Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

martedì 10 settembre 2013

John Stuart Mill

La costante abitudine a correggere e a completare la propria opinione confrontandola con quelle degli altri, non solo non causa dubbi o esitazioni nel tradurla in pratica, ma anzi è l'unico fondamento stabile di una corretta fiducia in essa.
Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate.
("Giovanni Boniolo et alii", "Filosofia della scienza", 2002) 

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John Stuart Mill
Saggio sulla libertà (On Liberty)

DEDICA
I - INTRODUZIONE
II - DELLA LIBERTA' DI PENSIERO E DISCUSSIONE
III - DELL'INDIVIDUALITA' COME ELEMENTO
IV - DEI LIMITI ALL'AUTORITA' DELLA SOCIETA' SULL'INDIVIDUO
V - APPLICAZIONI

DEDICA

All'amata e compianta memoria di colei che fu l'ispiratrice, e in parte l'autrice, di tutto il
meglio della mia opera – all'amica e moglie il cui altissimo senso della verità e della
giustizia era il mio stimolo più grande, e la cui approvazione era la massima ricompensa –
dedico questo volume. Come tutto ciò che ho scritto per molti anni, appartiene a lei quanto
a me; ma il lavoro, così com'è, ha ricevuto in misura molto insufficiente l'inestimabile
beneficio della sua revisione; alcune delle parti più importanti avrebbero dovuto essere
sottoposte a un riesame più accurato, che ora non riceveranno mai più. Se solamente fossi
capace di trasmettere al mondo la metà dei grandi pensieri e dei nobili sentimenti che sono
sepolti con lei, sarei il tramite di benefici maggiori di quanti potranno mai derivare da
qualunque cosa io scriva, privo dello stimolo e del conforto della sua impareggiabile
saggezza.

I - INTRODUZIONE

L'argomento di questo saggio non è la cosiddetta "libertà della volontà", tanto
infelicemente contrapposta a quella che è impropriamente chiamata dottrina della
necessità filosofica, ma la libertà civile, o sociale: la natura e i limiti del potere che la
società può legittimamente esercitare sull'individuo. Questione raramente enunciata, e
quasi mai discussa in termini generali, ma la cui presenza latente influisce profondamente
sulle polemiche quotidiane del nostro tempo, e che probabilmente si paleserà ben presto
come il problema fondamentale del futuro. È così poco nuova che, in un certo senso, ha
diviso l'umanità quasi fin dai tempi più remoti; ma, allo stadio di progresso cui sono ora
giunti i settori più civilizzati della nostra specie, si presenta alla luce di condizioni nuove e
richiede di essere trattata in modo diverso e più fondamentale. La lotta tra libertà e
autorità è il carattere più evidente dei primi periodi storici di cui veniamo a conoscenza, in
particolare in Grecia, Roma e Inghilterra. Ma nell'antichità si trattava di conflitti tra
sudditi, o alcune classi di sudditi, e governo. Per libertà si intendeva la protezione dalla
tirannia dei governanti, concepiti (salvo che nel caso di alcuni governi popolari della
Grecia) come necessariamente antagonisti al popolo da essi governato. Si trattava di un
singolo, o di una tribù o casta dominante, la cui autorità era ereditaria o frutto di
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conquista, in ogni caso non della volontà dei governatori, e la cui supremazia gli uomini
non osavano, o forse non desideravano, porre in discussione, quali che fossero le eventuali
misure di precauzione contro un suo esercizio troppo oppressivo. Il potere dei governanti
era considerato necessario, ma anche estremamente pericoloso: un'arma che essi avrebbero
cercato di usare contro i propri sudditi altrettanto che contro i nemici esterni. Per impedire
che i membri più deboli della comunità venissero depredati e tormentati da innumerevoli
avvoltoi, era indispensabile la presenza di un rapace più forte degli altri, con l'incarico di
tenerli a bada. Ma, poiché il re degli avvoltoi sarebbe stato voglioso quanto le minori arpie
di depredare il gregge, si rendeva necessario un perpetuo atteggiamento di difesa contro il
suo becco e i suoi artigli. Quindi, lo scopo dei cittadini era di porre dei limiti al potere sulla
comunità concesso al governante: e questa delimitazione era ciò che essi intendevano per
libertà. Si cercava di conseguirla in due modi: in primo luogo, ottenendo il riconoscimento
di certe immunità, chiamate libertà o diritti politici, la cui violazione da parte del
governante sarebbe stata considerata infrazione ai doveri del suo ufficio, e avrebbe
giustificato l'opposizione specifica o la ribellione generale. Una seconda modalità,
generalmente successiva, era la creazione di vincoli costituzionali per cui il consenso della
comunità, o di un qualche organismo che avrebbe dovuto rappresentarne gli interessi,
veniva reso condizione necessaria per alcuni degli atti fondamentali dell'esercizio del
potere. Nella maggior parte dei paesi europei, i governanti furono più o meno costretti ad
accettare il primo sistema ma non il secondo, e conseguirlo, o conseguirlo più
compiutamente nelle situazioni in cui già in una certa misura esisteva, divenne in ogni
paese l'obiettivo principale di chi amava la libertà. E, fino a quando l'umanità si accontentò
di combattere un nemico con un altro, e di avere un signore a condizione di essere più o
meno efficacemente garantita contro la sua tirannide, le sue aspirazioni si fermarono qui.
Tuttavia, a un certo punto del progresso umano, gli uomini cessarono di pensare che i
governanti dovessero necessariamente essere un potere indipendente, con interessi
opposti ai propri, e giudicarono molto preferibile che i vari magistrati dello Stato
ricevessero in concessione l'esercizio del potere, fossero cioè dei delegati revocabili a
piacimento dalla comunità. Solo così, si pensava, gli uomini avrebbero potuto essere
completamente sicuri che non si sarebbe mai abusato a loro danno dei poteri di governo.
Gradualmente, questa nuova richiesta di governo temporaneo e elettivo divenne
l'obiettivo principale dell'azione dei partiti popolari ovunque essi esistessero,
sostituendosi in larga misura ai precedenti tentativi di limitare il potere dei governanti.
Con lo sviluppo della lotta per fare emanare il potere dalla scelta periodica dei governanti,
alcuni cominciarono a pensare che si era attribuita troppa importanza alla limitazione del
potere in quanto tale, limitazione che a loro giudizio andava invece considerata un'arma
contro quei governanti i cui interessi si contrapponessero abitualmente a quelli popolari.
Ciò che ora si voleva era l'identificazione dei governanti con il popolo, la coincidenza del
loro interesse e volontà con quelli della nazione. Quest'ultima non aveva bisogno di essere
protetta dalla propria volontà: non vi era da temere che diventasse il tiranno di se stessa.
Se i governanti fossero stati effettivamente responsabili verso di essa, e da essa
immediatamente amovibili, la nazione avrebbe potuto permettersi di affidare loro un
potere il cui uso sarebbe dipeso dalla sua volontà: il potere di governo non sarebbe stato
altro che quello della nazione, concentrato in forma tale da permetterne un efficace
esercizio. Questa linea di pensiero, o – forse più esattamente – questo sentimento, era
diffusa nell'ultima generazione del liberalismo europeo, e sembra ancora predominare nel
Continente. Coloro che ammettono limiti alle possibilità di azione di un governo, salvo che
si tratti di governi che a loro avviso non dovrebbero esistere, sono delle brillanti, isolate
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eccezioni tra i pensatori politici del Continente: e un sentimento analogo potrebbe ormai
prevalere anche nel nostro paese se le circostanze che lo hanno per un certo periodo
favorito fossero rimaste immutate. Ma, nelle teorie politiche e filosofiche come nelle
persone, il successo pone in luce difetti e debolezze che l'insuccesso avrebbe potuto
mantenere celati. L'idea secondo cui non vi è necessità che il popolo limiti il proprio potere
su se stesso poteva sembrare assiomatica in tempi in cui il governo popolare era solo un
obiettivo fantasticato o lo si conosceva attraverso le letture, come fenomeno di un lontano
passato: né venne necessariamente scossa da aberrazioni temporanee come quelle della
Rivoluzione francese, le peggiori delle quali erano opera di pochi usurpatori, e che
comunque non erano proprie del funzionamento permanente di istituzioni popolari, ma di
un'improvvisa e convulsa esplosione contro il dispotismo monarchico e aristocratico. A un
certo punto, tuttavia, vi fu una repubblica democratica che si sviluppò fino a occupare una
vasta distesa di territorio e a far sentire il proprio peso come uno dei membri più potenti
nella comunità delle nazioni; e in questo modo il governo elettivo e responsabile divenne
oggetto delle osservazioni e delle critiche che accompagnano ogni grande realtà. Ci si rese
allora conto che espressioni come "autogoverno" e "potere del popolo su se stesso" non
esprimevano il vero stato delle cose. Il "popolo" che esercita il potere non coincide sempre
con coloro sui quali quest'ultimo viene esercitato; e l'"autogoverno" di cui si parla non è il
governo di ciascuno su se stesso, ma quello di tutti gli altri su ciascuno. Inoltre, la volontà
del popolo significa, in termini pratici, la volontà della parte di popolo più numerosa o
attiva – la maggioranza, o coloro che riescono a farsi accettare come tale; di conseguenza, il
popolo può desiderare opprimere una propria parte, e le precauzioni contro ciò sono
altrettanto necessarie quanto quelle contro ogni altro abuso di potere. Quindi, la
limitazione del potere del governo sugli individui non perde in alcun modo la sua
importanza quando i detentori del potere sono regolarmente responsabili verso la
comunità, cioè al partito che in essa predomina. Questa impostazione, che soddisfa sia la
riflessione intellettuale sia le tendenze di quelle importanti classi della società europea ai
cui interessi, reali o presunti, si oppone la democrazia, non ha trovato difficoltà a imporsi;
e il pensiero politico ormai comprende generalmente "la tirannia della maggioranza" tra i
mali da cui la società deve guardarsi. Come altre tirannie, quella della maggioranza fu
dapprima – e volgarmente lo è ancora – considerata, e temuta, soprattutto in quanto
conseguenza delle azioni delle pubbliche autorità. Ma le persone più riflessive compresero
che, quando la società stessa è il tiranno – la società nel suo complesso, sui singoli
individui che la compongono –, il suo esercizio della tirannia non si limita agli atti che può
compiere per mano dei suoi funzionari politici. La società può eseguire, ed esegue, i propri
ordini: e se gli ordini che emana sono sbagliati, o comunque riguardano campi in cui non
dovrebbe interferire, esercita una tirannide sociale più potente di molti tipi di oppressione
politica, poiché, anche se generalmente non viene fatta rispettare con pene altrettanto
severe, lascia meno vie di scampo, penetrando più profondamente nella vita quotidiana e
rendendo schiava l'anima stessa. Quindi la protezione dalla tirannide del magistrato non è
sufficiente: è necessario anche proteggersi dalla tirannia dell'opinione e del sentimento
predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme di condotta e con mezzi
