Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

martedì 10 settembre 2013

Immanuel Kant

- Sintetici che mi sono piaciuti: -

Da "http://www.liceo-carducci.it/nuovo_sito/delbianco/" :

di Enrico Del Bianco
Kant: Il processo cognitivo
(secondo la II° Edizione della "Critica alla ragion pura")

Per Kant conoscere significa costruire un mondo, anche se non crearlo.
Nella I Critica il filosofo tedesco descrive il processo attraverso cui avviene questa costruzione, individuando le facoltà conoscitive in gioco e quindi le fasi e i risultati parziali del processo stesso.
Nel fare tutto questo Kant si interroga anche su cosa l’uomo può conoscere e su cosa invece non è alla sua portata.
La domanda poi da gnoseologica,(relativa alla conoscenza) si fa epistemologica (relativa alla scienza) e quindi si estende al valore delle singole scienze o presunte tali.

Nella CRP Kant, in primo luogo, cerca di individuare gli elementi a priori della conoscenza umana (Dottrina degli elementi), a partire dalla prima facoltà che risulta essere protagonista del processo conoscitivo: la sensibilità (Estetica trascendentale, con significato da intendersi etimologicamente dal greco).
Quest’ultima possiede una propria struttura di derivazione non empirica, costituita da due forme a priori: lo spazio ed il tempo, intesi da Kant come intuizioni pure, non concetti.
Se, infatti, fossero concetti e non intuizioni, essi sarebbero frutto di un  processo di astrazione da spazi e tempi particolari, invece essi sono la condizione preliminare per la percezione di spazi e tempi particolari.
Spazio e tempo non sono oggetti fuori di noi e non sono il sensorium Dei (il modo in cui Dio percepisce il mondo), ma costituiscono il sensorium hominis, il modo primo con cui noi percepiamo e quindi costituiamo il nostro mondo.

Spazio e tempo costituiscono i fondamenti trascendentali della matematica.
In particolare l’aritmetica risulterà fondata sull’intuizione pura del tempo (il contare avviene in relazione alla successione degli istanti) e la geometria sullo spazio (essa studia le strutture "euclidee" della nostra dimensione spaziale).
Così Kant ha risposto alla domanda "come è possibile la matematica pura?"

Attraverso i sensi giunge a noi una molteplicità di dati sensibili "bruti" che immediatamente vengono spazio-temporalizzati dalle nostre intuizioni pure, dando luogo alla intuizioni sensibili o empiriche, che costituiscono il primo risultato del processo della conoscenza.
Noi non perveniamo subito a concetti né ci limitiamo a semplici impressioni: la prima operazione conoscitiva è un ricevere dati e un elaborare attribuendo una forma intuitiva.
La nostra soggettività, inizialmente, si orienta grazie ad intuizioni sensibili, basta pensare allo scienziato partito alla ricerca di un nuovo misterioso animale di cui ha sentito vagamente parlare, prima di arrivare ad una classificazione egli raccoglierà dati legati tra loro da un nesso spaziale e temporale, solo in seguito l’intelletto procederà ad una comprensione-concettualizzazione.

Dunque i dati che entrano in noi sono subito "soggettivizzati" con strumenti trascendentali comuni a tutti gli uomini.
Il mondo che scaturisce da questo processo è un mondo "per noi" e non un mondo "in sé", nel linguaggio di Kant si parlerà di fenomeno, mondo o realtà fenomenici, da distinguersi
dal noumeno, ovvero la realtà in sé che prescinde da come il soggetto umano la comprende, dunque pensabile ( la stiamo pensando), ma non conoscibile (per definizione).

Sulla base delle intuizioni sensibili opera l’intelletto (siamo entrati nell’Analitica trascendentale, una delle articolazioni della Logica trascendentale).
Dalla conoscenza sensibile immediata siamo passati alla conoscenza raziocinante, al pensiero che procede non immediatamente, ma mediando.
L’intelletto è il pensiero che opera nei limiti della sensibilità , senza l’illusione di semplificazioni metafisiche.

