazione e descrizione si giustappongono nell’emissione della massima, nella serena mancanza di difficoltà dell’apodissi (36).
Non solo traduzione, tuttavia, quanto conclusione, cercata con l’aiuto della tradizione, proposta sulla base di una necessità : quella di rimettere in moto il meccanismo della vita stratificato, congelato, irretito dalla dinamica stagnante del paradosso insoluto che si trasforma in rompicapo e via senza uscita.
La “necessità” del vivere non nasce dall’elogio della dimensione ludica dell’esistere né dallo sfogo vitalistico di anti-intellettualismo quanto da una forma superiore di sapere, da una capacità più alta di conciliare il paradosso dell’essere e del pensare, del sapersi destinato ad una sapienza imprecisa ed inseguirla costantemente.
L’infedeltà del sapere è quello che costringe Monsieur Teste alla sua continua ricerca di verità concettuali. Negli Estratti del giornale di bordo del signor Teste, infatti, si può leggere:
«Quel che io vedo mi accieca. Quel che odo mi assorda. Ciò che io so mi rende ignorante. Io ignoro in quanto e per quanto io so. Questa illuminazione davanti a me è una benda e copre una notte o una luce più … Più che cosa? Qui si chiude il cerchio d’uno strano capovolgimento: la conoscenza come nebbia sull’essere; il mondo illuminato quale macchia della vista ed opacità. Togliete tutto affinché ci possa vedere» (37).
E ancora, più avanti, con accenti socratici, ma senza lo stesso pathos platonico della Ricerca della Verità:
«Quel che io porto d’ignoto a me mi rende me stesso. Quel che io ho di inabile, d’incerto è pure me stesso. La mia debolezza, la mia fragilità… Le lacune sono la mia base di partenza. La mia impotenza è la mia origine. La mia forza viene da voi. Il mio moto va dalla mia debolezza verso la mia forza. [...] Se io ne sapessi di più, forse, invece di questo caso, vedrei una necessità. Ma vedere tale necessità è già cosa distinta … Ciò che mi spinge non è me» (38).
La percentuale d’impossibilità del signor Teste è la prova della sua esistenza. Teste è un paradosso e, come tale, non può essere superato se non a livello superiore, attraverso uno scatto metafisico. Per scavalcare Teste e andare otre d lui, occorre vivere.
Il cimitero marino è la risposta necessaria ai dubbi del signor Teste. Risposta oltremodo problematica, d’altronde. Il problema fondamentale di Teste, infatti, è:
«Che cosa può l’uomo? Io combatto tutto – tranne le sofferenze del mio corpo, oltre una certa dimensione. Proprio di lì tuttavia dovrei cominciare ad affondare in me stesso. Perché soffrire significa dare a qualcosa un’attenzione suprema, ed io sono un po’ l’uomo dell’attenzione [...] Chi mi parla, se non mi prova qualcosa, è un nemico. Preferisco il rilievo del più piccolo fatto accaduto. Io sto esistendo e sto vedendomi; sto vedendomi vedere e così di seguito … Pensiamo con precisione. Ci si addormenta su qualsiasi argomento… Il sonno continua qualsiasi idea …» (39).
La risposta di Valéry al suo self fittizio arriverà molti anni dopo e solo per contrasto con la fuggente e nostalgica malia del serpente che avvolge con le sue spire il mondo incontaminato della Jeune Parque.
Il cimitero marino nasce dall’attrazione mai repressa in Valéry per una poesia di immagini e di azioni (non di parole o di atteggiamenti psicologicamente astratti o stereotipati), per una lirica che non sia pura espansione di uno stato d’animo, ma riflessione e risposta al suo problema.
Nonostante l’accusa di cliché (40) (e nonostante la conferma un po’ ironica dello stesso poeta già nelle lettere degli anni Quaranta), continuo a credere che l’ultima strofa dell’ode sia effettivamente la conclusione di una ricerca non solo poetica.
Il “bisogna pur vivere” della poesia di Sète non serve soltanto a chiudere definitivamente il “libro” (con tutte le suggestioni che l’idea del Libro potrebbe suscitare nel lettore dell’ultimo Mallarmé), ma a chiudere il conto con “il vero tarlo, il verme inconfutabile”, il quale “vive di vita, e mai non mi lascia!” (41); serve soprattutto a tacitare quel “dente segreto” (42) che “vede, vuole, sogna, tocca!” (43).
E’ qui che Valéry, non casualmente, esige di dare un nome possibile alla sua “assenza pregna” (44), alla futura e “magra immortalità nera e dorata” (45).
Il tarlo (o dente) segreto è quello del paradosso: Zenone prima, Achille e la tartaruga poi compaiono come elementi di una serie cui non si può mettere fine, se non troncandola.
Il principio di contraddizione che è alla base dei paradossi temporali degli stoici (e che Valéry evoca poeticamente) non può essere tolto perché i paradossi che lo esibiscono non ne partecipano compiutamente. Nelle parole di Gilles Deleuze:
«La forza dei paradossi risiede in questo: non sono contraddittori, ma ci fanno assistere alla genesi della contraddizione. Il principio di contraddizione si applica al reale e al possibile, ma non all’impossibile da cui deriva, cioè ai paradossi o, piuttosto, a ciò che rappresentano i paradossi» (46).
I paradossi, solitamente, non possono essere risolti e ricondotti alla doxa; possono essere superati solo in nome del buon senso o della reductio ad absurdum.
Valéry evita il paradosso dello “spietato Zenone” (47) sulla base del buon senso e della dimostrazione pratica della sua impossibilità (”Il suono mi dà vita e la freccia mi uccide” (48)), ma non può che far ricorso ad una logica superiore per superare le insidie (”l’ombra di tartaruga per l’anima” (49)) del secondo paradosso.