diversi dalle pene legali, le proprie idee e usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo – e
a prevenire, se possibile, la formazione – di qualsiasi individualità discordante, e a
costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello. Vi è un limite alla legittima
interferenza dell'opinione collettiva sull'indipendenza individuale: e trovarlo, e difenderlo
contro ogni abuso, è altrettanto indispensabile alla buona conduzione delle cose umane
quanto la protezione dal dispotismo politico. Ma, anche se quest'asserzione è difficilmente
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opinabile in termini generali, nella questione pratica della determinazione del limite – di
come conseguire l'equilibrio più opportuno tra indipendenza individuale e controllo
sociale – quasi tutto resta ancora da fare. Tutto ciò che rende l'esistenza di chiunque degna
di essere vissuta dipende dall'impostazione di restrizioni sulle azioni altrui. Di
conseguenza devono essere imposte alcune regole di condotta – dalla legge in primo
luogo, e dall'opinione nei molti campi che non si prestano a legislazione. Quali debbano
essere queste regole è il problema principale della collettività umana; ma, ad eccezione di
alcuni dei casi più ovvii, è questo un problema verso la cui soluzione sono stati compiuti
minori progressi. Nessun'epoca, e quasi nessun paese, lo hanno risolto nello stesso modo;
e la soluzione di un paese o epoca è lo stupore degli altri: e tuttavia, gli uomini di qualsiasi
singolo paese, o epoca, non ne sospettano mai le difficoltà, come se l'umanità fosse sempre
stata unanime su questo argomento. Le regole secondo cui vivono sembrano loro ovvie e
autogiustificantesi. Quest'illusione del tutto universale è un esempio della magica
influenza della consuetudine, che non è solo, come afferma il proverbio, una seconda
natura, ma viene continuamente scambiata per la prima. L'efficacia della consuetudine nel
prevenire ogni dubbio sulle norme di condotta che gli uomini si impongono a vicenda è
tanto più completa perché l'argomento è uno di quelli su cui non viene generalmente
considerato necessario fornire spiegazioni, né agli altri né a se stessi. Gli uomini sono
abituati a credere, e a ciò sono stati incoraggiati da alcuni che aspirano a essere definiti
filosofi, che in questioni di tale natura i loro sentimenti siano meglio delle ragioni e le
rendano inutili. Il principio pratico che forma le loro opinioni sulle regole della condotta
umana è il sentimento, da parte di ciascuno, che a ciascuno dovrebbe essere prescritto di
agire come piacerebbe a lui e a coloro con cui simpatizza. Nessuno, è vero, ammette a se
stesso che il suo criterio di giudizio è il suo gradimento; ma un'opinione su un dato tipo di
condotta, che non sia confortata da ragioni, può solo essere considerata una preferenza
individuale; e se le ragioni addotte sono semplicemente un appello a una simile preferenza
condivisa da altri, l'opinione è solo il gradimento di molti invece che di uno. Tuttavia, per
un uomo comune la sua preferenza, su una simile base, è non solo una ragione
perfettamente soddisfacente ma generalmente l'unica che giustifica qualunque sua
nozione di morale, gusto o decoro che non sia espressamente prevista dal suo credo
religioso, e la sua principale guida anche nell'interpretazione di quest'ultimo. Di
conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia degno di lode o di biasimo sono
condizionate da tutte le molteplici cause che ne influenzano i desideri riguardanti l'altrui
condotta, le quali sono altrettanto numerose quanto quelle che determinano i desideri
umani in ogni altro campo. Talvolta è la ragione; talaltra i pregiudizi o le superstizioni;
spesso le passioni sociali, non di rado quelle antisociali, l'invidia o la gelosia, l'arroganza o
il disprezzo; ma soprattutto i desideri o le paure per se stessi – gli interessi personali,
legittimi o illegittimi. Dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana,
in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di classe.
L'etica dei rapporti tra Spartani e Iloti, tra piantatori e negri, tra principi e sudditi, tra
nobili e rotuners, tra uomini e donne è stata per la maggior parte creata da questi interessi
e sentimenti di classe; e i sentimenti così generati reagiscono a loro volta sulla morale dei
membri della classe dominante nei loro rapporti reciproci. Dove, d'altro canto, una classe
non sia più dominante, o il suo predominio sia impopolare, i sentimenti morali prevalenti
sono frequentemente improntati a un'impaziente avversione per la sua superiorità. Un
altro grande principio che ha determinato le norme di condotta – intesa sia come azione
sia come omissione – fatte rispettare dalla legge o dall'opinione è stato il servilismo degli
uomini nei confronti delle supposte preferenze o antipatie dei loro signori temporali o dei
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loro dei. Questo servilismo, anche se essenzialmente egoistico, non è ipocrisia; dà luogo a
sentimenti di orrore del tutto genuini; ha fatto bruciare maghi e eretici. Tra tante mediocri
influenze, anche gli interessi generali e evidenti della società hanno naturalmente avuto un
ruolo, importante, nell'orientamento dei sentimenti morali: meno, tuttavia, in quanto
elementi razionali, e per i propri meriti intrinseci, che in virtù delle conseguenze delle
simpatie e antipatie da essi originate; e simpatie e antipatie che con gli interessi della
società avevano poco o nulla a che fare hanno avuto un peso altrettanto grande
nell'affermazione delle morali sociali. Le simpatie e antipatie della società, o di qualche
suo potente settore, sono quindi il fattore principale che ha in pratica determinato le
norme di comportamento da osservare per non incorrere nelle sanzioni della legge o
dell'opinione. E, in generale, coloro il cui pensiero o i cui sentimenti erano più avanzati di
quelli della loro società hanno evitato di attaccare in linea di principio questo stato di cose,
anche se talvolta possono essersi trovati in conflitto con alcuni suoi aspetti. Si sono
preoccupati di determinare ciò che la società dovrebbe preferire o avversare, piuttosto che
di chiedersi se queste simpatie o antipatie debbano aver valore di legge per gli individui:
hanno preferito tentare di modificare i sentimenti degli uomini rispetto alle questioni
particolari su cui essi stessi erano degli eretici, piuttosto che far causa comune con gli
eretici in generale per difendere la libertà. Il solo caso in cui si è scelta per principio questa
posizione più elevata, e la si è mantenuta con coerenza, salvo rare eccezioni individuali, è
quello delle convinzioni religiose: caso per molti aspetti istruttivo, non da ultimo perché
costituisce un esempio straordinario della fallibilità di ciò che è chiamato senso morale;
poiché l'odium theologicum, in un sincero bigotto, è uno dei casi più inequivocabili di
sentimento morale. Coloro che per primi spezzarono il giogo di quella che si autodefiniva
Chiesa Universale erano in generale altrettanto poco inclini di quest'ultima a permettere
differenze di opinione religiosa. Ma, quando si spense la vampata del conflitto senza che
nessun contendente riportasse completa vittoria, e ogni chiesa o setta si trovò costretta a
limitare le proprie speranze al mantenimento del terreno che in quel momento occupava,
le minoranze, consce di non aver alcuna possibilità di diventare maggioranze, dovettero
necessariamente richiedere a coloro che non potevano convertire il permesso di dissentire.
Di conseguenza è su questo campo di battaglia – caso quasi unico – che i diritti
dell'individuo, contrapposti a quelli della società, sono stati rivendicati su un'ampia base
di principio, e la pretesa da parte della società di esercitare la propria autorità sui
dissenzienti è stata apertamente contestata. I grandi scrittori cui il mondo è debitore del
grado di libertà religiosa di cui gode hanno per la maggior parte rivendicato la libertà di
coscienza come diritto inalienabile, e assolutamente negato che si debba rendere conto ad
altri delle proprie convinzioni religiose. Tuttavia, l'intolleranza, in tutti i campi che
realmente contano per l'umanità, è tanto connaturata che la libertà religiosa non è stata
quasi mai realizzata in pratica, salvo che nei casi in cui l'indifferenza religiosa, che non
gradisce essere turbata da dispute teologiche, ha fatto valere il proprio peso. Quasi tutte le
persone religiose, anche nei paesi più tolleranti, ammettono il dovere della tolleranza con
tacite riserve. Qualcuno sopporterà il dissenso in questioni di governo ecclesiastico, ma
non di dogma; un altro tollererà tutti, purché non siano papisti o unitari; pochi spingono la
propria carità un poco più oltre, ma non transigono sulla questione dell'esistenza di un
Dio e della vita futura. Dovunque il sentimento religioso della maggioranza rimane
genuino e intenso, si scopre che la sua pretesa di essere ubbidito è appena mitigata. Le
particolari circostanze della nostra storia politica fanno sì che in Inghilterra, anche se il
giogo dell'opinione è forse più pesante, quello della legge sia più lieve che nella maggior
parte degli altri paesi europei; e vi è un'accentuata insofferenza per l'intervento diretto del
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potere legislativo o esecutivo nella condotta individuale, non tanto per un giusto rispetto
dell'indipendenza individuale, ma perché sussiste ancora l'abitudine di considerare il
governo come espressione di interessi contrapposti a quelli dei cittadini. La maggioranza
non ha ancora imparato a percepire il potere del governo come proprio potere, o le
opinioni governative come proprie. Quando ciò avverrà, la libertà individuale sarà
probabilmente altrettanto esposta agli assalti dello Stato quanto lo è già a quelli
dell'opinione pubblica. Ma, ancor oggi, prevale un diffuso sentimento pronto a essere
mobilitato contro ogni tentativo da parte della legge di controllare gli individui in campi
in cui fino ad ora non sono stati abituati a tale controllo; è una reazione quasi del tutto
indiscriminata, che non si chiede se una data questione appartenga o meno alla sfera
legittima del controllo legale; tanto che questo sentimento, nel complesso altamente
salutare, nella pratica viene forse evocato altrettanto spesso a torto che a ragione. In effetti,
non vi è alcun principio riconosciuto sulla cui base venga valutata abitualmente la
maggiore o minore opportunità dell'interferenza statale. Gli uomini decidono secondo le
loro preferenze personali: alcuni, di fronte alla possibilità di realizzare un bene o di
rimediare a un male, incitano volentieri lo Stato a prendersene carico, mentre altri
preferiscono sopportare quasi ogni sorta di male sociale piuttosto che aumentare, fosse
pure di uno, il numero dei settori di attività umane riconducibili sotto il controllo statale.
E, in ciascun caso particolare, gli uomini si schierano in uno dei due campi, secondo
quest'inclinazione generale dei loro sentimenti, o secondo il loro grado di interesse nella
questione per cui è proposto l'intervento statale, o secondo le loro previsioni sul
comportamento dello Stato, giudicato nei termini delle loro preferenze; ma molto di rado
prendono partito in base a una loro opinione coerente su ciò che spetti allo Stato compiere.