In primo luogo Kant cerca di individuare le forme a priori di questa nuova facoltà conoscitiva (Analitica dei concetti).
Per farlo parte dal presupposto che pensare è uguale a giudicare, cioè i pensieri si traducono in giudizi in cui un soggetto viene inserito in una classe (Socrate nella classe degli uomini), i giudizi sono poi tradotti sul piano linguistico in proposizioni in cui di un soggetto si dice un certo predicato.
Ebbene Kant si chiede qual è l’operazione mentale con cui costruisco un certo tipo di giudizio, con quale strumento dell’intelletto posso pensare Socrate come un uomo o un lampo come causa di un tuono, al di là della verità delle singole affermazioni?
Posto che io conosco i giudizi in cui si traduce il pensiero, posso ricavare da essi la forma a priori che li ha resi possibili.
Dunque dalla tavola dei giudizi posso ricavare la tavola della forme a priori con cui pensa l’intelletto.
Tali forme sono chiamate concetti puri o categorie.
Essendo dodici i tipi di giudizi per Kant ereditati dalla tradizione, dodici saranno le categorie dell’intelletto.
Questa è la deduzione metafisica (non quella trascendentale) delle categorie, in quanto queste sono state dedotte sul piano logico senza alcun riferimento all’esperienza.

L’intelletto opera sulla molteplicità delle intuizioni sensibili unificandole tramite i propri concetti puri (categorie) ed ottenendo il concetto.

A questo punto si pone un problema: sono legittime le operazioni compiute dall’intelletto sulle intuizioni sensibili?
Come possono interagire due facoltà così eterogenee come la sensibilità e l’intelletto?
I concetti intellettuali hanno un rapporto necessario con le intuizioni sensibili?
Tali questioni sono poste da Kant sotto il titolo di deduzione trascendentale delle categorie.
Può sembrare un problema astruso, ma in realtà è molto concreto per la scienza della natura.
Potremmo formularlo in questo modo: le leggi della fisica possono valere per tutti i fenomeni sensibili, anche per quelli che apparentemente sembrano comportarsi diversamente da quanto prescrive la legge?
Perché mai lo scienziato galileiano-newtoniano deve sentirsi autorizzato  a pretendere che le sue leggi relative al moto abbiano valore anche quando l’esperienza sensibile sembra confutarle (caso del rapporto tra peso e velocità di caduta dei gravi).
Qui Kant cerca di trovare un fondamento conoscitivo solido alla pretese della fisica moderna di essere una fisica ideale e sperimentale che studia sperimentalmente i fenomeni a certe condizioni ideali (v. Galilei, esperienza del gran naviglio a proposito del moto non fluttuante in qua e là).
Vediamo ora la risposta di Kant, risposta che ci riconduce alla rivoluzione copernicana dalla quale siamo partiti.
L’intelletto opera legittimamente sui prodotti della sensibilità, le intuizioni sensibili, perché le due facoltà sono espressione di una stessa attività soggettiva sintetica che prima temporalizza i dati nelle intuizioni sensibili e poi categorizza queste pervenendo ai concetti.
Il raccordo è dato dal "mio"  Io che è presente in tutte le mie operazioni conoscitive.
Dunque l’Io è il fondamento del carattere unitario della nostra conoscenza e quindi dell’unitarietà ed uniformità con cui si presenta a noi la natura fenomenica.
Questo Io è "mio", ma è anche "nostro", per dirla con Kant è un Io penso comune a tutti i soggetti umani ed è dunque anche il fondamento del valore di universalità e necessità delle nostre conoscenze.
L’Io penso è unità e identità del pensiero con se stesso, è l’autocoscienza universale che accompagna tutte le nostre rappresentazioni, esso è appercezione trascendentale (appercepire: percepir di percepire, trascendentale perché tale soggettività non è frutto dell’esperienza, ma è funzionale solo a gestire l’esperienza sensibile.

