Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

giovedì 26 settembre 2013

Epicuro

Da "http://www.giuseppecirigliano.it" :

Gli epicurei, così chiamati dal nome del loro caposcuola Epicuro (342-270), sostenevano che il fine ultimo dell'uomo è la felicità (eudemonismo), e che questa consiste nel piacere (edonismo), cioè nella soddisfazione dei desideri...
Questa teoria, semplice da sostenere ma di difficile realizzazione, è stata ed è spesso fraintesa e distorta, tanto che appare affatto gratuita ed ingiustificata l'accusa di smodatezza troppo spesso rivoltale.
La teoria di Epicuro, infatti, non implica che tutti i piaceri siano buoni, ed anzi essa sostiene addirittura l'opportunità di limitare il numero dei desideri, di modo che non ne restino troppi insoddisfatti.
Anziché fidarsi di rapidi e imprecisi riepiloghi manualistici, basti leggere (visto ch'è anche di gradevole ed agevole lettura) la famosa Lettera a Meneceo.
La massima più nota di Epicuro - citata in ogni manuale degno di tal nome - ha un potere consolatorio ma risulta al tempo stesso un po' deprimente.
Essa infatti recita: "Il più terribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte noi non siamo più".
Bisogna del resto tener presente che in ciò consiste uno degli elementi del tetrafarmaco, che (come scrive il suo traduttore Graziano Arrighetti) "condensa in quattro brevi proposizioni tutta la dottrina epicurea della felicità: la divinità non è da temersi; la morte non deve arrecare turbamento; il bene è facilmente procacciabile; il male facilmente sopportabile".


Insieme a quelle destinate ad Erodoto e a Pitocle, la Lettera a Meneceo ci è stata tramandata da Diogene Laerzio (III secolo d.C.), nel capitolo X del suo libro Vite e opinioni dei filosofi illustri.
Si tratta di una sintesi perfetta, che sgombera il campo da ogni incomprensibile malinteso sul vero senso dell'etica epicurea.

Epicuro: Lettera a Meneceo

Meneceo, mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità.
A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’animo nostro.
Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l’età.
Ecco che da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità.
Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l’avvenire.
Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c’è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per possederla.
Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice.
Prima di tutto considera l’essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata.
Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità.
Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha.
Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità. Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false.
A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo.
Poi abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza.
L’esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l’inganno del tempo infinito che è indotto dal desiderio dell’immortalità.
Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la sua continua attesa.
Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire.
La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi.
Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi.
Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più.
Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive.
Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più.
La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere.
Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce.
Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c’è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è la meditazione di una vita bella e di una bella morte.
Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere mal nato, ma, nato, al più presto varcare la soglia della morte. Se è così convinto perché non se ne va da questo mondo?
Nessuno glielo vieta se è veramente il suo desiderio.
Invece se lo dice così per dire fa meglio a cambiare argomento.
Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro.
Solo così possiamo non aspettarci che assolutamente s’avveri, né allo stesso modo disperare del contrario.
Così pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto.
Ma fra i necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita. Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell’animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall’ansia.
Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell’animo e del corpo.
Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la mancanza di esso.
Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno.
Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito.
Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore.
E’ bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere.
Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo.
Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti.
Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti sono sempre da fuggire.
Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei danni.
Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene.
Consideriamo inoltre una gran cosa l’indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l’abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo.
In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l’inutile è difficile.
I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca.
Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d’apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un’esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte.
Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno.
Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza.
Di tutto questo, principio e bene supremo è l’intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù.
Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.
Chi suscita più ammirazione di colui che ha un’opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare?
Questo genere d’uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro.
La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode.
Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità.
La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa - la divinità non fa nulla a caso - e neppure qualcosa priva di consistenza.
Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l’avvio a grandi beni o mali.
Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato.
Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell’ansia.
Vivrai invece come un dio fra gli uomini.
Non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali.


Estratto:

122       Né il giovane indugi a filosofare né il vecchio di filosofare sia stanco. Non si è né troppo giovani o troppo vecchi per la salute dell’anima. Chi dice che non è ancora giunta l’età di filosofare, o che l’età è già passata, è simile a chi dice che per la felicità non è ancora giunta o è passata l'età. Cosicché filosofare deve e il giovane e il vecchio: questi perché invecchiando sia giovane di beni per il grato ricordo del passato, quegli perché sia a un tempo giovane e maturo per l’impavidità nei confronti dell’avvenire. Meditare bisogna su ciò che procura la felicità, poiché invero se essa c’è abbiamo tutto, se essa non c’è facciamo tutto per possederla.

123       Le cose che ti ho raccomandato mettile in pratica e meditale reputandole i principi fondamentali necessari a una vita felice. Per prima cosa considera la divinità come un essere indistruttibile e beato, secondo quanto suggerisce la nozione del divino, e non attribuire ad essa niente che sia estraneo all’immortalità o discorde dalla beatitudine.; riguardo ad essa pensa invece tutto ciò che è capace di preservare la felicità congiunta all’immortalità. Gli dèi esistono: evidente è infatti la loro conoscenza; non esistono nella maniera in cui li considerano i più, perché così come li reputano vengono a toglier loro ogni fondamento di esistenza.