E mi sembra che, a causa di questa mancanza di una regola o principio, attualmente i due
opposti campi errino nella stessa misura: l'interferenza dello Stato è, quasi con la stessa
frequenza, auspicata a torto e condannata a torto. Scopo di questo saggio è formulare un
principio molto semplice, che determini in assoluto i rapporti di coartazione e controllo tra
società e individuo, sia che li si eserciti mediante la forza fisica, sotto forma di pene legali,
sia mediante la coazione morale dell'opinione pubblica. Il principio è che l'umanità è
giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d'azione di
chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente
esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua
volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell'individuo, sia esso fisico o morale, non è
una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché
è meglio per lui, perché lo renderà più felice, perché, nell'opinione altrui, è opportuno o
perfino giusto: questi sono buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o
supplicarlo, ma non per costringerlo o per punirlo in alcun modo nel caso si comporti
diversamente. Perché la costrizione o la punizione siano giustificate, l'azione da cui si
desidera distoglierlo deve essere intesa a causare danno a qualcun altro. Il solo aspetto
della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante
gli altri: per l'aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta.
Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l'individuo è sovrano. È forse superfluo
aggiungere che questa dottrina vale solo per esseri umani nella pienezza delle loro facoltà.
Non stiamo parlando di bambini o di giovani che sono per legge ancora minori d'età.
Coloro che ancora necessitano dell'assistenza altrui devono essere protetti dalle proprie
azioni quanto dalle minacce esterne. Per la stessa ragione, possiamo tralasciare quelle
società arretrate in cui la razza stessa può essere considerata minorenne. Le difficoltà che
inizialmente si oppongono al progresso spontaneo sono così grandi che raramente si può
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scegliere tra diversi mezzi di superarle: e un governante animato da intenzioni
progressiste è giustificato a impiegare ogni mezzo che permetta di conseguire un fine forse
altrimenti impossibile. Il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che
fare con barbari, purché il fine sia il loro progresso e i mezzi vengano giustificati dal suo
reale conseguimento. La libertà, come principio, non è applicabile in alcuna situazione
precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la
discussione libera e tra eguali. Fino ad allora, non vi è nulla per loro, salvo l'obbedienza
assoluta a un Aqbar o a un Carlomagno se sono così fortunati da trovarlo. Ma, non appena
gli uomini hanno conseguito la capacità di essere guidati verso il proprio progresso dalla
convinzione o dalla persuasione (condizione da molto tempo raggiunta in tutte le nazioni
di cui ci dobbiamo occupare), la costrizione, sia in forma diretta sia sotto forma di pene e
sanzioni per chi non si adegua, non è più ammissibile come strumento di progresso, ed è
giustificabile solo per la sicurezza altrui. È opportuno dichiarare che rinuncio a qualsiasi
vantaggio che alla mia argomentazione potrebbe derivare dalla concezione del diritto
astratto come indipendente dall'utilità. Considero l'utilità il criterio ultimo in tutte le
questioni etiche; ma deve trattarsi dell'utilità nel suo senso più ampio, fondata sugli
interessi permanenti dell'uomo in quanto essere progressivo. La mia tesi è che questi
interessi autorizzano l'assoggettamento della spontaneità individuale al controllo esterno
solo rispetto alle azioni individuali che riguardino interessi altrui. Se qualcuno commette
un atto che danneggia altri, vi è motivo evidente di punirlo con sanzioni legali o, nel caso
in cui siano di incerta applicazione, con la disapprovazione generale. Vi sono anche molte
azioni positive a favore di altri che ciascuno può essere legittimamente obbligato a
compiere: per esempio, testimoniare davanti a un tribunale, portare il giusto contributo
alla difesa comune o a ogni altra attività collettiva necessaria agli interessi della società di
cui si gode la protezione, compiere certi atti di assistenza individuale, come salvare la vita
di un altro essere umano o intervenire a proteggere delle persone indifese contro gli abusi
– tutte quelle azioni insomma che costituiscono un palese dovere, del cui mancato
adempimento si può legittimamente essere chiamati a rispondere alla società. Una persona
può causare danno agli altri non solo per azione ma anche per omissione, e in entrambi i
casi ne deve giustamente rendere loro conto. È vero che il secondo caso richiede, in misura
molto maggiore del primo, cautela nell'esercizio della coercizione. Rendere chiunque
responsabile del male che fa agli altri è la regola; renderlo responsabile del male che non
impedisce è, in termini relativi, l'eccezione. Tuttavia vi sono molti casi sufficientemente
chiari e gravi da giustificarlo. In tutto ciò che riguarda i rapporti esterni dell'individuo,
quest'ultimo è de jure responsabile verso coloro i cui interessi sono coinvolti, e, se
necessario, verso la società in quanto loro protettore. Vi sono spesso buone ragioni per non
richiamarlo a questa responsabilità, ma devono dipendere dalle particolarità specifiche
della situazione: o si tratta di casi in cui, tutto considerato, è probabile che l'individuo si
comporti meglio se lo si lascia agire come ritiene più opportuno e non si esercita su di lui
alcuno dei controlli di cui la società ha il potere; oppure il tentativo di esercitare un
controllo produrrebbe altri mali, maggiori di quelli che eviterebbe. Quando ragioni come
queste impediscono il richiamo alla responsabilità, dovrebbe essere la coscienza
dell'individuo a farsi giudice e a proteggere gli interessi di chi non gode di protezioni
esterne, esercitando un giudizio tanto più severo in quanto la situazione lo esime dal
rendere conto ai suoi simili. Ma vi è una sfera d'azione in cui la società, in quanto distinta
dall'individuo, ha, tutt'al più, soltanto un interesse indiretto: essa comprende tutta quella
parte della vita e del comportamento di un uomo che riguarda soltanto lui, o se riguarda
anche altri, solo con il loro libero consenso e partecipazione, volontariamente espressi e
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non ottenuti con l'inganno. Quando dico "soltanto" lui, intendo "direttamente e in primo
luogo", poiché tutto ciò che riguarda un individuo può attraverso di lui riguardare altri; e
l'obiezione che può sorgere in questa circostanza verrà presa in considerazione più avanti.
Questa, quindi, è la regione propria della libertà umana. Comprende, innanzitutto, la sfera
della coscienza interiore, ed esige libertà di coscienza nel suo senso più ampio, libertà di
pensiero e sentimento, assoluta libertà di opinione in tutti i campi, pratico o speculativo,
scientifico, morale, o teologico. La libertà di esprimere e rendere pubbliche le proprie
opinioni può sembrare dipendere da un altro principio, poiché rientra in quella parte del
comportamento individuale che riguarda gli altri, ma ha quasi altrettanta importanza
della stessa libertà di pensiero, in gran parte per le stesse ragioni, e quindi ne è in pratica
inscindibile. In secondo luogo, questo principio richiede la libertà di gusti e occupazioni,
di modellare il piano della nostra vita secondo il nostro carattere, di agire come vogliamo,
con tutte le possibili conseguenze, senza essere ostacolati dai nostri simili, purché le nostre
azioni non li danneggino, anche se considerano il nostro comportamento stupido, nervoso,
o sbagliato. In terzo luogo, da questa libertà di ciascuno discende, entro gli stessi limiti,
quella di associazione tra individui: la libertà di unirsi per qualunque scopo che non
implichi altrui danno, a condizione che si tratti di adulti, non costretti con la forza o
l'inganno. Nessuna società in cui queste libertà non siano rispettate nel loro complesso è
libera, indipendentemente dalla sua forma di governo; e nessuna in cui non siano assolute
e incondizionate è completamente libera. La sola libertà che meriti questo nome è quella di
perseguire il nostro bene a nostro modo, purché non cerchiamo di privare gli altri del loro
o li ostacoliamo nella loro ricerca. Ciascuno è l'unico autentico guardiano della propria
salute, sia fisica sia mentale e spirituale. Gli uomini traggono maggior vantaggio dal
permettere a ciascuno di vivere come gli sembra meglio che dal costringerlo a vivere come
sembra meglio agli altri. Benché questa dottrina sia tutt'altro che nuova, e per alcuni possa
aver l'aria di un truismo, non ve n'è altra che si contrapponga più direttamente alla
tendenza generale dell'opinione e della pratica attuali. La società ha sempre tentato di
costringere (per quanto le era possibile) i suoi membri a conformarsi alle sue nozioni di
eccellenza, e quella personale è sicuramente stata oggetto di altrettanti sforzi che quella
sociale. Le comunità antiche, con l'approvazione dei filosofi, si ritenevano in diritto di
esercitare il controllo pubblico su ogni aspetto della condotta individuale, giustificandolo
col fatto che lo Stato aveva un profondo interesse nell'intera disciplina mentale e fisica di
ogni suo cittadino – un modo di pensare che poteva essere ammissibile in piccole
repubbliche circondate da nemici potenti, in continuo pericolo di essere rovesciate da
attacchi esterni o moti interni, per i quali anche un breve intervallo di rilassamento
dell'energia e dell'autocontrollo avrebbe potuto così facilmente risultare fatale che non
potevano permettersi di attendere i salutari effetti permanenti della libertà. Nel mondo
moderno, le maggiori dimensioni delle comunità politiche e, soprattutto, la separazione
tra autorità spirituale e temporale (che ha posto la direzione delle coscienze degli uomini
in mani diverse da quelle che ne controllano le sorti terrene) hanno impedito che la legge
interferisse a tal punto nella vita privata; ma gli strumenti di repressione morale hanno
infierito sul dissenso dall'opinione dominante con maggiore accanimento, nelle questioni
private ancor più che in quelle sociali; infatti la religione, l'elemento più potente per la
formazione del sentimento morale, è stata quasi sempre assoggettata o all'ambizione di
una gerarchia che cercava di controllare ogni aspetto della condotta umana, o allo spirito
del Puritanesimo. E alcuni di quei moderni riformatori che si sono più violentemente
opposti alle religioni del passato non sono certo stati da meno di chiese o sette nella loro
asserzione del diritto alla dominazione spirituale: in particolare Comte, il cui sistema
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sociale, descritto nel suo Système de Politique Positive, mira a instaurare (anche se con
mezzi morali più che legali) un dispotismo della società sull'individuo che oltrepassa
qualsiasi ideale politico del più ferreo e severo filosofo antico. A parte i curiosi dogmi di
singoli pensatori, vi è in generale nel mondo anche una crescente inclinazione a estendere
indebitamente i poteri della società sull'individuo, sia con la forza dell'opinione sia con
quella della legislazione; e, poiché la tendenza di tutti i mutamenti in corso nel mondo è a
rafforzare la società e diminuire il potere dell'individuo, questo abuso non è un male che
tende a scomparire spontaneamente, ma, al contrario, diventa sempre più formidabile.