Il ricorso è all’ “era successiva” (50), al superamento della “forma pensosa” (51) e l’approdo ad una conoscenza piena, che eviti la domanda di Monsieur Teste sulla potenzialità e la trasformi in descrizione: la teoria dell’ Implesso, appunto, o la vasta, tenace, fittissima, incontrovertibile, incorruttibile ragnatela dei Cahiers (52) o dei saggi raccolti nei diversi volumi di Varieté.
Il paradosso scatta quando urge una forma superiore di conoscenza (è, peraltro, questo uno degli insegnamenti maggiori di “maestri in paradossi” quali Pascal o Kierkegaard che se ne sono costruiti un’affilatissima arma dialettica).
Di fronte all’impossibilità di tener fede alla promessa di Monsieur Teste o di seguire dettagliatamente il metodo appreso studiando l’opera di Leonardo da Vinci (”mi propongo di immaginare un uomo di cui sarebbero apparse azioni così distinte che se mi soffermo a supporre dietro di esse un pensiero, non riesco a vederne di più estesi. E impongo a lui un sentimento della differenza delle cose così vivo, che le avventure di tale sentimento potrebbero benissimo denominarsi analisi. Mi accorgo che ogni cosa lo orienta: è all’universo cui egli costantemente pensa, e al rigore” (53)), Valéry sceglie la strada della composizione.
Anch’essa è un’altra vita da vivere, dopo quella dell’astrazione e del paradosso. Ma non credo neppure che l’inserzione (seppure essa sia stata animata da un sentimento di assoluta libertà) dei paradossi del moto sia stato evento casuale o frutto di un movimento intellettuale repentino (il caso dell’onda marina che scuote lo scafo della nave, richiamato da Valéry stesso, è emblematico di un simile modo di pensare comune): i due “falsi” modelli di moto sono il simbolo di ciò che blocca, ferma, impedisce la vita e il pensiero in maniera definitiva e, come tali, sono proprio “quello che l’uomo non può” in quanto ne negano ogni potenzialità ed ogni opportunità costitutivamente.
“Tentare di vivere” significa, forse, ritornare a pensare la totalità: con lentezza, con pazienza, con la convinzione che non si raggiunge definitivamente l’obiettivo se non costruendolo.
Anche di questo, tuttavia, consiste l’avventura estetica.

     3. La scelta estetica : la poiesis
Valéry ha dedicato molte pagine in quasi tutti i suoi libri all’elogio della danza.
Lo ha fatto sia descrivendola direttamente, sia dedicandosi all’analisi del pittore che ha legato il suo periodo migliore alla rappresentazione delle sue forme plastiche, Edgar Degas (54).
In L’idea fissa, ad esempio, la danza è chiamata in causa per giustificare la natura “funzionale” dell’idea e la sua necessità “organizzativa”: la danza come simbolo dell’istantaneità della durata.
«E’ infinitamente più difficile sostenere qualcosa che non affaticarsi spostandosi. La durata costa cara. Si direbbe che la specializzazione prolungata ripugni al nostro sistema vivente. Ci richiama energicamente allo stato di libera disponibilità… Per esempio, Dottore, io soffro realmente nel vedere una ballerina che si alza sull’alluce…» (55).
Lo scarto di sensibilità prodotto dal patire è reso necessario per poter reggere appieno il peso della sofferenza: la ballerina con il suo “dito che sorregge tutto il suo corpo” (56) è simbolo dell’instabilità dell‘”Implesso” e della sua capacità potenzialmente restauratrice dell’equilibrio alterato dalla sofferenza o dallo sforzo.
La figura della ballerina che si spinge verso l’alto con la sola forza della sua muscolatura e, nello stesso tempo, conserva la sua eleganza e la sua flessuosità affascina Valéry sino a farne il segno della poesia “autentica”.
La danza, secondo un celebre paragone di Malherbe, è simile alla poesia mentre la marcia, invece, ricorda la prosa. La differenza più marcata tra marcia e danza è data dall’apparente mancanza di scopo che contraddistinguerebbe quest’ultima: marciare significa andare dritti verso una meta, danzare significa cercare il proprio obiettivo in se stessi.
Proprio questo sembra che facciano le ballerine avvitate intorno al proprio corpo quando campeggiano al centro dei quadri di Degas.
Valéry ha scritto a proposito di Mallarmé e dell’attrazione che provava per la sua poesia che uno degli aspetti che sempre lo avevano affascinato maggiormente nel poeta parigino era il carattere di sfida della sua scrittura poetica. L’esigenza intellettuale che la lettura dei suoi poemi comportava era tale da renderne la “risoluzione istantanea” pressoché impossibile, pur essendo consegnata ad uno stile cristallino.
«Chi non rifiutava i testi complessi di Mallarmé, si trovava costretto, inavvertitamente, a imparare di nuovo a leggere» (57).
Il rifiuto della facilità si sposava alla certezza di star componendo qualcosa che sarebbe cresciuto come “una figura nel tempo” (58) ed invitava alla sfida ed allo sforzo.
«Lo sforzo più splendido – scrive sempre Valéry – degli umani è di mutare il loro disordine in ordine, e le probabilità in potere ; questo è il vero prodigio. Mi piace chi è duro verso il proprio genio» (59).
E conclude:
«Quanto a me, confesso che non afferro quasi nulla d’un libro che non mi opponga resistenza» (60).
Lo stesso avviene al poeta di Sète quando contempla le figure dipinte da Degas. Anch’egli, come Mallarmè,
«rifiutava la facilità, come rifiutava tutto quello che non fosse l’unico oggetto dei suoi pensieri. Non sapeva augurarsi che d’approvare se stesso, ossia d’accontentare il più difficile, il più duro e incorruttibile dei giudici. [...] M’ero fatto di Degas l’idea di un personaggio ridotto al rigore di un duro disegno: uno spartano, uno stoico, un giansenista artista. Avevo scritto poco tempo prima la Serata col signor Teste, e quel piccolo studio d’un ritratto immaginario, sebbene fatto di notazioni e relazioni verificabili, precise quanto potei, non è escluso che più o meno sia stato influenzato, come si dice, da un certo Degas che mi figuravo» (61).