Trovata la risposta alla questione di diritto si tratta di verificare come concretamente l’intelletto opera sulle intuizioni empiriche, pervenendo ai concetti.
Tale questione viene affrontata nella seconda parte dell’Analitica trascendentale, l’Analitica dei principi.
L’intelletto interviene sulle intuizioni sensibile grazie all’opera di un’altra facoltà, l’immaginazione produttiva che agisce su ciò che tutte le nostre intuizioni sensibili hanno in comune: la forma a priori del tempo.
Quest’ultimo viene determinato a priori con la produzione di schemi trascendentali su cui si innesta l’unificazione categoriale, per esempio la categoria della sostanza opera sul tempo "schematizzato" secondo la permanenza, mentre la categoria della causalità si innesta sullo schema temporale della successione.

L’Io tramite l’intelletto concettualizza le intuizioni sensibili, individuando le leggi della natura e queste sono funzioni del tempo, come la fisica galileiano-newtoniana ci insegna.
La fisica appunto trova i suoi fondamenti trascendentali nelle categorie dell’intelletto, in questo modo Kant ha risposto alla domanda "Come è possibile la fisica pura?"
Fisica e matematica sono scienze feconde e universali e necessarie, sintetiche a priori.
Il problema non era quello di dimostrarne la scientificità, ma di individuarne i fondamenti a priori.

Da tutte queste considerazioni emerge che l’esperienza sensibile è la base di tutte le nostre conoscenze, ma essa non è un  caotico aggregato di impressioni, ma un ordine meccanico unitario e necessario secondo precise regole: i principi dell'intelletto puro, ricavati da una riflessione sugli schemi e sulle categorie (per es. in relazione alla categoria di causa il principio in questione ci dice che ogni cambiamento avviene secondo il nesso di causa ed effetto).

Conclusione provvisoria

Come già abbiamo detto, non c’è conoscenza scientifica senza l’incontro di materiale empirico proveniente dall’esterno e forme a priori proprie dell’Io, dunque la conoscenza è fenomenica e nulla possiamo sapere delle cose in sé, cioè della realtà così com’è prescindendo da noi stessi che la conosciamo.
La realtà in sé risulterà pensabile, ma non conoscibile: noumeno.
Qui inizia un’altra storia, quella del rapporto di Kant con i problemi metafisici.

di Enrico Del Bianco
Dal Criticismo kantiano all'Idealismo
(brevissima introduzione per tentare di capire)

Relativamente alla metafisica, Kant aveva concluso che essa non è una scienza, ma una naturale tendenza umana ad oltrepassare i limiti sensibili.
Di conseguenza non c’è in Kant l’intenzione di costruire, sulla base della propria gnoseologia e della propria epistemologia, una nuova metafisica ovvero un sapere assoluto capace di cogliere l’essenza stessa della realtà.
Gli idealisti intendono invece compiere proprio questa operazione, trasformando L’Io penso che in Kant è fondamento gnoseologico in un fondamento metafisico ed ontologico.
Emerge quindi una nuova metafisica il cui principio primo non è di ordine materiale, ma spirituale e, in questo senso, ideale.
Il Soggetto trascendentale kantiano, infatti, tramite forme a priori organizza il materiale empirico costituendo la natura fenomenica.
Esso non produce i dati dell’esperienza, ma li riceve e "si limita" ad organizzarli con i propri strumenti trascendentali.
L’Io puro di Fichte inconsapevolmente produce (pone) i dati sensibili che poi spazio-temporalizzati contribuiscono a determinare la natura fenomenica.
Il soggetto assoluto fichtiano, insomma, è tutta la realtà e ogni limite e ostacolo non deriva da un esterno pensabile ma non conoscibile, ma dalla produzione culturale stessa, la cui libertà è dunque assoluta, infinita.
L’Io ponendo se stesso, si pone come oggetto, quindi come non-io finito, in relazione al quale sorge la coscienza finita (l’io finito, limitato, divisibile).
La Natura e i soggetti particolari sono dedotti dall’Io puro e assoluto, dunque non hanno alcuna autonomia ontologica: sono prodotti culturali di un’attività soggettiva che non si risolve pienamente in nessuna sua creazione e che quindi tende a realizzare se stessa infinitamente, come infinito che mai si compie (Hegel parlerà di cattivo infinito) e che sempre deve essere cercato e realizzato in una tensione etica senza fine.
Schelling prosegue il programma idealistico cercando di individuare un livello di spiritualità che preceda la differenziazione di soggetto ed oggetto e che eviti di privilegiare la dimensione soggettiva umana rispetti all’oggetto, alla natura.
Viene così introdotto l’Assoluto come unità indifferenziata di soggetto ed oggetto, di spiritualità soggettiva consapevole e di natura intesa come spiritualità oggettiva inconsapevole.
Tale identità incondizionata viene colta nel momento intuitivo dell’esperienza artistica.
Rispetto a questo principio assoluto in cui gli opposti si perdono Hegel parlerà della notte in cui tutte le vacche sono nere.
Per lui l’Assoluto sarà l’Idea intesa come razionalità che è realtà e realtà che è razionalità e dunque come totalità, sintesi dialettica in cui gli opposti sono superati e conservati.
L’Idea è infinito in cui ogni finito è compreso nel senso di con-preso, preso insieme, ma non annullato nell’indifferenziato.
In questo senso l’infinito non è un’aspirazione mai realizzabile, ma realtà in atto di cui la filosofia è sapere assoluto, scienza speculativa che tutto sa.