L'inclinazione degli uomini, siano essi governanti o semplici cittadini, a imporre agli altri,
come norme di condotta, le proprie opinioni e tendenze è così energicamente appoggiata
da alcuni dei migliori e dei peggiori sentimenti inerenti all'umana natura, che quasi
sempre è frenata soltanto dalla mancanza di potere; e poiché quest'ultimo non è in
diminuzione ma in aumento, dobbiamo attenderci che, se non si riesce a erigere una solida
barriera di convinzioni morali contro di esso, nella situazione attuale del mondo il male si
estenda. Ai fini della nostra argomentazione sarà opportuno, invece di affrontare
immediatamente la tesi generale, limitarci per il momento a un suo aspetto singolo,
riguardo al quale il principio da noi enunciato è ammesso dall'opinione corrente, se non
completamente, almeno fino a un certo punto. Questo aspetto è la libertà di pensiero, da
cui è impossibile separare la connessa libertà di parola e di scrittura. Anche se esse, in
misura abbastanza considerevole, fanno parte dell'etica politica di tutti i paesi professanti
la tolleranza religiosa e le libere istituzioni, le basi, sia filosofiche sia pratiche, su cui si
fondano non sono forse del tutto familiari all'opinione comune, né comprese tanto a fondo
quanto ci si attenderebbe da molti, tra cui anche uomini politici. Queste basi, se
correttamente comprese, hanno una validità che non si limita soltanto a questo aspetto
della questione, il cui esame approfondito si rivelerà la migliore introduzione agli altri.
Spero quindi che coloro ai quali nulla di ciò che mi appresto a dire suonerà nuovo mi
scusino se mi permetto di discutere ancora una volta un argomento che da ormai tre secoli
è stato così frequentemente oggetto di dibattito.

II - DELLA LIBERTA' DI PENSIERO E DISCUSSIONE

È da sperare che sia trascorsa l'epoca in cui era necessario difendere la "libertà di stampa"
come una delle garanzie contro un governo corrotto o tirannico. Possiamo supporre che
non sia più necessario dimostrare che non si può consentire a una legislatura o a un
esecutivo, i cui interessi non si identifichino con quelli dei cittadini, di imporre loro delle
opinioni e di stabilire quali dottrine o argomentazioni essi possano ascoltare. Inoltre,
questo aspetto della questione è stato così spesso e con tale successo fatto valere da autori
precedenti che è inutile insistervi particolarmente in questa sede. Anche se la legge
d'Inghilterra è, per quanto riguarda la stampa, altrettanto servile oggi di quanto lo era
all'epoca dei Tudor, vi è scarso pericolo che venga effettivamente applicata contro la
discussione politica, salvo che in situazioni temporanee di panico, in cui la paura di
insurrezioni spinge ministri e giudici a violare le regole che devono governare la loro
condotta ; e, più in generale, nei paesi a regime costituzionale non vi è da temere che i
governi, siano essi completamente responsabili verso il popolo o no, tentino spesso di
controllare l'espressione delle opinioni, salvo nei casi in cui così facendo esprimano
l'intolleranza generale dei cittadini. Supponiamo quindi che il governo concordi
totalmente con i cittadini, e non sia mai tentato di esercitare alcun potere coercitivo che
non corrisponda a quella che ritiene la loro opinione. Ma io nego il diritto del popolo a
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esercitare questa coercizione, sia da solo sia mediante il proprio governo. Il potere stesso è
illegittimo: il migliore governo non vi ha più diritto del peggiore. È altrettanto, o forse più,
dannoso quando lo si esercita seguendo l'opinione pubblica che contro di essa. Se tutti gli
uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far tacere
quell'unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l'umanità.
Se l'opinione fosse un bene privato, privo di valore eccetto che per il suo proprietario, se
essere ostacolati nel suo godimento fosse semplicemente un danno privato, il numero
delle persone che lo subiscono farebbe una certa differenza. Ma impedire l'espressione di
un'opinione è un crimine particolare, perché significa derubare la razza umana, i posteri
altrettanto che i vivi, coloro che dall'opinione dissentono ancor più di chi la condivide: se
l'opinione è giusta, sono privati dell'opportunità di passare dall'errore alla verità; se è
sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto grande, la percezione più chiara e viva
della verità, fatta risaltare dal contrasto con l'errore. È necessario considerare
separatamente queste due ipotesi, a ciascuna delle quali corrisponde un aspetto distinto
della nostra argomentazione. Non possiamo mai essere certi che l'opinione che stiamo
cercando di soffocare sia falsa; e anche se lo fossimo, soffocarla resterebbe un male. In
primo luogo, l'opinione che si cerca di sopprimere d'autorità può forse essere vera.
Naturalmente, coloro che desiderano sopprimerla ne negheranno la verità: ma non sono
infallibili. Non hanno alcuna autorità di decidere la questione per tutta l'umanità,
togliendo a chiunque altro la possibilità di giudizio. Rifiutarsi di ascoltare un'opinione
perché si è certi che è falsa significa presupporre che la propria certezza coincida con la
certezza assoluta. Ogni soppressione della discussione è una presunzione di infallibilità:
per condannarla basta questo ragionamento, semplice, ma non per questo inefficace.
Sfortunatamente per il buon senso degli uomini, la loro effettiva fallibilità non ha certo nei
loro giudizi pratici il peso che le viene sempre attribuito nella teoria; poiché, mentre
ciascuno sa benissimo di essere fallibile, pochi ritengono necessario cautelarsi dalla
propria fallibilità o ammettere la supposizione che una qualsiasi opinione di cui si sentano
del tutto certi possa essere un esempio di quell'errore cui si riconoscono soggetti. I sovrani
assoluti, o coloro che sono abituati a una deferenza illimitata, generalmente hanno questa
completa fiducia nelle proprie opinioni su quasi ogni questione. Le persone in una
condizione più felice, le cui opinioni sono talvolta contestate e per cui non è del tutto
insolito essere corrette quando hanno torto, hanno la stessa fiducia illimitata soltanto nelle
opinioni condivise da tutti coloro che le circondano, o di coloro ai cui giudizi si rimettono;
poiché, in misura proporzionale alla sua mancanza di fiducia nel proprio giudizio
individuale, l'uomo abitualmente si basa, con fiducia assoluta, sull'infallibilità del "mondo"
in generale. E il mondo significa, per ciascuno, la parte di esso con cui è in contatto: il suo
partito, la sua setta, la sua chiesa, la sua classe sociale; al confronto l'uomo per cui il
significato del mondo si estende a comprendere il suo paese o la sua epoca può essere
quasi definito liberale e di larghe vedute. E la sua fede in questa autorità collettiva non è
affatto scossa dal sapere che altre epoche, nazioni, sette, chiese, classi e parti politiche
hanno pensato, e tuttora pensano, esattamente il contrario. L'uomo scarica sul proprio
mondo la responsabilità di essere nel giusto, contro il dissenso dei mondi altrui; e non è
mai turbato dal fatto che è stato il puro accidente a decidere quale di questi numerosi
mondi sia oggetto della sua fiducia, e che le stesse cause che lo hanno reso anglicano a
Londra l'avrebbero fatto diventare buddista o confuciano a Pechino. Tuttavia è di per sé
evidente, senza alcun bisogno di dimostrazione, che le epoche storiche non sono più
infallibili degli individui: ciascuna ha creduto vere molte opinioni giudicate non solo false
ma assurde da epoche successive; ed è certo che molte opinioni, attualmente comuni,
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saranno respinte dal futuro, come molte opinioni comuni in passato sono respinte dal
presente. L'obiezione più plausibile a questo ragionamento verrebbe probabilmente
formulata nel modo seguente. Il divieto di propagare l'errore non implica una presunzione
di infallibilità maggiore di quella implicita in qualsiasi altro atto compiuto dall'autorità
pubblica in base al suo giudizio e alla sua responsabilità. Il giudizio è dato agli uomini
perché lo usino. Dato che lo possono esercitare erroneamente, bisogna dirgli che non
dovrebbero usarlo affatto? Vietare ciò che ritengono dannoso non significa pretendere di
essere immuni dall'errore, ma adempiere al dovere, che tocca loro anche se sono fallibili,
di agire in base alle proprie convinzioni e coscienze. Se non agissimo mai sulla base delle
nostre opinioni perché possono essere erronee, trascureremmo tutti i nostri interessi e
verremmo meno a tutti i nostri doveri. Una obiezione che riguardi il complesso del
comportamento umano non può essere valida per alcun comportamento particolare. È
dovere dei governi, e degli individui, formarsi opinioni che rispondano il più possibile al
vero; formarsele con cura, e non imporle mai ad altri se non si è certi di aver ragione. Ma,
una volta che ne siano certi (così proseguirebbero i sostenitori di questa posizione),
sarebbero mossi non dalla coscienza ma dalla viltà se evitassero di agire in base alle
proprie opinioni e permettessero a dottrine che in buona fede ritengono pericolose per il
benessere dell'umanità, in questa vita o in un'altra, di diffondersi senza freno, per la sola
ragione che altri, in tempi meno illuminati, hanno perseguitato opinioni oggi considerate
vere. Stiamo attenti – si potrebbe ammonire – a non compiere lo stesso errore; ma i governi
e le nazioni hanno errato in altri campi, in cui l'esercizio dell'autorità non viene
considerato illegittimo: hanno imposto tassazioni inique, scatenato guerre ingiuste.
Dovremmo allora non imporre tasse e, per quanto provocati, non dichiarare guerre?
Uomini e governi devono agire come meglio sanno. La certezza assoluta non esiste, ma
esiste una sicurezza sufficiente ai fini della vita umana. Nella guida della nostra condotta
possiamo, e dobbiamo, presumere che la nostra opinione sia vera: proibire a dei malvagi
di sconvolgere la società diffondendo opinioni che riteniamo false e perniciose non
presuppone nulla di più. La mia risposta è che presuppone molto di più. Vi è la massima
differenza tra presumere che un'opinione è vera perché, pur esistendo ogni opportunità di
discuterla, non è stata confutata, e presumerne la verità al fine di non permetterne la
confutazione. È proprio la completa libertà di contraddire e confutare la nostra opinione
che ci giustifica quando ne presumiamo la verità ai fini della nostra azione; e solo in questi
termini chi disponga di facoltà umane può trovare una sicurezza razionale di essere nel
giusto. Se consideriamo la storia dell'opinione oppure la normale condotta delle vicende
umane, qual è la causa per cui entrambe non sono peggiori di quanto siano? Non certo la
forza intrinseca della comprensione umana, poiché per ogni questione che non sia del
tutto ovvia vi sono novantanove persone completamente incapaci di darne un giudizio per
una che lo è; e la capacità della centesima è soltanto relativa, dal momento che la maggior
parte degli uomini illustri di ciascuna generazione passata ha sostenuto molte opinioni che
oggi vengono riconosciute erronee, e compiuto o approvato molti atti che oggi nessuno
giustificherebbe. Perché, allora, tra gli uomini nel complesso predominano comportamenti
e opinioni razionali? Se davvero vi è questo predominio – e deve esservi, altrimenti gli
uomini sarebbero, e sarebbero sempre stati, in una situazione quasi disperata –, è dovuto a
una qualità della mente umana, la fonte di tutto ciò che vi è di rispettabile nell'uomo inteso
come essere sia intellettuale sia morale, e cioè la possibilità di correggere i propri errori, di
rimediarvi con la discussione e l'esperienza. Non con la sola esperienza: la discussione è
necessaria per indicarne l'interpretazione. Le opinioni e le pratiche erronee cedono
gradualmente ai fatti e agli argomenti: che però per avere effetto sulla mente devono
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essere sottoposti alla sua considerazione. Pochissimi fatti si spiegano da soli, senza
necessità di commenti che ne mostrino il significato. Dato quindi che la forza e il valore del
giudizio umano dipendono interamente dalla sua proprietà di poter venire corretto
quando è errato, esso è attendibile soltanto quando i mezzi per correggerlo sono tenuti
costantemente a disposizione. Consideriamo una persona il cui giudizio sia veramente
degno di fiducia: come lo è diventato? Perché si è mantenuto aperto alle critiche
riguardanti le sue opinioni e la sua condotta. Perché si è imposto come prassi costante di
ascoltare tutto ciò che potesse venire detto contro di lui; di metterne a profitto quanto fosse
giusto, e di chiarire, a se stesso e se necessario ad altri, l'erroneità di quanto fosse erroneo.