Degas è un altro dei personaggi “mitici” che fondano l’universo poetico e teorico di Valéry, popolandolo con le loro aspirazioni alla perfezione, con la loro ricerca incessante, con la loro volontà di essere precisi fino all’annullamento del dubbio, con la loro capacità di annullare l’ Io a favore dell’opera.
Il signor Teste racchiude molti di questi tratti eponimi, ma la descrizione di Degas è forse quella che si avvicina di più all’ideale.
Proprio perché realizzata sulla figura di un uomo realmente esistito, la trasformazione in sagoma mitica riesce più facilmente. Leonardo da Vinci era troppo lontano nel tempo e troppo regolarmente e metodicamente interpretato, smitizzato, anatomizzato, per non risultare l’insieme dei diversi frammenti in cui la critica specializzata lo ha ridotto. L’ Introduzione al metodo non investe che di sfuggita il suo oggetto-Leonardo; Degas Danza Disegno illumina pienamente l’ambito di lavoro e la ragion d’essere dell’opera di Degas.
Nessun compiacimento biografico, nessun bozzettismo, nessuna tentazione al “ritratto in miniatura”: Degas si identifica con il tratto ed il disegno e questi ultimi fanno quadrato insieme alla danza. La danza rappresentata nei quadri di Degas, infatti, non è simbolo o allegorica prefigurazione dell’essenza della vita; ne è, invece, l’anima.
Per Valéry, infatti, la danza coincide con la forma più “nobile” di entropia. La gioia, la collera, l’ansia, l’angoscia, lo stesso sforzo del pensiero producono un dispendio di energia che non viene indirizzata da nessuna parte, che si disperde nello spazio e non viene concentrata nel tempo.
«Ma esiste una forma degna di nota d’un tale dispendio delle nostre forze: consiste nell’ordinare o nell’organizzare i nostri movimenti di dissipazione. Abbiamo detto che in questa sorta di movimenti lo spazio non era che il luogo degli atti: esso non contiene il loro oggetto. Adesso, è il tempo ad aver la parte maggiore. E’ il tempo organico quale lo si ritrova nel regime di tutte le alterne funzioni fondamentali della vita. Ciascuna d’esse s’effettua con un ciclo d’atti muscolari che si riproduce, come se la conclusione o il perfezionamento di ciascuno generasse l’impulso del seguente. Su tale modello le nostre membra possono eseguire una serie di figure che si concatenano le une alle altre, e la cui frequenza produce una sorta d’ebbrezza che va dal languore al delirio, da una sorta d’abbandono ipnotico a una sorta di furore. Lo stato di danza è creato» (62).
Non diversamente Socrate aveva descritto la forza del legame tra danza ed oblio della condizione umana, tra divina esaltazione del gesto e rifiuto della pesante staticità dei mortali.
Degas coglie la danza nel momento del distacco, quando tra consapevolezza tecnica basata sulla conoscenza dei gesti e slancio verso l’abbandono totale non c’è che un minimo diaframma.
Il disegno accurato e teso fino a cogliere il minimo particolare gli permette di rappresentare nel “volo” delle ballerine, nei loro movimenti aggraziati e spontaneamente costruiti, nel loro essere sempre consapevoli della bellezza del loro gesto e contemporaneamente nel loro essere sempre del tutto insoddisfatte di esso, il miracolo della durata.
Lo sforzo, la fatica, il peso del corpo da sostenere durante l’azione vengono annullate dai tratti del suo pennello e del suo carboncino in nome di una simmetrica ripetizione di movimenti che partecipano dell’incomprensibilità e del fascino della musica.
Degas è il grande pittore della musicalità: riesce a rendere con tocchi pittorici ciò che gli strumenti permettono di ascoltare durante la performance del concerto.
Degas è il poeta della danza proprio perché è in grado di rappresentarla senza scomporla, di mostrarla senza falsarne l’armonia, di metterne in luce le potenzialità senza paralizzarla.
Per questo motivo, “il disegno non è la forma, ma la maniera di vedere la forma” (63).
Questo assioma tanto caro a Degas (il quale lo considerava una sorta di definizione generale del suo lavoro) potrebbe, nonostante le differenze strutturali nell’attività artistica da descrivere, essere utilizzato per mostrare la dimensione poietica della poesia in Valéry.
L’arte nasce, infatti, dalla “produzione artificiale di uno stato poetico”; ciò che la caratterizza e, in primo luogo, caratterizza la poesia è la compresenza di fare poetico e farsi della poesia che procedono di pari passo realizzandosi attraverso quella strategia di caso e ferrea volontà che ne sono la sostanza.
«Che l’artista sia un giocatore che tenta la fortuna è stato felicemente detto da Valéry, il quale proprio perché accentua il “calcolo” può concedere tanto posto al “caso”; e che l’artista sia in fondo soltanto spettatore della propria opera è sostanzialmente idea, certo meno felice, di Alain» (64).
Ma proprio nel caso dell’opera poetica di Valéry non si può fare a meno di rilevare come il poeta sia tanto più “spettatore” di se stesso che produce quanto più questa sua produzione sia stata propiziata dal carattere di evento che essa vuole assumere. Ogni opera d’arte, di conseguenza, in quanto evento, ha il suo destino, che è il frutto della pratica lenta e creativa del poièin di cui è portatrice.
Se del farsi dell’opera d’arte gli artisti conoscono compiutamente il prezzo, non altrettanto può dirsi della genesi che ha permesso loro di realizzarla.