di Enrico Del Bianco
Kant, la ragione dialettica e la metafisica

Esiste in noi una tendenza metafisica, cioè una tendenza ad oltrepassare i limiti sensibili della nostra conoscenza fenomenica.
Questa tendenza deriva dalla percezione della parzialità dell’esperienza e quindi dei limiti connaturati in ogni nostro atto conoscitivo.
Dalla percezione dei limiti deriva il bisogno di superarli, di vedere più in là, di saperne di più.
Per millenni l’uomo ha osservato il cielo ad occhio nudo, nel ‘600 Galilei ha potenziato la vista con il cannocchiale ed ha spostato in avanti i limiti del nostro vedere, dopo di lui altri hanno ulteriormente potenziato i sensi, ampliando le nostre conoscenze, senza per questo eliminarne i limiti sensibili: il sapere aumenta, ma resta finito.
Ovviamente alla colomba può nascere l’idea di un volo meno faticoso se si va oltre l’aria, così l’uomo concepisce, e sin qui ha concepito, di poter conoscere eliminando del tutto i limiti sensibili, non accontentandosi solamente di porli più avanti.
In altri termini si aspira ad una conoscenza infinita, definitiva e non semplicemente più ampia e profonda ma pur sempre finita.
Così la nostra tendenza ad approfondire sempre di più la nostra conoscenza di noi stessi, il mondo a noi esterno e l’essere in generale, si traduce nella pretesa di dare vita ad una scienza metafisica dell’infinito, dell’assoluto, dell’incondizionato.
Nascono così le tre idee della ragione: anima, mondo e Dio.
Di esse si occupano tre pseudo scienze metafisiche: psicologia razionale, cosmologia razionale e teologia razionale.
Tali illusori saperi prescindono per definizione dall’esperienza sensibile e sottendono un uso illegittimo, trascendente e non trascendentale delle categorie intellettuali.
La psicologia precedendo deduttivamente in relazione all’anima cade in un paralogisma, ovvero un falso sillogismo a quattro termini (ambivalenza del termine soggetto).
La cosmologia produce quattro antinomie indecidibili in quanto è possibile individuare argomenti non contraddittori sia a favore della tesi che dell’antitesi.
Solo l’esperienza potrebbe decidere quale teoria è vera, ma della totalità non si può fare esperienza.
Il mondo non è la natura, questa è l’insieme dei fenomeni, quello rientra nell’ambito noumenico di ciò che è pensabile, ma non conoscibile.
La teologia speculativa propone prove dell’esistenza di Dio che Kant riduce a tre: l’anselmiano argomento ontologico, la terza via di S. Tommaso qui chiamata prova cosmologica e la quinta via sempre di Tommaso indicata come prova fisico-teleologica.
Kant risolve le tomistiche prove a posteriori nella aprioristica prova ontologica e quindi la critica si concentra sul primo argomento: l’esistenza non è un attributo che si può dedurre dalla perfezione di un concetto.
Per poter affermare l’esistenza di qualcosa non si può prescindere dall’intuizione sensibile, dal "qui ed ora" di quel qualcosa; l’esistenza non si può tirar fuori da un concetto per quanto perfetto esso sia.
Ragionando sul concetto di Dio comprendiamo che sarebbe logico che si traducesse nell’esistenza di Dio stesso, ma la necessità logica non può essere scambiata per una necessità di fatto.
Delle idee non possiamo fare un uso costitutivo, cioè non possiamo utilizzarle per costituire oggetti (come avviene per le forme a priori di sensibilità ed intelletto).
Di esse invece è possibile un uso regolativo finalizzato cioè ad ampliare la conoscenza in modo ordinato e sistematico.
Per concludere, dunque, la metafisica non è una scienza, i suoi enunciati non possono essere valutati veri o falsi ( non sono discorsi apofantici), anche se non sono privi di significato (sono semantici).
Essi esprimono problemi reali, ma non trovano soluzioni razionali, scientifiche (la sottolineatura è un riferimento a Hegel).
Per Hume ciò che è metafisico "deve essere buttato nel fuoco" perché implica sofismi e inganni.
Per Kant invece le questioni metafisiche, se considerate criticamente, e non dogmaticamente svolgono una funzione fondamentale per il progresso delle scienze.