Perché ha intuito che il solo modo in cui un uomo può in una certa misura avvicinarsi alla
conoscenza complessiva di un argomento è ascoltando ciò che ne dicono persone di ogni
opinione, e studiando tutte le modalità secondo cui può essere considerato da ogni punto
di vista. Nessuno è mai giunto alla saggezza in altro modo; né la natura dell'intelletto
umano consente altri modi di diventare saggi. La costante abitudine a correggere e
completare la propria opinione confrontandola con le altrui non solo non causa dubbi ed
esitazioni nel tradurla in pratica, ma anzi è l'unico fondamento stabile di una corretta
fiducia in essa; poiché, conoscendo tutto ciò che può, almeno nella misura del prevedibile,
venire detto contro di noi, e avendo preso una posizione rispetto a tutti i nostri oppositori
– sapendo di aver cercato le obiezioni e le difficoltà invece di evitarle, e di aver preso in
esame ogni punto di vista – abbiamo il diritto di considerare il nostro giudizio migliore di
quello di qualsiasi persona, o gruppo di persone, che non abbia seguito una procedura
analoga. Non è eccessivo richiedere che quell'eterogenea massa di pochi saggi e molti
stupidi chiamata pubblico si sottoponga ai criteri che i più saggi tra gli uomini, coloro che
più hanno diritto a confidare nel proprio giudizio, ritengono necessari per giustificare tale
fiducia. La chiesa cattolica romana, la più intollerante di tutte, ammette persino alla
canonizzazione di un santo l'"avvocato del diavolo", e lo ascolta pazientemente: a quanto
pare, nemmeno il più puro tra gli uomini può essere ammesso agli onori postumi prima
che tutte le pecche che il diavolo gli può rinfacciare non siano note e pesate. Se si vietasse
di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua
verità come lo sono. Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra
salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate. Se la
sfida non viene raccolta, o viene tentata e perduta, siamo ancora molto lontani dalla
certezza, ma abbiamo fatto quanto di meglio ci consente la presente condizione della
ragione umana: non abbiamo trascurato nulla pur di offrire alla verità una possibilità di
raggiungerci; se l'invito resta aperto, possiamo sperare che, se esiste una verità migliore,
essa venga scoperta quando la mente umana sarà in grado di recepirla; e nel frattempo
possiamo avere la sicurezza di esserci avvicinati alla verità nella misura a noi possibile.
Questo è il grado di certezza raggiungibile da un essere soggetto all'errore, e questo il solo
modo di raggiungerlo. È strano che gli uomini ammettano la validità degli argomenti a
favore della libera discussione, ma obiettino se "vengono spinti alle estreme conseguenze",
senza rendersi conto che se date ragioni non valgono in un caso estremo non valgono in
alcun caso. Strano che immaginino di non presumersi infallibili quando ammettono che vi
deve essere libertà di discussione su tutte le questioni che possano essere dubbie, ma
pensano che vada vietata la discussione di un particolare principio o dottrina perché è così
certo, cioè perché sono certi che è certo. Definire certa qualsiasi proposizione quando vi è
chi ne negherebbe la certezza se ciò non gli fosse vietato significa presumere che noi, e chi
è d'accordo con noi, siamo i giudici della certezza – e giudici che ignorano gli oppositori.
Nell'epoca attuale – che è stata descritta come "priva di fede, ma terrorizzata dallo
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scetticismo" –, in cui gli uomini si sentono sicuri non tanto della verità delle loro opinioni
quanto del fatto che non saprebbero che fare senza di esse, le pretese di un'opinione a
essere protetta da attacchi pubblici si fondano non tanto sulla sua verità quanto sulla sua
importanza per la società. Si sostiene che certe convinzioni sono così utili, per non dire
indispensabili, al bene comune che i governi hanno il dovere di proteggerle quanto
qualsiasi altro interesse della società. Si afferma che in un caso di tale necessità, che fa
parte così integrante del loro dovere, qualcosa di meno dell'infallibilità può giustificare, e
persino obbligare, i governi ad agire in base alla propria opinione, confermata da quella
dell'umanità in generale. Viene inoltre spesso sostenuto, e ancora più spesso pensato, che
solo i malvagi desidererebbero minare queste salutari convinzioni; e non è sbagliato, si
pensa, coartare dei malvagi e vietare ciò che solo loro vorrebbero compiere. Questo modo
di pensare rende la giustificazione delle restrizioni imposte alla discussione non una
questione di verità delle varie dottrine ma della loro utilità, e così si illude di sfuggire alla
responsabilità di dichiararsi giudice infallibile delle opinioni. Ma chi si acquieta la
coscienza in questo modo non comprende che così facendo la presupposizione di
infallibilità viene semplicemente spostata. L'utilità di una opinione è essa stessa una
questione di opinione – altrettanto controversa, aperta al dibattito, e da discutere, che
l'opinione stessa. Vi è la stessa necessità di un infallibile giudice delle opinioni per
decidere la nocività di un'opinione che per deciderne la falsità, a meno che l'opinione
condannata riceva ogni opportunità di difendersi. E non vale obiettare che si può
consentire all'eretico dl affermare che la sua opinione è utile o innocua, pur vietandogli di
dire che è vera. La verità di un'opinione è parte della sua utilità. Se volessimo sapere se è
desiderabile o meno che una data proposizione sia creduta, potremmo rifiutarci di
vagliarne la verità? Nell'opinione, non dei malvagi, ma dei migliori, nessuna convinzione
contraria alla verità può essere realmente utile; e si può loro impedire di addurre questo
argomento quando sono accusati di negare una dottrina di cui viene asserita l'utilità, ma
che ritengono falsa? Coloro che stanno dalla parte delle opinioni comunemente accettate
non mancano mai di trarre ogni possibile vantaggio da questo argomento; non sono certo
loro a trattare la questione dell'efficacia come se fosse completamente isolabile da quella
della verità; al contrario, è soprattutto perché la loro dottrina è "la verità" che conoscerla o
credervi è ritenuto così indispensabile. Non si può discutere la questione dell'utilità ad
armi pari quando un argomento tanto essenziale può essere impiegato da una parte, ma
non dall'altra. E infatti, quando la legge o il sentimento pubblico non permettono di porre
in dubbio la verità di un'opinione, tollerano altrettanto poco la negazione della sua utilità:
al massimo consentono ad attenuarne la necessità assoluta, o la gravità della colpa di
rifiutarla. Per illustrare più chiaramente quanto sia negativo rifiutarci di prestare
attenzione a opinioni che il nostro giudizio ha condannato, sarà opportuno ancorare la
discussione a un caso concreto: e preferisco scegliere i casi a me più sfavorevoli – quelli in
cui l'argomentazione contro la libertà di opinione è considerata più valida, sia in termini di
verità sia di utilità. Siano le opinioni contestate la fede in un Dio e in una vita futura,
oppure qualsiasi dottrina morale comunemente accettata. Combattere su questo terreno dà
un grande vantaggio a un antagonista sleale, che sicuramente domanderà (e molti, senza
alcuna intenzione di slealtà, lo domanderanno tacitamente): "Sono queste le dottrine che
non ritieni sufficientemente certe da essere poste sotto la tutela della legge? Credere in un
Dio è una delle opinioni la cui certezza presuppone, a tuo avviso, l'infallibilità? " Ma mi si
deve permettere di osservare che sentirsi sicuri di una dottrina (qualunque essa sia) non è
ciò che io chiamo una presunzione di infallibilità: lo è incaricarsi di decidere la questione
per conto di altri, senza permettere loro di ascoltare le possibili opinioni contrarie. E
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denuncio e biasimo questa pretesa, tanto più se è avanzata a favore delle mie convinzioni
più solenni. Per quanto si possa essere positivamente convinti non solo della falsità ma
delle perniciose conseguenze – non solo delle perniciose conseguenze, ma (per adottare
espressioni che condanno in toto) dell'immoralità e dell'empietà – di un'opinione, tuttavia
se in base a questo giudizio individuale, anche se appoggiato dal giudizio di concittadini e
contemporanei, si impedisce che essa venga difesa, si presuppone la propria infallibilità. E
questo assunto non è meno criticabile o pericoloso perché l'opinione è definita immorale o
empia, anzi questo è il caso in cui esso è più fatale. Sono esattamente queste le occasioni in
cui una generazione commette quegli spaventosi errori che lasciano attoniti e inorriditi i
posteri: qui troviamo i casi storici memorabili di impiego del braccio armato della legge
per sterminare gli uomini migliori e le più nobili dottrine; con disgraziato successo, per
quanto riguarda gli uomini, anche se alcune dottrine sono sopravvissute per essere
invocate (come per beffa) a difesa di analoga condotta nei confronti di chi dissente da esse,
o dalla loro interpretazione comunemente accettata. All'umanità non sarà mai troppo
spesso ricordato un uomo di nome Socrate, e il suo memorabile scontro con le autorità
legali e l'opinione pubblica del suo tempo. Nato in epoca e in un paese ricchi di grandezza
individuale, quest'uomo ci è stato tramandato come il più virtuoso del suo tempo da chi
meglio conosceva entrambi; mentre noi lo conosciamo come capo e prototipo di tutti i
successivi maestri di virtù, fonte ugualmente dell'alta ispirazione di Platone e del
giudizioso utilitarismo di Aristotele, "i maestri di color che sanno", le due sorgenti della
filosofia etica e di tutte le altre. Questo maestro riconosciuto da tutti i grandi pensatori
vissuti dopo di lui – la cui fama, ancora crescente dopo più di duemila anni, quasi supera
quella complessiva di tutti gli altri nomi che rendono illustre la sua città natale – fu messo
a morte dai suoi concittadini, dopo che un tribunale lo aveva condannato per empietà e
immoralità. Empietà, poiché negava gli dei riconosciuti dallo Stato; anzi, il suo accusatore
affermò (vedi l'Apologia) che non credeva in alcun dio. Immoralità, poiché era, con le sue
dottrine e i suoi insegnamenti, un "corruttore della gioventù". Vi è ogni ragione di credere
che il tribunale lo trovò colpevole di queste imputazioni in tutta onestà, e condannò un
uomo che probabilmente, dei nati fino ad allora, più meritava la gratitudine dell'umanità,
a essere messo a morte come un criminale. Passiamo da questo al solo altro caso di iniquità
giudiziaria la cui menzione dopo la condanna di Socrate non sarebbe una caduta nella
banalità: l'evento del Calvario più di mille e ottocento anni fa. L'uomo che lasciò nella
memoria di chi fu testimone della sua vita e delle sue parole una tale impressione di
grandezza morale che i diciotto secoli successivi l'hanno venerato come la personificazione
dell'Onnipotente, perché fu mandato ignominiosamente a morte? Perché blasfemo. Gli
uomini non si limitarono a non riconoscere il loro benefattore, lo scambiarono per l'esatto
contrario di ciò che era e lo trattarono come quel prodigio di empietà che ora sono loro
stessi ritenuti, per ciò che gli fecero. I sentimenti con cui gli uomini di oggi considerano
questi due deplorevoli eventi, specialmente il secondo, li rendono estremamente ingiusti
nel giudizio sui loro infelici autori. Stando a ogni apparenza, non erano dei malvagi – non
peggiori degli uomini normali, semmai il contrario: uomini che condividevano
pienamente, forse anzi in misura eccessiva i sentimenti religiosi, morali e patriottici del
loro tempo e popolo: esattamente quel tipo di uomini che in ogni epoca, compresa la
nostra, hanno ogni probabilità di attraversare la vita circondati da stima e rispetto. Il gran
sacerdote che si strappò le vesti quando furono pronunciate le parole che, secondo tutte le
idee del suo paese, costituivano la colpa più nera, era in tutta probabilità altrettanto
sincero nel suo orrore e nella sua indignazione quanto lo è oggi, nei sentimenti morali e
religiosi professati, la generalità degli uomini rispettabili e pii; e la gran maggioranza di
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coloro che oggi sono inorriditi dalla sua condotta avrebbero agito precisamente come lui
se fossero stati degli ebrei suoi contemporanei. I cristiani ortodossi che sono tentati di
considerare peggiori di sé coloro che lapidarono i primi martiri farebbero meglio a
ricordarsi che tra i persecutori c'era san Paolo. Consideriamo un ultimo esempio, il più
impressionante di tutti se si misura la grandezza di un errore con la saggezza e la virtù di
chi vi cade. Se mai un detentore del potere ha avuto buoni motivi per ritenersi il migliore e
il più illuminato tra i suoi contemporanei, questo fu l'imperatore Marco Aurelio. Monarca
assoluto di tutto il mondo civile, mantenne per tutta la vita non solo la giustizia più
irreprensibile ma, cosa che ci si sarebbe meno aspettata dalla sua educazione stoica,
l'animo più sensibile. Le poche manchevolezze attribuitegli furono tutte dovute a eccessiva
indulgenza, mentre i suoi scritti, il più elevato prodotto etico del pensiero antico, poco o
nulla differiscono dai più caratteristici insegnamenti di Cristo. Quest'uomo, in ogni senso,
salvo che in quello dogmatico, miglior cristiano di quasi tutti i sovrani nominalmente
cristiani venuti dopo di lui, perseguitò il Cristianesimo. Vissuto in quello che allora era
l'apice del progresso umano, dotato di un intelletto aperto e privo di pregiudizi, di un
carattere che lo portò spontaneamente a incarnare nelle sue opere morali l'ideale cristiano,
Marco Aurelio tuttavia non vide che il Cristianesimo avrebbe costituito un bene e non un
male per il mondo, nei cui confronti aveva una così profonda coscienza dei propri doveri.