Come Sergio Givone sintetizza efficacemente, individuando il dire cela, sans savoir quoi che informa la pratica poetica di Valéry:
«Si tratta dunque di scoprire qual è l’organo e quale l’origine del processo di formazione e di esecuzione dell’opera; per riconoscere, poi, sia la funzione dell’organo [...] sia la collocazione dell’ origine [...] e per determinare di entrambi, conseguentemente, l’intrinseca storicità [...]. Egli distingue l’ “emozione poetica” dall’ “emozione comune”, contrapponendo all’universalità di quella la particolarità di questa e caratterizzando la prima come dotata di una sensation d’univers, cioè di una forma di percezione originaria (perception naissante), essenzialmente musicale, in quanto capace di cogliere l’accordo tra il soggetto e l’oggetto (tra le sensazioni e le rappresentazioni) e tra gli elementi dell’oggetto (esseri, cose, eventi e atti, che si compongono in un sistema completo di rapporti)» (65).
E’ alla base di questa ripartizione estetica la celebre descrizione del modo tenuto da Valéry nel comporre il testo definitivo del Cimitière marin (66).
Ma tutto questo non basterebbe egualmente se non si tenesse conto del carattere di attività continua che attraversa sempre l’emozione poetica e la spinge a diventare fatto poetico, rimettendosi in gioco come sensazione per trasformarsi in costruzione.
E’ il carattere di poiesis quale gli è stato riconosciuto da Hans Robert Jauss, ma è anche qualcosa di più, dato che la lunga fatica dell’artefice non si esaurisce (o, comunque, non può esaurirsi soltanto) nell’esperienza estetica “produttiva” e in quella “ricettiva”.
Scrive Jauss:
«Ciò che del “metodo” di Leonardo affascinava Valéry e che egli cercava di chiarire come radice comune tra le entreprises de la connaissance et les opérations de l’art, era la “logica immaginativa” della costruzione, vale a dire di quella forma di prassi che ubbidisce al principio del faire dépendre le savoir du pouvoir» (67).
Credo, tuttavia, che il tentativo valéryano vada oltre la logica della costruzione e che, insieme ad una “poietica”, comporti l’esistenza di una “pragmatica”.
Il grande matematico (e teorico delle catastrofi) René Thom ha “ridotto” il piano di lavoro di Valéry trasportandolo nello spazio e disponendolo su tre dimensioni. In questo modo :
«
                              Philosophie
                              ↕          ↕
                           Science ↔ Art
                                  [...]
L’originalité du projet de Valéry consiste à réaliser la fléche horizontale, court-circuitant ainsi la philosophie ; par là se manifeste sa profonde méfiance à l’égard de tout ontologie. Il croit trouver dans la pragmatique – les “actes” – la possibilité de réaliser une synthèse entre la science, collection de recettes efficaces, et l’art, qui est essentiellent une “poiétique”» (68).
L’importanza della modellizzazione di Thom è data proprio dal fatto che la filosofia viene “cortocircuitata” nella pratica artistica e, quindi, le ragioni dell’arte sono coassiali a quelle della spiegazione del perché sono tali, del perché avvengono.
Ragione dell’evento e ragione del fatto non sono subordinate l’una all’altra, ma sono conseguenti.
La possibilità di analisi espressa dalla proposta di Valéry è, allora, quella che nasce dalla capacità di spiegare invece di descrivere, di mostrare i meccanismi in atto piuttosto che limitarsi ad analizzarli post factum. E’ questa, come si è visto, la ragione dell’ implexe; sarà questa, in conclusione, la ragione della scelta di una critica della ragione poietica in nome dell’attività artistica.
Thom poi continua:
«Comment Valéry a-t-il pu concilier la nécessité de la continuité avec sa philosophie opérationnnaliste ? Je pense – ce fu là son grande drame – qu’il n’a pas pris conscience du caractère contradictoire qu’il y avait entre son mathématisme [...] et sa philosophie opérationnaliste, philosophie qu’il ne cesse de proclamer tout au long des Cahiers, par example: “La science n’est que des actes. Il n’y a de science que des actes. Tout le rest est Littérature» (69).
Nella consapevolezza pragmatica dell’attività poietica (nella coscienza sempre viva, cioè, della necessità della costruzione appoggiata alla sicurezza dell’aleatorietà di quella costruzione stessa) riposa il concetto valéryano di destino. Ed è in quest’ultimo che l’arte trova la sua ragione d’essere, la conferma della sua esistenza.
Non si tratta, tuttavia, di una opzione ontologica quanto della scelta (ancora una volta) della potenzialità dell’essere, potenzialità che esclude, infatti e di conseguenza, la pura presenza sull’orizzonte artistico.
La dinamicità dell’opera nasce dall’intrecciarsi delle sue variabili e queste variabili sono “actes”, azioni e non soltanto fatti, dato che a ciascuna di esse è concessa una potenzialità infinita. Non solo:
«Nessuno può dire – scrive Valéry – che cosa domani sarà morto o sarà vivo in letteratura, in filosofia, in estetica. Nessuno sa quali idee saranno perdute e quali proclamate. L’impossibilità nasce dal fatto che il futuro si genera dal presente in cui coesistono opposti contraddittori, sicché il presente “è nulla, per quanto un nulla infinitamente ricco”» (70).
La possibilità concessa dall’ Implesso si fa, allora, costruzione lenta e laboriosa di azioni dai risvolti multipli, in un continuum mentale (quale è quello prospettato da René Thom) che conosce l’indeterminazione della conoscenza e l’assolutezza del destino. Che è poi quella di produrre in nome dell’ hostinato rigore di leonardesca ascendenza la leggerezza della danza e “l’orgoglio del labirinto” (71). Quanto di più solido e di meno resistente compaia: «come colui che pensa, // la cui anima intende // a crescere se stessa dei suoi doni» (72).