di Enrico Del Bianco
Etica Kantiana: schema ragionato

Dato di fatto della ragione: esiste la legge morale

Per Kant relativamente alla matematica e alla fisica il problema non è quello di dimostrare se esse esistono come scienze, ma quale ne è il fondamento.
Riguardo alla morale l’impostazione è la stessa: non ha senso chiedersi se esiste o no, visto che ci poniamo questioni appunto etiche, che senza ombra di dubbio distinguiamo da altre come quelle legali o estetiche.
Dunque prendo atto della legge morale in me. 

Se esiste deve essere universale e necessaria

Le leggi della fisica sono universali e necessarie.
Anche la legge morale che è in me possiede una propria universalità-necessità.
Ciò è evidente nel momento in cui, pur non condividendo la scelta di un mio simile, ne riconosco la motivazione morale che la ha ispirata.
Cos’è che riconosco?
Cosa c’è in comune tra scelte il cui contenuto è diverso se non opposto?
Qual è il fondamento del valore di universalità-necessità che riconosciamo ad azioni materialmente diverse?

Quale ne è il fondamento?

Non certo i fondamenti identificati dalla tradizione filosofica, in quanto tutti per un motivo o un altro risultano soggettivi e dunque non in grado di assicurare il valore di universalità e necessità che abbiamo detto.
Non l’educazione, non lo stato, non la volontà di Dio, non il sentimento (neppure un qualche sentimento morale della simpatia che può ispirare imperativi ipotetici e quindi limitati nel loro valore dalla condizione che pongono)
Solo la RAGIONE è il fondamento universale e necessario di una legge morale universale e necessaria.
Questo in concreto vuol dire che la moralità di un’azione sta nelle motivazioni razionali con cui la compio.
Per es. quale motivazione mi spinge a valutare nello scrutinio finale con due voti diversi alunni che sono pervenuti alle stessa media di 7 ½?
Nel segreto della mia interiorità posso far valere la  simpatia, la comunanza di idee politiche, la comune fede religiosa, oppure fregarmene e procedere a caso, coperto dalla legalità che legittima sia il 7 che l’8.
Se queste soluzioni non mi soddisfano e avverto il problema di una maggiore serietà delle mie scelte e della responsabilità che ho come insegnante, allora mi metto a ragionare e concludo che il tale alunno è molto migliorato per il suo impegno mentre l’altro si è risparmiato... dunque il primo meriterà l’otto e il secondo il sette.
Sento la tentazione di altre motivazioni, ma cerco di restare fedele a ciò che la ragione mi suggerisce.