Sapeva che la società del suo tempo si trovava in condizioni deplorevoli: ma vedeva, o gli
pareva di vedere, che ciò che la teneva insieme e le impediva di peggiorare erano la fede
nelle divinità comunemente accettate e il loro culto. In quanto signore dell'umanità,
riteneva suo dovere non permettere che la società si disgregasse; e non vedeva come, se
fossero scomparsi i legami esistenti, se ne potessero formare altri che la ricomponessero.
La nuova religione mirava apertamente a distruggere questi legami: di conseguenza, gli
sembrava suo dovere o schiacciarla oppure adottarla. Quindi, dato che la teologia del
Cristianesimo non gli sembrava vera o di origine divina, che questa strana storia di un Dio
crocifisso gli appariva inverosimile, e dato che non poteva prevedere che un sistema che
asseriva di basarsi interamente su un fondamento per lui così completamente incredibile
fosse quel fattore di rinnovamento che, cessate le tempeste, si è in effetti dimostrato, il più
sensibile e generoso dei filosofi e dei governanti, ispirandosi a un solenne senso del
dovere, autorizzò la persecuzione dei cristiani. A mio parere questo è uno degli eventi più
tragici di tutta la storia. È amaro pensare quanto avrebbe potuto essere diversa la
Cristianità se la fede cristiana fosse stata adottata come religione dell'Impero sotto Marco
Aurelio invece che sotto Costantino. Ma sarebbe ugualmente ingiusto verso di lui e verso
la verità negare che Marco Aurelio, nel combattere, come fece, la diffusione del
Cristianesimo, poteva addurre tutte le ragioni che vengono addotte per combattere gli
insegnamenti anticristiani. Nessun cristiano crede che l'ateismo sia falso e tenda alla
disgregazione della società più fermamente di quanto Marco Aurelio non credesse le
stesse cose del Cristianesimo; lui che, tra tutti i suoi contemporanei, si sarebbe potuto
ritenere il più capace di apprezzarlo. A meno che chiunque approvi la punizione della
diffusione di opinioni non si illuda di essere migliore e più saggio di Marco Aurelio – il
più profondo conoscitore del pensiero del suo tempo, intellettualmente più elevato
rispetto ad esso, più impegnato nella ricerca della verità, e più sinceramente devoto a essa
una volta trovatala –, è meglio che eviti quella presunzione di essere, insieme alla
moltitudine, infallibile, presunzione che il grande figlio di Antonino pagò con risultati così
tragici. Consci dell'impossibilità di difendere la repressione violenta delle opinioni
antireligiose mediante argomenti che non giustifichino Marco Aurelio, i nemici della
libertà religiosa accettano talvolta, quando hanno le spalle al muro, questa conseguenza e
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affermano, con il dott. Johnson, che i persecutori del Cristianesimo avevano ragione che la
persecuzione è una prova cui la verità deve sottoporsi e che sempre supera, poiché le
sanzioni legali si rivelano, a lungo andare, impotenti di fronte alla verità anche se talvolta
hanno effetti benefici contro errori nocivi. È una forma abbastanza notevole di
argomentazione a favore dell'intolleranza religiosa, e non la si può ignorare. A una teoria
secondo cui la persecuzione della verità è giustificabile perché non può in alcun modo
nuocerle, non si può imputare di essere intenzionalmente contraria ad ammettere verità
nuove; ma non se ne può lodare la generosità nei confronti delle persone cui l'umanità ne è
debitrice. Svelare al mondo qualcosa che lo riguarda da vicino e che fino ad allora ha
ignorato, dimostrargli che ha errato in una questione essenziale di interesse temporale o
spirituale, è il maggior servizio che un uomo possa rendere ai suoi simili e in alcuni casi,
come quelli dei primi cristiani e dei riformatori, è ritenuto dagli estimatori del dott.
Johnson il dono più prezioso che l'umanità potesse ricevere. Che gli autori di questi
splendidi benefici siano stati contraccambiati col martirio e per ricompensa siano stati
trattati come i criminali più abbietti, non è, secondo questa teoria, un errore deplorevole,
una disgrazia che gli uomini dovrebbero lamentare cospargendosi il capo di cenere, ma
uno stato di cose normale e giustificabile. Stando a questa dottrina, chi propone una nuova
verità dovrebbe farlo come chi, sotto la legislazione dei Locresi, proponeva una nuova
legge: con un cappio al collo, pronto a essere serrato se l'assemblea dei cittadini, sentite le
sue ragioni, non avesse immediatamente accettato la sua proposta. Non si può pensare che
chi difende questo modo di trattare i benefattori attribuisca grande valore ai benefici; e
credo che una simile opinione sia condivisa quasi solamente dal tipo di persone che
pensano che delle nuove verità potevano essere desiderabili una volta, ma che ora ne
abbiamo abbastanza. Ma, in realtà, il detto che la verità trionfa sempre sulle persecuzioni è
una di quelle gradevoli falsità che gli uomini continuano a ripetersi finché non diventano
luoghi comuni, ma che tutta l'esperienza contraddice. La storia abbonda di casi in cui la
verità è stata costretta al silenzio dalle persecuzioni: quando non è soppressa
definitivamente, può essere rinviata di secoli. Per menzionare solo le opinioni religiose: la
Riforma esplose almeno venti volte prima di Lutero, e fu soppressa. Arnaldo da Brescia fu
soppresso. Fra Dolcino fu soppresso. Gli Albigesi furono soppressi. I Valdesi furono
soppressi. I Lollardi furono soppressi. Gli Hussiti furono soppressi. Anche dopo Lutero,
nei casi in cui si insisté nelle persecuzioni, esse ebbero successo. In Spagna, Italia, Fiandre,
Impero austriaco, il Protestantesimo fu sradicato; e molto probabilmente avrebbe fatto la
stessa fine in Inghilterra se la regina Maria fosse vissuta o la regina Elisabetta fosse morta.
Le persecuzioni sono sempre riuscite, salvo quando gli eretici erano troppo forti per poter
essere perseguitati efficacemente. Nessuna persona ragionevole può dubitare che il
Cristianesimo avrebbe potuto essere sradicato dall'Impero romano: si diffuse e divenne
predominante perché le persecuzioni furono occasionali, di breve durata, e separate da
lunghi intervalli di propaganda quasi indisturbata. È sentimentalismo inutile pensare che
la verità semplicemente in quanto tale abbia un qualche potere intrinseco, negato
all'errore, di prevalere contro le segrete e il rogo. Gli uomini non hanno più zelo per la
verità di quanto non ne abbiano spesso per l'errore, e un'adeguata applicazione di sanzioni
legali o anche soltanto sociali riuscirà in generale ad arrestare la diffusione di entrambi. Il
reale vantaggio della verità è che quando un'opinione è vera la si può soffocare una, due,
molte volte, ma nel corso del tempo vi saranno in generale persone che la riscopriranno,
finché non riapparirà in circostanze che le permetteranno di sfuggire alla persecuzione
fino a quando si sarà sufficientemente consolidata da resistere a tutti i successivi sforzi di
sopprimerla. Si dirà che oggi non mandiamo a morte chi introduce opinioni nuove: non
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siamo come i nostri padri che trucidavano i profeti; innalziamo loro perfino dei mausolei.