Le immagini della poesia si fanno nel suo straordinario progetto di poetica atti del pensiero e vanno oltre le parole: nel rifiuto della poesia come puro momento verbale risiede la geometrica proposta valéryana della scrittura come capacità di rastremare il concetto e affilarlo in vista della sua realizzazione lirica.
Pensatore del labirinto, l’infinita possibilità dedalica non atterrisce se non il suo lettore, a sua volta costretto alla lenta fatica di un percorso comune.

23

______________________________
Note
(1) Il rimando è alla splendida analisi condotta da Valéry sulla base del frammento di B. PASCAL che consiste in “Le silence éternel de ces espace infinis m’effraie” (lo si trova in Pensées, III, 206 dell’edizione a cura di Léon Brunschvig).
Cfr. P. VALÉRY, “Variazioni su una pensée“, in Varietà, a cura di S. Agosti, Milano, Rizzoli, 1971, pp. 101-108.
(2) P. VALÉRY, L’idea fissa o due uomini al mare, trad. it. e cura di V. Magrelli, Roma-Napoli, Theoria, 1985, p. 45. Sui temi contenuti in questo straordinario dialogo filosofico di Valéry, cfr. quanto ne dice lo stesso Magrelli nel suo Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valéry, Torino, Einaudi, 2002.
(3) P. VALÉRY, ibidem.
(4) La prima edizione del dialogo è del 1932 (per le edizioni dei Laboratoires Martinet di Parigi); la seconda edizione, che reca la celebre frase d’esordio: “Questo libro è figlio della fretta”, è del 1933 (per Gallimard di Parigi).
(5) L ‘allusione non è tanto al saggio “L’artista come vicario” (in T. WIESENGRUND-ADORNO, Note per la letteratura I, trad. it. di E. De Angelis, Torino, Einaudi, 1979) quanto ad alcuni “cammei” presenti nei Minima Moralia (in particolare, cfr. T. WIESENGRUND-ADORNO, Minima Moralia, trad. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 19742, pp. 153-154). Sul rapporto Adorno-Valéry, cfr. A. TRIONE, Valéry. Metodo e critica del fare poetico, Napoli, Guida, 1983, pp. 19-20 e passim.
(6) P. VALÉRY, Regards sur le monde actuel, Paris, Gallimard, 1945 e sgg. , p. 147.
(7) P. VALÉRY, Regards sur le monde actuel cit. , p. 148. Pur apprezzando molto gli sforzi titanici dei traduttori di Valéry, mi guardo bene dal provare a tradurlo in proprio. La prosa di Valéry è troppo chiara per poter essere resa facilmente comprensibile a tutti.
(8) Interessanti eccezioni a questo destino, oltre ai volumi di Magrelli e di Trione già citati, mi sembrano E. DI RIENZO, Il sogno della ragione, Roma, Bulzoni, 1982 ; R. VIRTANEN, “The Egocentric Predicament. Valéry and Some Contemporaries”, in “Dalhousie French Sudies”, (III), 1981, pp. 99-117; M. E. BLANCHARD, “Paul Valéry, Walter Benjamin, André Malraux. La littérature et le discours de la crise”, in “L’Esprit Créateur”, (XXIII), 4, 1983, pp. 38-50. Ma tutto il problema del Valéry “ politico” mi sembra ben lungi dall’essere esaurito.
(9) Nonostante la miriade di scritti sui rapporti Valéry-Mallarmè (cfr., ad esempio, il bel libro di E. NOULET, Suites. Mallarmé, Rimbaud, Valéry, Paris, Nizet, 1964), il miglior saggio su Mallarmé mi sembra pur sempre il ”Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” dello stesso Valéry (cfr. P. VALÉRY, Varietà cit. , pp. 241-257). Sull’argomento cfr. la recente raccolta di scritti di Valéry, Mallarmé et moi, a cura di E. Durante, Pisa, ETS, 1999. Di notevole interesse il contributo di Y. BONNEFOY su “Valéry et Mallarmé” in Aa. Vv. Valéry: le partage de midi. “Midi le juste”, Atti del Convegno internazionale (Collège de France, 18 novembre 1995), a cura di J. Hainaut, Paris, Champion, 1998, pp. 59-72.
(10) L’allusione alla linea sinuosa quale simbolo della bellezza compiuta è nel trattato settecentesco di W. HOGARTH, L’analisi della bellezza, pubblicato nel 1753 (la linea serpentinata compare sul frontespizio dell’opera). Sul pensiero estetico di Hogarth, cfr. l’ ancora ottimo saggio di Filiberto Menna, William Hogarth. L’analisi della bellezza, Salerno, Edizioni 10/17, 1988 (su cui rimando alla mia recensione pubblicata in “Belfagor”, (XLIV), 3, 1989, pp. 356-358).
(11) P. VALÉRY, “Disegno di un Serpente”, in Poesie, trad. it. e cura di B. Dal Fabbro, Milano, Feltrinelli, 19692, p. 128.
(12) P. VALÉRY, “Disegno di un Serpente”, in Poesie cit., p. 126. Sul tema del serpente in Valéry come simbolo del potere della natura e della sua potenza dispiegata quale forma della bellezza, la letteratura secondaria è numerosa. Cfr. A. R. CHRISHOLM, “Valéry’s Ébauche d’un serpent“, in “Journal of Australasian Universities Language and Literature Association”, 1961, 15, pp. 19-29; J. M. COCKING, “Towards Ébauche d’un serpent. Valéry and Ouroboros”, in “Australasian Journal of French Studies”, 1969, 6, pp. 187-215; H. LAURENTI, “Le monstre valéryen”, in “Bulletin des études valéryennes”, 1974, 2, pp. 23-48; J. R. LAWLER, “The Serpent, the Tree and the Crystal”, in “L’Esprit créateur”, (IV), primavera 1964, 4, pp. 34-40 e M. SCOTTI, Ces vipères de lueurs. Il mito ofidico nell’immaginario valéryano, Roma, Bulzoni, 1996.