L’uomo tra ragione e sensi

Nell’uomo, però, oltre alla ragione, c’è la sensibilità.
Emerge dunque una  natura dualistica.
D’altra parte già lo sapevamo dalla prima Critica kantiana e in quella sede avevamo identificato nei sensi i limiti dell’uso legittimo della ragione.
Ora, invece, in sede morale la mia dimensione sensibile non è un limite da rispettare, ma un limite da superare: rinuncio ai moventi sensibili per farmi determinare da quelli razionali .
Ma lo posso fare?

La libertà come postulato

Posso mettere da parte la simpatia che provo per Caio e non per Tizio?
Posso evitare di essere determinato dalla vista piacevole o meno o dal timbro gradevole o insopportabile della voce del mio interlocutore?
Possiedo io, uomo infelice (Paolo, Rom. 7, 24) la libertà di scegliere i moventi razionali e mettere da parte quelli sensibili?
Se cerchiamo una dimostrazione non possiamo che restare delusi.
Come già la terza antinomia della cosmologia razionale ci ha mostrato, tra affermazione della libertà e negazione di essa non possiamo che scegliere: paradossalmente devo scegliere tra ritenermi capace di scelte e quindi libero e ritenermi totalmente determinato dai sensi e quindi non libero.
Se compio la prima scelta la ricerca filosofica sulla morale può continuare, se invece decido per la seconda qui mi fermo.
Kant sceglie di postulare la libertà dell’uomo che viene individuata come il primo postulato della ragion pratica.

Posso, dunque devo

Ho deciso, sono libero.
Allora posso scegliere i moventi delle mie azioni, ma non sarà un passaggio spontaneo in quanto avverto le lusinghe delle motivazioni sensibili.
Dunque dovrò impormelo, dire a me stesso: Devi!
Devi senza condizioni, senza ipotesi , ma in modo categorico.
Se voglio che la mia azione possieda un valore morale, allora devo impormi di seguire la ragione senza compromessi.
La legge morale assume il carattere di un imperativo non ipotetico (per es., aiutalo, se è meritevole), ma categorico (aiutalo, perché è razionale!).
L’uomo è morale proprio perché deve imporsi di agire razionalmente, solo Dio (se esiste) è santo perché l’azione razionale in lui non è dovuta ad un travaglio e ad una auto imposizione.
A fondamento della moralità delle mie scelte e quindi dei miei comportamenti sta l’Io devo universale, razionale,  a cui tutti ci possiamo ispirare ed è proprio questa ispirazione razionale che ciascuno può riconoscere nelle azioni degli altri, magari non condividendone i contenuti, ma appunto riconoscendone l’intenzione razionale e quindi  morale.
La moralità delle nostre azioni è data dal movente razionale da noi liberamente scelto, dunque dalle forma che i nostri comportamenti possono assumere e non dai contenuti che nelle varie situazioni la ragione ci suggerisce: in un contesto storico posso ritenere morale uccidere (per es. nella resistenza al nazismo), in altri momenti invece la non violenza assoluta mi appare come la scelta giusta.
Né uccidere né non uccidere sono in se stessi morali, possono diventarlo a seconda delle mie motivazioni di fondo.
Dunque siamo di fronte ad una morale formale, non contenutistica e non precettistica.

Le tre formulazioni dell’imperativo categorico

Nella morale kantiana, dunque, non troviamo contenuti, comandamenti, insegnamenti  che possano farci sentire a posto.
L’imperativo categorico non ci indica la via di un bene (e un male) preconfezionato,  già dato, al quale le nostre azioni devono solo adeguarsi.
Non esiste un bene oggettivo in relazione al quale la moralità dei nostri comportamenti  viene  definita.
E’ il nostro "Io devo" che individuando i moventi delle azioni produce la loro moralità o meno delle nostre scelte ed in questo consiste, appunto, la rivoluzione copernicana in ambito morale.
La legge morale, in forma imperativa, allora mi dirà: "Agisci!", ma non in questo o quel modo.
Ciò che mi indicherà sarà una modalità d’azione e quindi un criterio per valutare la moralità della  massima in  base alla quale ho effettivamente agito.

Potremmo tradurre nel modo seguente le tradizionali formulazioni kantiane:

1) Agisci secondo una massima che possa avere una portata universale.
Insomma, quando agisci chiediti se gli altri possono, se non condividere, almeno comprendere la tua ricerca di un movente razionale e quindi disinteressato delle tue azioni.