124       Empio poi non è colui che gli dèi del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dèi, poiché non sono prenozioni ma fallaci presunzioni i giudizi del volgo a proposito degli dèi. Da ciò i più grandi danni e vantaggi si ritraggono dagli dèi; essi infatti, dediti di continuo alle loro proprie virtù, accolgono i loro simili, e tutto ciò che non è tale considerando come estraneo.

Abìtuati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità.

125       Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere più. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per quelli non c’è, questi non sono più. Ma i più, nei confronti della morte, ora la fuggono come il più grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano.

126       Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i più abbondanti, ma i migliori, così del tempo non il più durevole, ma il più dolce si gode. Chi esorta il giovane a viver bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo per quel che di dolce c’è nella vita, ma perché uno solo è l’esercizio e ben vivere e ben morire. Peggio ancora chi dice

      “bello non esser nato,

      ma, nato, al più presto le soglie dell’Ade”.

127       Perché se parla così convinto, perché non lascia la vita? Ciò è nel suo pieno potere, se questa è la sua sicura opinione. Se scherza, agisce da stolto in cose che non lo comportano.

Si deve ricordare ancora che il futuro non è né del tutto nostro, né del tutto non nostro, affinché né ci aspettiamo che assolutamente si avveri, né disperiamo come se assolutamente non si avveri.

E analogamente bisogna pensare che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e di quelli naturali alcuni necessari, altri solo naturali; e di quelli necessari, alcuni lo sono per la felicità, altri per il benessere del corpo, altri per la vita stessa.

128       Infatti una giusta conoscenza di essi sa riferire ogni atto di scelta e di rifiuto alla salute del corpo e alla tranquillità dell’anima, poiché questo è il termine entro cui la vita è beata. Perché è in vista di questo che compiamo tutte le nostre azioni, per non soffrire né avere turbamento. Quando ciò noi avremo ogni tempesta dell’anima si placherà, non avendo allora l’essere animato alcuna cosa da appetire come a lui mancante, né altro da cercare con cui rendere completo il bene dell’anima del corpo. E’ allora infatti che abbiamo bisogno del piacere: quando soffriamo perché esso non c’è; quando non soffriamo, non abbiamo bisogno del piacere.

129       E per questo noi diciamo che il piacere è principio e termine estremo di vita felice. Esso noi sappiamo che è il bene primo e a noi connaturato, e da esso prendiamo inizio per ogni per atto di scelta e di rifiuto, e ad esso ci rifacciamo giudicando ogni bene in base alle affezioni assunte come norma. E poiché questo è il bene primo e connaturato, per ciò non tutti i piaceri noi eleggiamo, ma può darsi anche che molti ne tralasciamo, quando ad essi segue incomodo maggiore; e molti dolori consideriamo preferibili ai piaceri quando piacere maggiore ne consegua per aver sopportato a lungo i dolori. Tutti i piaceri dunque, per loro natura a noi congeniali, sono bene, ma non tutti sono da eleggersi; così come tutti i dolori sono male, ma non tutti sono tali da doversi fuggire…..

130       In base al calcolo e alla considerazione degli utili e dei danni bisogna giudicare tutte queste cose. Talora infatti esperimentiamo che il bene è per noi un male, e di converso il male è bene.

Consideriamo un gran bene l'indipendenza dai desideri, non perché sempre dobbiamo avere solo il poco, ma perché, se non abbiamo il molto, sappiamo accontentarci del poco; profondamente convinti che con maggior dolcezza gode dell’abbondanza chi meno di essa ha bisogno, e che tutto ciò che natura richiede è facilmente procacciabile, ciò che è vano difficile a ottenersi.

131       I cibi frugali inoltre danno ugual piacere a un vitto sontuoso, una volta che sia tolto del tutto il dolore del bisogno. L’avvezzarsi a un vitto semplice e frugale, mentre da un lato dà la salute, dall’altro rende l’uomo sollecito verso i bisogni della vita, e quando, di tanto in tanto, ci accostiamo a vita sontuosa ci rende meglio disposti nei confronti di essa e intrepidi nei confronti della fortuna.

Quando dunque diciamo che il piacere è il bene completo e perfetto, non intendiamo i piaceri dei dissoluti o quelli delle crapule, come credono alcuni che ignorano o non condividono o male interpretano la nostra dottrina, ma il non aver dolore nel corpo né turbamento nell’anima.

132       Poiché non banchetti e feste continue, né il godersi fanciulli e donne, né pesci e tutto quanto offre una lauta mensa dà vita felice, ma saggio calcolo che indaghi le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, che scacci le false opinioni dalle quali nasce quel grande turbamento che prende le anime.