(13) ” Toute araignée m’attire ” (scrisse una volta Valéry a Gide – cfr. André Gide – Paul Valéry, Corrispondance 1890-1942, Paris, Gallimard, 1955, p. 390). Gli altri personaggi dello “scenario mentale ” di Valéry sono tratti dal “Disegno di un Serpente”, da “Al Platano”, da “Palma” (nel volume di versi Charmes del 1922), da “La filatrice” e “Le vane ballerine” (nel volume Album de vers anciens 1890-1900, stampato nel 1920) e, naturalmente, dall’opera pittorica di Edgar Degas. Sul “primo periodo” dell’opera di Valéry, senpre utili i volumi di M. T. GIAVERI, L’ “Album des vers anciens” de Paul Valéry. Studio sulle correzioni d’autore edite e inedite, Padiva, Liviana, 1969 e G. A. BRUNELLI, Paul Valéry “giovane poeta”, Roma, Bonacci, 1987.
(14) “Signorina de l’Espinasse. No, sentite, dottore; mi spiegherò con un paragone, che è forse l’unica forma di ragionamento delle donne e dei poeti… “(D. DIDEROT, Sogno di D’Alembert, trad. it. di P. Campioli, Milano, Rizzoli, 1967, p. 41). L’interlocutore della signorina de l’Espinasse (il cui vero nome era, però, Julie de Lespinasse), per tutta la vita compagna di letto e di attività culturale di D’Alembert, è il dottor Théophile Bordeu che sarà una delle autorità mediche dell’illuminismo francese prima e dell’idéologie poi propugnando fino in fondo, insieme a Paul-Joseph Barthez, la teoria del “vitalismo” organico in medicina.
(15) ”Une se lève d’elle-même, et se met à la place d’une autre; nulle d’entre elles ne peut être plus importante que son heure. Elles montent, originales; dans un ordre insensé; mystérieusement mues jusque vers le midi admirable de ma présence, où brûle, telle qu’elle est, la seule chose qui existe; l’une quelconque” – è la conclusione del frammento ooetico-narrativo Agathe del 1898 (un testo mai terminato da Valéry e che, con il titolo Manuscrit trouvé dans une cervelle, doveva costituire la continuazione di Monsieur Teste). Sulla fondamentale importanza di questo breve scritto per l’evoluzione del pensiero del poeta francese, cfr. P. VALÉRY, Oeuvres, I, Paris, Gallimard (Bibliothéque de la Pléiade), 19772, pp. 1388-1393; S. AGOSTI, “Pensiero e linguaggio in Paul Valéry”, Introduzione a P. VALÉRY, Varietà cit., in particolare alle pp. 14-15; M. BLANCO, “Ninfe su fondo nero. Note su Agathe e Cantate de Narcisse di Valéry” in Aa. Vv. Valéry: la philosophie, les arts, le langage, a cura di R. Pietra, in “Cahiers du groupe de recherche sur la philosophie et le langage”, 11, Grenoble, Université de Grenoble, 1989, pp. 239-248; N. CELEYRETTE-PETRI, “Agathe” ou “Le manuscrit trouvé dans une cervelle” de Valéry. Genèse et exegèse d’un conte de l’entendement, Paris, Minard, 1981; M. TSUKAMOTO, “L’écriture et la simulation dans Agathe“, in Paul Valéry. L’Avenir d’une écriture, Atti del Convegno internazionale di Montpellier (2-4 novembre 1994), in “Rémanances”, 1995, 4/5 (numero speciale su Valéry), pp. 131-140 e, infine, M. HONTEBEYRIE, Paul Valéry. Deux projets de prose poetique: “Alphabet” et “Le manuscrit trouvé dans une cervelle”, Paris, Minard, 1999.
(16) Cfr. S. S. NIGRO, “Tra Montaigne, Valéry e Freud: la biografia per paradossi”, in “Sigma”, (XVII), 1-2, 1984, pp. 112-115, che affronta il problema attraverso coordinate generali di indubbia importanza. Sempre su Valéry, cfr. il bel saggio di A. MAZZARELLA, La potenza del falso. Illusione, favola e sogno nella modernità letteraria (Roma, Donzelli, 2004) che contiene notevoli pagine proprio sul tema della soggettività e del sogno nel poeta francese (su di esso, mi permetto di rimandare alla mia nota di recensione apparsa su “Comparatistica. Annuario italiano”, (XIV), 2005, pp. 203-208.
(17) P. VALÉRY, Monsieur Teste, trad. it. di L. Solaroli, a cura di G. Agamben, Milano, Il Saggiatore, 1980, p. 101. Sulla figura di Monsieur Teste appare rilevante il saggio di J. STAROBINSKI, “Monsieur Teste face à la douleur”, in Aa. Vv. Valéry, pour quoi? , Paris, Les Impressions Nouvelles, 1987, pp. 93-120.
(18) P. VALÉRY, Regards sur le mond actuel cit. , p. 149. Significativamente Walter Benjamin aveva già posto l’accento su questo testo di Valéry nel suo “Paul Valéry. Per il suo sessantesimo compleanno”, ora in W. BENJAMIN, Avanguardia e rivoluzione, trad. di A. Marietti Solmi, Torino, Einaudi, 19732, p. 46.
(19) P. VALÉRY, “L’anima e la danza”, in Poesie cit. , p. 173.