2) Agisci in modo da trattare l’umanità in te e negli altri sempre anche come fine e mai solo come mezzo.
Non si possono motivare razionalmente le nostre azioni senza rispettare l’umanità che è portatrice della razionalità stessa.
Per es. nessuna motivazione razionale può giustificare la scelta di sfruttare l’uomo, di offendere qualcuno o, relativamente a se stessi, il suicidio che annulla con la persona la ragione stessa.
Kant dice anche e non solo perché sa che in me c’è altre alla ragione  la sensibilità e se nel momento in cui agisco disinteressatamente a favore di qualcuno questa azione comporta per me, di fatto, un piacere non ci posso fare nulla.
L’importante è che non ci sia solo questo piacere.

3) Agisci in modo autonomo, lasciandoti determinare solo dalla tua libera volontà.
Insomma non scambiare la moralità per il diritto che è eteronomo, fondamentale per riconoscere la moralità delle tue azioni è la capacità di autodeterminazione.

Dalla morale ad una possibile fede ragionevole

L’uomo virtuoso potrà mai essere felice?
Se in tutta la vita mi sottopongo al travaglio etico, se in ogni momento scelgo la via stretta della ricerca di una motivazione razionale, vigilando severamente su me stesso evitando attraenti gratificazioni... dovrò rinunciare alla felicità  che non può non coinvolgere anche la parte sensibile del mio essere.
In questa vita il sommo bene che unisce virtù e felicità non è perseguibile.
L’uomo giusto può decidere di credere ragionevolmente che tale valore assoluto sia raggiungibile in un’altra vita grazie all’immortalità della propria anima (II postulato della ragion pratica) e che esista un Dio che sappia determinare nel sommo bene la giusta proporzione di virtù e felicità (III postulato della ragion pratica).
L’uomo giusto può credere... ma anche non credere, senza che per questo la sua moralità sia messa in discussione.
Il problema morale può aprire la porta ad una fede ragionevole, ma può anche non farlo.
Dunque l’ateismo è pienamente legittimato, non meno di una fede nei limiti della sola ragione.
A livello pratico devo ciò che a livello teorico non posso.
A livello pratico i problemi della libertà, dell’anima e di Dio trovano, in una possibile fede ragionevole, la loro giusta collocazione.
In questo consiste il primato della ragion pratica sulla ragion teoretica.

"Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me". (Immanuel Kant)

di Enrico Del Bianco
Kant, Appunti
Introduzione I

Critica a Razionalismo ed Empirismo

Il razionalismo metafisico di Cartesio e Leibniz e l’empirismo di Locke e Hume, nonostante l’evidente differenza nel concepire le modalità del processo conoscitivo, hanno in comune il criterio con cui giudicano il valore oggettivo della conoscenza umana: la corrispondenza tra idee e cose.
Per Cartesio la conoscenza è conoscenza di idee (rappresentazioni mentali) e non di cose, la corrispondenza tra i due piani e garantita da Dio che è verace; Leibniz, nel contesto della sua monadologia, si riferisce all’armonia prestabilita da Dio.
In ogni caso è l’intervento di chi per definizione può risolvere il problema (Dio) che risolve effettivamente il problema.
Questa è quella che Kant chiama soluzione dogmatica.
Hume risolve il problema... non risolvendolo, per lui le nostre idee rimandano a impressioni soggettive e non si può chiamare in causa alcun deus ex machina per garantire una qualche oggettività ai prodotti di un’esperienza per sua natura radicalmente soggettiva, di qui l’esito che Kant definisce scettico.
Per Cartesio e per Hume, nonostante le differenze, l’oggettività consiste nel corrispondere agli oggetti a noi esterni.
Dunque la filosofia moderna alla scienza, figlia della rivoluzione scientifica del ‘500 - ‘600, assicura due prospettive che, in entrambi casi, non danno ragione dei notevoli risultati ottenuti soprattutto dalla fisica settecentesca.
E’ possibile concepire diversamente l’oggettività della conoscenza?
Razionalismo ed empirismo costituiscono gli unici modi di concepire il processo conoscitivo umano?