È vero che non giustiziamo più gli eretici; è anche vero che le sanzioni penali oltre cui il
sentimento moderno probabilmente non permetterebbe di andare, anche nei casi delle
opinioni più nocive non sarebbero sufficientemente gravi da estirparle. Ma non
illudiamoci di essere già liberi dalla macchia della persecuzione, anche solo legale. La
legge prevede ancora delle pene per le opinioni, o almeno per la loro espressione; e non ve
n'è, anche oggi, una così tale mancanza di esempi da rendere impensabile che un giorno
possano ritornare nel pieno del loro vigore. Nell'anno 1857, alla sessione estiva delle assise
della contea di Cornovaglia, un uomo la cui condotta venne dichiarata irreprensibile sotto
tutti gli aspetti ebbe la sfortuna di venire condannato a ventun mesi di carcere per aver
pronunciato, e scritto su un portone, alcune parole che offendevano il Cristianesimo . Un
mese dopo, al tribunale dell'Old Bailey, in due diverse occasioni , due uomini furono
ricusati come giurati, e uno di essi fu volgarmente insultato dal giudice e da uno degli
avvocati, perché avevano onestamente dichiarato di non avere opinioni teologiche; e a un
terzo, straniero , per la stessa ragione fu negata giustizia contro un ladro. Questa
riparazione gli venne rifiutata in virtù della dottrina legale secondo cui nessuno che non
professi di credere in un Dio (qualunque dio va bene) e in una vita futura può essere
ammesso a testimoniare in un'aula di giustizia, il che equivale a dichiarare queste persone
dei fuorilegge, esclusi dalla tutela dei tribunali, per cui non solo possono essere derubati o
assaliti impunemente se sono soli o se i presenti condividono le loro opinioni, ma
chiunque può essere derubato o assalito impunemente se la prova del crimine dipende
dalla loro testimonianza. La presunzione su cui si fonda tutto ciò è che il giuramento di
una persona che non crede in una vita futura non ha valore – presunzione che indica una
vasta ignoranza della storia da parte di chi la sostiene (poiché è storicamente vero che
moltissimi non credenti di tutti i tempi sono state persone di grande integrità e onore), e
che non sarebbe condivisa da nessuno che si renda minimamente conto di quante siano le
persone di alta reputazione, per virtù o azioni, il cui agnosticismo è ben noto, almeno a chi
gli è vicino. Inoltre, la norma è suicida e mina le sue stesse fondamenta. Con la
presunzione che gli atei devono essere dei mentitori, ammette la testimonianza di tutti gli
atei disposti a mentire, e ricusa soltanto quelli che sfidano l'ignominia e confessano
pubblicamente un'opinione detestata piuttosto che affermare il falso. Una norma del
genere, la cui assurdità rispetto allo scopo che si propone si condanna da sola, non può
essere mantenuta in vigore se non come segno di odio, residuo di una persecuzione dotata
di una specifica particolarità: per esserne fatti oggetto va chiaramente provato che non la si
merita. La norma, e la teoria da essa implicata, non sono un insulto minore per i credenti
che per i non credenti: se chi non crede in una vita futura è necessariamente un mentitore,
ne segue che i credenti non mentono – supposto che non mentano – soltanto per paura
dell'inferno. Non offenderemo autori e fautori di questa norma supponendo che la loro
concezione della virtù cristiana si modelli sulle loro coscienze. Questi sono, in effetti,
brandelli e resti di persecuzione e possono essere considerati non tanto indicazioni di
un'intenzione persecutoria, quanto esempi di quella frequentissima follia degli inglesi, che
li porta ad affermare con stupido piacere un principio malvagio quando non sono più
abbastanza malvagi da desiderarne veramente l'attuazione pratica. Ma purtroppo il
pubblico non può essere sicuro che la sospensione delle peggiori forme di persecuzione
legale, che dura da circa una generazione, continui. In quest'epoca, la tranquilla routine
quotidiana è scossa da tentativi di risuscitare mali del passato altrettanto quanto da sforzi
per introdurre nuovi benefici. Ciò che attualmente viene magnificato come risveglio della
religione è sempre, per le mentalità ristrette e ignoranti, almeno in pari misura, risveglio
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del fanatismo; e quando i sentimenti degli uomini comprendono un robusto, permanente
fermento di intolleranza, sempre presente tra le classi medie del nostro paese, poco basta
per spingerli a perseguitare attivamente coloro che non hanno mai cessato di considerare
meritevoli di giusta persecuzione . Poiché è questo – cioè le opinioni e i sentimenti che gli
uomini nutrono verso chi disconosce le convinzioni che ritengono importanti – che fa del
nostro un paese in cui non vi è libertà intellettuale. Da ormai molto tempo, l'aspetto più
negativo delle sanzioni legali è che ribadiscono il marchio d'infamia imposto dalla società.
È quest'ultimo a essere realmente efficace, tanto che l'asserzione di opinioni bollate dalla
società è in Inghilterra molto meno comune di quanto in molti altri paesi non lo sia
l'ammissione di idee per cui si rischiano sanzioni legali. Nei confronti di tutti, salvo coloro
che la condizione economica rende indipendenti dal benvolere altrui, l'opinione è in
questo campo altrettanto efficace che la legge: non vi è differenza tra imprigionare un
uomo e impedirgli di guadagnarsi da vivere. Chi non ha problemi di sopravvivenza e non
desidera favori dal potere, da associazioni o dal pubblico, professando apertamente
qualsiasi opinione ha solo da temere per la sua reputazione, e non è indispensabile essere
eroi per sopportarne una cattiva: sono persone per le quali non ci si può appellare ad
misericordiam. Ma, anche se oggi non infliggiamo a coloro che dissentono da noi tanto
male quanto solevamo, può darsi che il nostro trattamento dei dissenzienti ci danneggi
altrettanto quanto in passato. Socrate fu mandato a morire, ma la filosofia socratica
s'innalzò come il sole nel cielo e illuminò l'intero firmamento intellettuale. I primi cristiani
furono gettati ai leoni, ma la chiesa cristiana crebbe come un albero nobile e frondoso,
superando le piante meno giovani e vigorose, e soffocandole nella sua ombra. La nostra
intolleranza limitata alla sfera sociale non uccide nessuno e non sradica opinioni, ma
spinge gli uomini a celarle o a evitare di impegnarsi attivamente a diffonderle. Da noi, le
opinioni eretiche non guadagnano né perdono percettibilmente terreno in un decennio o
in una generazione: non divampano mai dappertutto, ma continuano a covare nelle
ristrette cerchie di pensatori e studiosi da cui traggono origine senza mai illuminare gli
affari umani della loro luce, vera o ingannevole che sia. Viene così mantenuto uno stato di
cose secondo alcuni molto soddisfacente perché, senza incidenti spiacevoli come multe o
arresti, lascia apparentemente indisturbate tutte le opinioni predominanti, e nel contempo
non vieta assolutamente l'esercizio della ragione ai dissenzienti malati di pensiero. Un
comodo piano per garantire la pace del mondo intellettuale, e mantenervi più o meno la
solita routine. Ma il prezzo di questa sorta di pacificazione è il completo sacrificio del
coraggio morale e intellettuale. Una situazione in cui una vasta parte delle intelligenze più
attive e vivaci ritiene consigliabile tenere per sé i principi generali e i fondamenti delle
proprie convinzioni e, quando si rivolge al pubblico, cerca quanto più può di comunicare
le conclusioni derivate da premesse cui ha tra sé rinunciato, non può produrre le
personalità coraggiose e aperte, gli intelletti coerenti e logici che una volta erano
l'ornamento del pensiero umano. Il tipo di uomini che si possono trovare sotto questa
superficie sono o semplici conformisti che si adeguano ai luoghi comuni, oppure
opportunisti della verità, le cui argomentazioni su ogni questione importante sono quelle
che giudicano più adatte al loro pubblico, non quelle che li hanno convinti. Coloro che
evitano questa alternativa lo fanno restringendo i propri pensieri e interessi ad argomenti
che possono essere discussi senza avventurarsi nel campo dei principi, cioè a piccole
questioni pratiche che si risolverebbero da sole se soltanto le menti degli uomini
riacquistassero vigore e ampiezza di vedute, e che non saranno mai effettivamente risolte
finché si persisterà a sfuggire a ciò che rinvigorisce e amplia il pensiero – la libera e audace
riflessione sugli argomenti più elevati. Chi pensa che questo silenzio degli eretici non sia
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un male dovrebbe innanzitutto considerare che a causa di esso non vi è mai discussione
equanime e approfondita delle loro opinioni; e che gli eretici che non sarebbero in grado di
reggerla sono sì impossibilitati a moltiplicarsi, ma non scompaiono. Ma non sono gli
intelletti ereticali i più danneggiati dal bando imposto a ogni indagine che non termini con
le conclusioni ortodosse: il danno maggiore è per coloro che eretici non sono, il cui intero
sviluppo mentale è bloccato, e la ragione intimorita, dalla paura dell'eresia. Chi può
calcolare quanto perde il mondo con la moltitudine di intelletti promettenti ma uniti a
caratteri deboli che non osano sviluppare alcuna linea di pensiero audace, vigorosa,
indipendente, per timore di ritrovarsi con qualcosa che potrebbe venire considerato
irreligioso o immorale? Tra essi si trovano talvolta uomini di profonda coscienza e di
sottile e raffinato intelletto, che passano la vita in ragionamenti sofistici con un'intelligenza
che non possono far tacere ed esauriscono il loro ingegno nel tentativo di riconciliare gli
impulsi della coscienza e della ragione con l'ortodossia, talvolta non riuscendovi fino alla
fine. Nessuno può essere un grande pensatore se non riconosce che, in quanto uomo di
pensiero, suo primo dovere è seguire il proprio intelletto indipendentemente dalle
conclusioni cui esso conduca. La verità trae maggior vantaggio dagli errori di chi, con
l'opportuna ricerca e preparazione, riflette da solo, che dalle opinioni vere di coloro che le
hanno solo perché non si consentono di pensare. Non che la libertà di pensiero sia
necessaria solamente, o soprattutto, al fine di formare grandi pensatori: anzi, è altrettanto
e ancor più indispensabile per permettere agli uomini normali di raggiungere il grado di
sviluppo intellettuale di cui sono capaci. Vi sono stati, e vi potranno ancora essere, grandi
pensatori isolati in un'atmosfera generale di schiavitù mentale; ma in essa non è mai
esistito, né esisterà mai, un popolo intellettualmente attivo. Quando un popolo lo è
temporaneamente stato, l'ha dovuto a una momentanea sospensione dell'orrore per la
speculazione eterodossa. Dove per tacita convenzione i principi non vanno posti in dubbio
e il dibattito sui massimi problemi dell'umanità è considerato chiuso, non possiamo
sperare di trovare quel livello generalmente alto di attività mentale che ha reso così
notevoli alcuni periodi storici. Quando la discussione ha evitato gli argomenti
sufficientemente vasti e importanti da suscitare entusiasmi, l'intelletto di un popolo non è
mai stato stimolato in profondità, né è stato dato l'impulso che eleva anche le persone
intellettualmente mediocri a partecipare in qualche misura della dignità di esseri pensanti.