(20) Non a caso, Giorgio Agamben nella sua Introduzione (” L’Io, l’occhio, la voce”) all’ed. it. di Monsieur Teste già citata pone l’accento sull’importanza della Dioptrique cartesiana per i futuri sviluppi teorici dell’impresa intellettuale di Valéry. E, d’altronde, anche ne “L’anima e la danza” si legge: “Gli inganni, le apparenze, i giochi della diottrica intellettuale scavano e animano la misera sostanza del mondo” (p. 193). Visione ed essere, immagine e sostanza si inseguono continuamente nella ricerca valéryana della totalità.
(21) P. VALÉRY, Cahiers, II, Paris, Gallimard, 1974, p. 253. Sono debitore di questa citazione in relazione alla lettura dell’ottimo saggio del compianto G. GABETTA, “La costruzione dell’ “Immemoriale” in Paul Valéry “, in “Nuova Corrente”, (XXXII), 1985, pp. 485-510. Di Gabetta va tenuto presente, inoltre, “La scepsi verso la storia. Sul Valéry di Löwith”, in “aut-aut “, 222 (1987), pp. 39-50, significativamente dedicato alla rilettura del miglior libro finora dedicato a Valéry “filosofo” (cfr. K. LÖWITH, Paul Valéry, trad. it. di G. Carchia, Milano, Celuc Libri, 1986).
(22) P. VALÉRY, L’idea fissa cit. , pp. 63-64.
(23) Sul medico come “maschera” in Valéry, cfr. V. MAGRELLI, “La figura del medico nell’opera di Paul Valéry”, in “Saggi e ricerche di letteratura francese”, (XXIX), 1990, pp. 203-214. Interessanti anche gli spunti di riflessione contenuti in A. PIZZORUSSO, “Valéry e l’idea di soggetto”, in Aa. Vv. Figure del soggetto, Pisa, Pacini, 1996, pp. 93-121.
(24) P. VALÉRY, “L’anima e la danza” cit. , p. 188.
(25) Sull‘ Implesso, cfr. G. GABETTA, “La costruzione dell’ “Immemoriale” in Paul Valéry” cit. e R. VIRTANEN, “Valéry’s Reflections on Discovery and Invention”, in “Kentucky Romance Quarterly “, (XXVII), 1980, pp. 105-119. Buoni spunti anche in H. KAAS, “Der Dämon der Möglichkeit. Bemerkungen zui Methode Valérys”, in “Akzente”, (XXVII), 1, 1980, pp. 47-56. Importante per l’insieme di tutta questa tematizzazione nell’ambito della poesia di Valéry è il volume di N. BASTET, Valéry à l’extrême. Les au-de-là de la raison, Paris, L’Harmattan, 1999.
(26) P. VALÉRY, L’idea fissa cit. , pp. 78-79.
(27) V. MAGRELLI, Introduzione a P. VALÉRY, L’idea fissa cit. , p. 16. Lo scritto introduttivo di Magrelli, pur essendo molto chiaro e spesso assai perspicuo nella ricostruzione storica e teorica, manca, tuttavia, il confronto “filosofico” (e decisivo!) con Il Cimitero marino.
(28) P. VALÉRY, L’idea fissa cit. , p. 64.
(29) Ibidem.
(30) P. VALÉRY, “L’anima e la danza”, in Poesie cit. , pp. 172-173.
(31) Ibidem.
(32) Per una buona introduzione all’opera di Degas, cfr. D. CATTON RICH, Degas, Milano, Garzanti, 1960 (con un’amplissima appendice iconografica). Per aneddoti e notizie biografiche su Degas, cfr. M. SÉRULLAZ, Degas. Donne, Milano, Mondadori, 1959 (che raccoglie tutti i ritratti di donna dipinti da Degas).
(33) Cfr. P. VALÉRY, Degas danza disegno, trad. it. e cura di B. Dal fabbro, Milano, Feltrinelli, 1980.
(34) Le citazioni precedenti sono tratte rispettivamente da: P. VALÉRY, Il cimitero marino, trad. it. e cura di M. T. Giaveri, Milano, Il Saggiatore, 1984, p. 66; Valéry tradotto da Manlio Dazzi, Firenze, Collana bilingue di poesia dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, 1968, p. 35; P. VALÉRY, Poesie cit. , p. 139; P. VALÉRY, Il cimitero marino, trad. it. e cura di M. Tutino, Torino, Einaudi, 1966, p. 23.
(35) Sulla numerosa schiera dei traduttori del Cimetière marin, cfr. la pertnente analisi di Corrado Pavolini, autore – con il foscoliano pseudonimo di Jacopo Darca – di una “Nota per sette traduttori italiani del Cimitero marino”: Folco Gloag, Corrado Pavolini, Maria Algranati, Beniamino Dal Fabbro, Mario Praz, Renato Poggioli, Oreste Macrì “, in “Poesia”, 7, 1947. Ma l’elenco è sicuramente più folto: oltre quelli già citati, vanno aggiunti Diego Valeri e Mario Luzi.
Particolarmente rilevante la trad. it. di Oreste Macrì, autore anche di un bel libro sul poema di Valéry (Il “Cimitero marino” di Paul Valéry, Firenze, Sansoni, 1947, poi Firenze, Le Lettere, 1989).
(36) Potrebbe trattarsi (come acutamente propone la Giaveri) della traduzione poetica di un verso di Pindaro: ταν δ’ έμπρκτον αντλεί μαχανάν. Su questa proposta di lettura, cfr. P. VALÉRY, Il Cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 132. Ma ciò non esaurisce certo la riflessione sul significato della proposta contenuta nel verso di Valéry.
(37) P. VALÉRY, Monsieur Teste cit. , p. 61.
(38) P. VALÉRY, Monsieur Teste cit. , p. 63.
(39) VALÉRY, Monsieur Teste cit. , p. 45.