Rivoluzione copernicana

La soluzione di Kant consiste in un rivolgimento "copernicano", ovvero nello scambiare di posto i due protagonisti del processo conoscitivo.
Per le prospettive filosofiche precedenti "ogni nostra conoscenza deve regolarsi sugli oggetti"; per Kant "sono gli oggetti a doversi regolare sulla nostra conoscenza".
Dunque il soggetto umano non deve mostrarsi adeguato a riprodurre un mondo già dato nella sua razionalità, ma anzi deve saper riconoscere il proprio ruolo nel costituire la realtà fenomenica organizzando il materiale proveniente dall’esperienza tramite le forme a priori che gli appartengono.
La Ragione umana è chiamata a criticare se stessa, cioè a giudicare del proprio ruolo nella conoscenza e dei risultati possibili in termini di oggettività intesa come universalità e necessità.
Insomma, che cosa possiamo conoscere in modo universale e necessario, accrescendo contemporaneamente il nostro bagaglio conoscitivo?

Giudizi conoscitivi

"7+5=12" oppure "il riscaldamento globale è causato dall’emissione di anidride carbonica" sono sicuramente giudizi che consideriamo di valore scientifico.
Per Kant la loro scientificità è data dal fatto che essi accrescono la nostra conoscenza in modo universale e necessario.
"12" non è contenuto nel concetto di somma di 7 e 5, dunque, compiuta l’operazione, ne sappiamo più di prima, ma l’operazione appunto è compiuta utilizzando una delle strutture a priori della nostra sensibilità: il tempo.
Nel linguaggio di Kant ho sintetizzato due contenuti utilizzando una forma a priori della mente.
Il concetto di riscaldamento globale non è deducibile da quello di emissione di anidride carbonica: è l’esperienza che ci ha fatto conoscere un fatto che prima non potevamo nemmeno immaginare.
La connessione tra i due contenuti empirici è compiuta dall’intelletto attraverso una sua struttura a priori comune a tutti gli uomini: la causalità.
Dunque i giudizi scientifici sono “sintetici a priori”, la sintesi del materiale empirico è effettuata grazie a strutture non empiriche; a priori, ovvero, trascendentali.
I giudizi della scienza non sono né sintetici a posteriori (una sintesi puramente empirica e quindi soggettiva), né analitici a priori (frutto di un’analisi di concetti già conosciuti e quindi incapace di accrescere il patrimonio conoscitivo).

Trascendentale

La nostra mente non possiede contenuti innati, ma non è neppure un foglio bianco come sosteneva Locke.
Essa è caratterizzata da una struttura: un insieme di strumenti con cui compie le sue operazioni conoscitive.
Tali strutture o forme a priori costituiscono il trascendentale ovvero sono trascendentali.
Trascendentale è ciò che non ha un’origine empirica, non è frutto di ripetute esperienze, ma non è neppure trascendente in quanto il suo uso è legittimo solo nell’ambito dell’esperienza stessa.
Insomma trascendentali sono quegli strumenti conoscitivi, in dotazione alla nostra specie, funzionali solo all’organizzazione di ciò che ricaviamo con la nostra esperienza sensibile.

Schema Etica kantiana (non completo)

- Dato di fatto della ragione: esiste la legge morale;

- Se esiste deve essere universale e necessaria;

- Quale ne è il fondamento?
Non l’educazione, non lo stato, non il sentimento (imperativi ipotetici), non la volontà di Dio;
Solo la Ragione è il fondamento universale e necessario di una legge morale universale e necessaria;

- Nell’uomo, però, oltre alla Ragione, c’è la Sensibilità: Natura Dualistica dell’uomo;

- Necessità di postulare la libertà per proseguire la ricerca filosofica sulla morale;

- Imperativo categorico, dovere per dovere: formalismo e disinteresse, escusione di una casistica morale: "Quando agisci, tieni presenti gli altri e rispetta la dignità umana che è in te e nel prossimo";

- Autonomia: rivoluzione copernicana a livello morale.

Postulati
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