Di tutte queste cose il principio e il massimo bene è la prudenza; per questo anche più apprezzabile della filosofia è la prudenza, dalla quale provengono tutte le altre virtù, che insegna come non vi può essere vita felice senza che essa sia saggia e bella e giusta, né saggia e bella e giusta senza che sia felice. Le virtù sono infatti connaturate alla vita felice, e questa è inseparabile da esse.

133       Poiché chi stimi tu migliore di colui che riguardo agli dèi ha opinioni reverenti, e nei confronti della morte è assolutamente intrepido, ed è consapevole di che cosa è il bene secondo natura, ed ha salda conoscenza che il limite dei beni è facilmente raggiungibile e agevole a procacciarsi, il limite estremo dei mali invece o è breve nel tempo o lieve nelle pene? E che quel potere che da parte di alcuni è addotto come sovrano assoluto di tutte le cose proclama ......... (t e s t o    l a c u n o s o) delle quali alcune avvengono per necessità altre per caso, altre poi sono in nostro potere, poiché la necessità è irresponsabile, il caso instabile, il nostro arbitrio invece è libero, per cui può subite biasimo o conseguire lode.

134       Era meglio infatti credere ai miti sugli dèi piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici: quelli infatti suggerivano la speranza di placare gli dèi per mezzo degli onori, questo invece ha implacabile necessità. E riguardo alla fortuna non la stima né una divinità come fa la moltitudine – poiché il dio niente fa che sia privo di ordine e armonia – né un principio causale privo di qualsiasi fondamento di realtà, e non crede che essa dia agli uomini beni e mali che determinino vita felice, ma solo che i princìpi di grandi beni e mali da essa provengano.

135       Egli reputa infatti meglio essere saggiamente sfortunati che stoltamente fortunati: perché è preferibile che nelle nostre azioni saggio consiglio non sia premiato dalla fortuna, piuttosto che stolto consiglio sia da esso coronato.

Tutte queste cose e ciò che ad esse è congenere medita giorno e notte in te stesso, e con chi a te è simile, e mai, sia desto che nel sonno, avrai turbamento, ma vivrai invece come un dio fra gli uomini. Poiché non è in niente simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali.


Epicuro, Lettera a Meneceo, in Opere [trad. di G. Arrighetti], Einaudi, Torino 1967, pp. 61-66.


da Umano, troppo umano, II
di Nietzsche


Nel frammento 7 de Il viandante e la sua ombra (seconda parte di Umano, troppo umano, II), Niezsche sottolinea il valore delle argomentazioni di Epicuro riguardo alla futilità della "paura degli dèi":

Due mezzi di consolazione. Epicuro, l'acquietatore d'anime della tarda antichità, comprese meravigliosamente, come ancor oggi così raramente si comprende, che per tranquillizzare l'animo non è affatto necessario risolvere le ultime ed estreme questioni teoriche.
Sicché a coloro che erano tormentati dalla "paura degli dèi", gli bastava dire: "se ci sono degli dèi, essi non si preoccupano di noi", – invece di disputare sterilmente e da lontano sulla questione suprema, se ci siano in genere dèi.
Questa posizione è molto più favorevole e forte: si danno all'altro alcuni passi di vantaggio, rendendolo così più pronto ad ascoltare e a ponderare. Ma non appena quegli si accinge a dimostrare il contrario, – che gli dèi si preoccupano di noi, – in quali errori e intrichi spinosi non dovrà cadere il misero, affatto da sé, senza astuzia da parte dell’interlocutore?
Costui deve solo avere abbastanza umanità e finezza da nascondere la sua compassione per questo spettacolo.
Da ultimo l'altro giunge alla nausea, l'argomento più forte contro quella proposizione, alla nausea per la sua stessa affermazione; si raffredda e va via con lo stesso stato d’animo che è anche dell'ateo puro: "cosa importa poi a me degli dèi? Che il diavolo se li porti!". – In altri casi, specie quando un'ipotesi a metà fisica e a metà morale aveva offuscato l'animo, egli non confutava questa ipotesi, bensì ammetteva che poteva essere così, ma che per spiegare lo stesso fenomeno c'era ancora una seconda ipotesi; e che forse la cosa poteva stare ancora diversamente.
Anche nel nostro tempo la pluralità delle ipotesi, per esempio sull'origine dei rimorsi di coscienza, basta per togliere dall’anima quell'ombra che così facilmente nasce dal ruminare un'ipotesi unica, la sola visibile, e pertanto cento volte sopravvalutata. – Chi dunque desidera largire conforto, a infelici, malfattori, ipocondriaci, morenti, si ricordi delle due espressioni tranquillizzanti di Epicureo, che si possono applicare a moltissime questioni.
Nella forma più semplice esse suonerebbero all'incirca: primo: posto che la cosa stia così, non ce ne importa niente; secondo: può essere così, ma può essere anche diversamente.


Nietzsche, Umano, troppo umano, II, [trad. di M. Montinari], Adelphi, Milano 1967, pp. 135-136.

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