(40) Sulla trasformazione quasi immediata dell’emistichio in oggetto in un cliché, cfr. le Note al testo in P. VALÉRY, Il cimitero marino, versione e commento di M. Tutino.cit., pp. 49-50. Gide utilizzò il verso come chiusura di una parte del suo Journal; Archambault lo riprese in un articolo su Gide, attribuendolo a Gide stesso. Nella sua lettera di risposta a Gide che gli esponeva queste vicende, Valéry affermò che il verso era stato ”une émission spontanée, sans difficulté, donc … sans père”.
(41) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 64. Si tratta dei versi 112 e 114.
(42) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 66, v. 116.
(43) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 66, v. 118.
(44) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 64 , v. 101 (Ma présence est poreuse – scrive Valéry con una ellissi poderosa assai difficile a rendersi in italiano).
(45) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 64 , v. 103.
(46) G. DELEUZE, Logica del senso, trad. it. di M. De Stefanis, Milano, Feltrinelli, 19792, p. 72.
(47) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 67, v. 121.
(48) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit., v. 124.
(49) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , vv. 125-126.
(50) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 64 , v. 127.
(51) P. VALÉRY, Il cimitero marino, a cura di M. T. Giaveri cit. , p. 64 , v. 128.
(52) Sulla fitta tessitura di rimandi e di intuizioni dei Cahiers di Valéry, cfr. almeno il saggio pioneristico di A. PASQUINO, I “Cahiers” di Paul Valéry. Una scienza in forma di metafora, Roma, Bulzoni, 1979.
(53) P. VALÉRY, “Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci”, in Varietà cit. , p. 32.
(54) ” E se parlassi un po’ della danza, a proposito del pittore delle ballerine?” (P. VALÉRY, Degas Danza Disegno cit. , p. 29).
(55) P. VALÉRY, L’Idea fissa cit. , p. 50.
(56) Ibidem.
(57) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in Varietà cit. , p. 243.
(58) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in Varietà cit. , p. 245.
(59) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in Varietà cit. , p. 251.
(60) P. VALÉRY, “Talvolta, dicevo a Stéphane Mallarmé…” , in Varietà cit. , p. 242.
(61) P. VALÉRY, Degas Danza Disegno cit. , p. 20 e p. 26.
(62) P. VALÉRY, Degas Danza Disegno cit. , p. 31. Sulla densità ipnotica della danza e dell’apparition (in riferimento sostanzialmente alla Lulu di Frank Wedekind e alla sua interpretazone teorica, anche se con accenti e punti di riferimento assai diversi dai miei), rimando a R. GENOVESE, Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva, Napoli, Liguori, 1983, pp. 48-49.
(63) P. VALÉRY, Degas Danza Disegno cit. , p. 110.
(64) L. PAREYSON, Estetica. Teoria della formatività, Bologna, Zanichelli, 19602, p. 284. Cfr. anche e in vista di un più ampio inquadramento teorico, p. 55 e sgg. Sullo stesso arco dinamico di problemi, cfr. altrsì L. PAREYSON, L’esperienza artistica, Milano, Mursia, 1974; E. PACI, Relazioni e significati, III. Critica e dialettica, Milano, Lampugnani Nigri, 1966; F. MASINI, “Nota sulle poetiche di Paul Valéry”, in “Letterature moderne”, (X), 1, 1960; A. TRIONE, Valéry. Metodo e critica del fare poetico cit. e ID. ” Oltre il simbolismo”, in A. TRIONE – M. T. GIAVERI – G. PANELLA – G. LOMBARDO, Paul Valéry e l’estetica della poiesis, a cura di M. T. Giaveri, Palermo, Aesthetica Preprint 23, 1989, pp. 5-23.
(65) S. GIVONE, “Il destino dell’arte secondo Paul Valéry”, in Hybris e Melancholia. Studi sulle poetiche del Novecento, Milano, Mursia, 1974, p. 24.
(66) Sulla genesi arbitraria e del tutto fortuita del Cimetière marin, cfr. le narrazioni (certo non del tutto attendibili) poi esibite da Valéry stesso e riportate in “A proposito del Cimitero marino” in Varietà cit., pp. 261-272 e le testimonianze raccolte nel prezioso commento di M. T. Giaveri alla sua edizione del poemetto (Il Cimitero marino cit. , pp. 35-55).
Ne riporterò soltanto una: “Nel Cimetière marin, ricordo di aver formato delle strofe come si combinano masse, colori, o atomi (in una molecola). Strofe suggerite, nella loro tonalità, dall’equilibrio generale, voluto tanto da me quanto dall’opera al momento T (che si componeva allora di quel che era già “fatto” e di quel che potevadovevasembrava di essere fatto, il DA FARSI ” (in P. VALÉRY, Cahiers, tomo XXIII, Paris, Éditions du C. N. R. S. , 1961, p. 205).
(67) H. R. JAUSS, Apologia dell’esperienza estetica, trad. it. e cura di C. Gentili, Torino, Einaudi, 1985, p. 22.
(68) R. THOM, “La modélisation des processus mentaux : le “Système” valéryen vu par un théoricien des catastrophes”, in Aa. Vv. Fonctions de l’esprit. Treize savants redécouvrent Paul Valéry, Paris, Hermann, 1983, p. 194.
(69) R. THOM, “La modélisation des processus mentaux : le “Système” valéryen vu par un théoricien des catastrophes”, in Aa. Vv. Fonctions de l’esprit. Treize savants redécouvrent Paul Valéry cit., p. 203.
(70) S. GIVONE, “Il destino dell’arte secondo Paul Valéry”, in Hybris e Melancholia. Studi sulle poetiche del Novecento cit. , p. 33. La citazione da Valéry è in Oeuvres, I, Paris, Gallimard, 19772, pp. 990-991.
(71) P. VALÉRY, “La giovane Parca”, in Poesie cit. , p. 71.
(72) P. VALÉRY, “Palma”, in Poesie cdit. , p. 146.