Un esempio di questo tipo è stata l'Europa nell'epoca immediatamente successiva alla
Riforma; un altro, anche se limitato al Continente e alla classe colta il movimento
speculativo della seconda metà del diciottesimo secolo; un terzo, di ancor più breve
durata, il fermento intellettuale della Germania al tempo di Goethe e Fichte. Questi periodi
sono stati molto diversi per il tipo di opinioni da essi sviluppate, ma simili perché durante
tutte e tre fu spezzato il giogo dell'autorità. In ciascuno di essi un vecchio dispotismo
mentale era stato abbattuto, e uno nuovo non ne aveva ancora preso il posto. L'impulso
dato in questi tre periodi ha fatto dell'Europa quella che è oggi: ciascun singolo progresso
del pensiero umano o delle istituzioni può essere chiaramente ricondotto a uno di essi. Da
qualche tempo tutto sembra indicare che i tre impulsi sono ormai quasi esauriti; e non
possiamo attenderci un nuovo inizio se non riasseriamo la nostra libertà intellettuale.
Passiamo ora al secondo aspetto della nostra argomentazione, e, scartando la supposizione
che alcune opinioni comunemente accettate possano essere false, ammettiamo che siano
vere ed esaminiamo quale sia il valore dei modi secondo cui verranno probabilmente
percepite ed espresse nel caso che non se ne dibatta liberamente e apertamente la verità.
Per quanto chi è fermamente convinto di un'opinione ammetta a malincuore la possibilità
che sia falsa, dovrebbe essere stimolato dalla considerazione che, per vera che essa sia, se
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non la si discute a fondo, spesso e senza timore, finirà per essere creduta un freddo
dogma, non una verità attuale. Vi sono uomini (fortunatamente, non tanti quanto una
volta) che ritengono sufficiente che una persona approvi incondizionatamente ciò che essi
giudicano vero, anche se ignora completamente gli elementi su cui la loro opinione si
fonda e non è in grado di difenderla passabilmente dall'obiezione più superficiale. Se
costoro riescono a far imporre il loro credo dall'autorità, pensano naturalmente che
permettere di porlo in dubbio non sia fonte di alcun vantaggio, ma anzi di qualche danno.
Quando prevalgono, rendono quasi impossibile respingere l'opinione comunemente
accettata sulla base di accurate considerazioni, anche se la si può ancora rifiutare
sconsideratamente o per ignoranza: infatti raramente si può sopprimere completamente la
discussione, e al suo primo insorgere le convinzioni prive di solidi fondamenti tendono a
crollare di fronte alla minima parvenza di argomento. Tralasciamo tuttavia questa
possibilità e supponiamo che un'opinione sia vera, ma venga pensata come se fosse un
pregiudizio, una credenza indipendente da argomento e ad essi refrattaria: non è questo il
modo in cui un essere razionale dovrebbe possedere la verità; questo non è conoscere la
verità. In queste condizioni, la verità non è altro che un'ennesima superstizione, associata a
parole che enunciano una verità. Se l'intelletto e il giudizio degli uomini vanno coltivati –
necessità che almeno i protestanti non negano –, le questioni migliori per esercitarli sono
quelle che riguardano l'individuo tanto da vicino da far ritenere necessario che se ne formi
un'opinione. Se nell'educazione intellettuale vi è un fattore predominante, è sicuramente
l'esame dei fondamenti delle proprie opinioni. Qualsiasi convinzione si abbia in campi in
cui è essenziale avere una opinione corretta, si deve essere in grado di difenderla almeno
contro le obiezioni più comuni. Qualcuno potrebbe tuttavia affermare: "Insegniamo agli
uomini i fondamenti delle loro opinioni; ciò non significa che le debbano soltanto ripetere
meccanicamente perché non vengono mai contraddette. Chi studia la geometria non si
limita a imparare a memoria i teoremi, ma comprende e studia anche le dimostrazioni; e
sarebbe assurdo affermare che egli rimane nell'ignoranza dei fondamenti delle verità
geometriche perché nessuno le nega o cerca di confutarle". Senza dubbio: e un
insegnamento del genere è sufficiente in un campo come la matematica, in cui non vi è
alcun argomento dalla parte dell'errore La peculiarità dell'evidenza delle verità
matematiche sta nel fatto che tutti gli argomenti sono da un'unica parte: non esistono
obiezioni, né risposte ad esse. Ma in ogni campo in cui è possibile una differenza di
opinioni, la verità dipende dall'individuazione dell'equilibrio tra due gruppi di ragioni
contrastanti. Anche nella filosofia naturale è sempre possibile fornire un'altra spiegazione
degli stessi fatti: una teoria geocentrica invece di quella eliocentrica, il flogisto invece
dell'ossigeno, e bisogna dimostrare perché l'altra teoria non può essere quella vera; e fino a
quando non sia data la dimostrazione e non sappiamo come svolgerla, non comprendiamo
i fondamenti della nostra opinione. Ma se ci volgiamo a campi infinitamente più
complessi, la morale, la religione, la politica, i rapporti sociali, e gli affari della vita, tre
quarti degli argomenti a favore di qualsiasi opinione controversa consistono nel demolire
le apparenze che ne favoriscono un'altra. Il secondo oratore dell'antichità affermava di
studiare sempre gli argomenti dell'avversario con uguale, se non maggiore, attenzione dei
propri. Il metodo che procurò a Cicerone il successo forense va imitato da chiunque studi
qualsiasi campo per giungere alla verità. Chi conosce solo gli argomenti a proprio favore
conosce poco: può avere delle buone ragioni, che magari nessuno è mai stato capace di
confutare; ma se è altrettanto incapace di confutare le ragioni avversarie, se neppure le
conosce, non ha basi per scegliere tra le due opinioni. In questo caso il suo atteggiamento
razionale dovrebbe essere la sospensione del giudizio; se ciò non lo soddisfa si farà
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guidare dall'autorità, oppure adotterà, come fa in generale il mondo, la posizione per cui
propende. Né gli è sufficiente ascoltare le tesi degli avversari dalla bocca dei suoi maestri,
espresse con le parole di questi ultimi e accompagnate dalle loro confutazioni. Non è
questo il modo di rendere giustizia agli argomenti opposti o di venire realmente a contatto
con essi. Deve poterli udire da persone che ne sono realmente convinte, che li difendono
accanitamente e al massimo delle loro possibilità. Deve conoscerli nella loro formulazione
più plausibile e persuasiva, e sentire l'intero peso della difficoltà che l'opinione vera deve
affrontare e demolire; altrimenti non si impadronirà mai realmente di quella parte della
verità che viene incontro all'obiezione e la elimina. Il novantanove per cento dei cosiddetti
uomini di cultura sono in questa condizione, anche quelli in grado di sostenere
elegantemente le proprie opinioni. La loro conclusione può essere vera ma, per quel che ne
sanno, potrebbe anche essere falsa: non si sono mai messi al posto di chi pensa
diversamente da loro, considerandone le possibili argomentazioni; e di conseguenza non
conoscono, in nessuna accezione corretta del termine, la dottrina che essi stessi professano.
Non ne conoscono le parti che spiegano e giustificano il resto – le considerazioni che
mostrano come due fatti apparentemente contraddittori possano essere conciliabili, o
come tra due ragioni apparentemente di uguale forza vada scelta l'una piuttosto che
l'altra. È loro estranea tutta quella parte della verità che fa pendere la bilancia a suo favore
e determina il giudizio di chi è perfettamente informato; essa è realmente nota soltanto a
chi ha dedicato un'attenzione uguale e imparziale alle opposte ragioni, cercando di vederle
il più chiaramente possibile. Questa disciplina è così essenziale a una reale comprensione
delle questioni morali e umane che se una verità fondamentale non trova oppositori è
indispensabile inventarli e munirli dei più validi argomenti che il più astuto avvocato del
diavolo riesce a inventare. Supponiamo che, per controbattere la forza di queste
considerazioni, un nemico della libertà di discussione affermi che non è necessario che
tutti gli uomini conoscano e comprendano tutto ciò che filosofi e teologi possono asserire
pro o contro le reciproche opinioni. Che gli uomini normali non hanno bisogno di essere in
grado di individuare tutte le inesattezze e gli errori di un ingegnoso oppositore; basta che
ci sia sempre qualcuno capace di controbattervi in modo da confutare tutto ciò che
potrebbe trarre in inganno gli incolti. Che dei semplici, cui siano stati insegnati i
fondamenti più evidenti delle verità che gli sono state inculcate, possono per il resto
affidarsi all'autorità e, consci di non possedere né le conoscenze né l'ingegno necessari a
risolvere ogni possibile difficoltà, star certi che tutte quelle già affiorate sono state, o
possono essere, risolte da chi è specialmente addestrato a questo compito. Pur accordando
a questo ragionamento tutto il valore che può avere per coloro cui non importa che si
creda in una verità senza comprenderla perfettamente, l'argomento a favore della libera
discussione non ne esce in alcun modo indebolito. Infatti persino questa dottrina ammette
che gli uomini dovrebbero avere la sicurezza razionale che a tutte le obiezioni si è risposto
in modo soddisfacente; e come si risponde se la risposta adatta non viene formulata?
Oppure, come si può sapere che è soddisfacente se gli obiettori non hanno l'opportunità di
dimostrare che non lo è? Se non il pubblico, almeno i filosofi e i teologi deputati a risolvere
le difficoltà devono familiarizzarsi con esse, nelle loro forme più complesse; il che non è
possibile se non vengono enunciate liberamente e nella luce ad esse più vantaggiosa. La
chiesa cattolica ha un suo modo di risolvere questo imbarazzante problema: compie una
netta distinzione tra coloro cui è permesso di adottare le sue dottrine per convinzione e chi
deve accettarle sulla fiducia. In effetti, a nessuno dei due gruppi è consentito scegliere che
cosa accettare: ma il clero, o almeno quella parte di esso che è completamente fidata, può
legittimamente e meritoriamente studiare gli argomenti degli oppositori per poterli
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controbattere, e quindi può leggere libri eretici; invece i laici non lo possono salvo che in
seguito a una speciale dispensa, difficile da ottenere. Questa disciplina riconosce che la
conoscenza degli argomenti nemici è utile ai suoi maestri, ma trova modo, coerentemente,
di negarla al resto del mondo, permettendo così all'élite una cultura, anche se non una
libertà intellettuale, superiore a quella che permette alle masse. Con questo mezzo la
chiesa riesce a conseguire il genere di superiorità intellettuale richiesto dai suoi scopi;
poiché, anche se la cultura senza libertà non ha mai formato una mente liberale e di ampie
vedute, può formare un astuto avvocato del nisi prius. Ma nei paesi che professano il
protestantesimo questa soluzione è impossibile, poiché i protestanti affermano, almeno in
teoria, che ciascuno deve avere la responsabilità di scegliersi la religione, e non può
scaricarla sui suoi maestri. Inoltre, al giorno d'oggi è praticamente impossibile mantenere
la popolazione incolta all'oscuro di opere che le persone colte leggono. Perché i maestri
dell'umanità possano conoscere tutto ciò che dovrebbero, vi deve essere libertà
incondizionata di scrittura e pubblicazione. Tuttavia, se la nociva soppressione della
libertà di parola, in una situazione in cui le opinioni comunemente accettate sono vere, si
limitasse a lasciare gli uomini nell'ignoranza dei fondamenti di queste opinioni, la si
potrebbe considerare un male intellettuale ma non morale, che non diminuisce la validità
delle opinioni in quanto elementi che influiscono sul carattere. Nella realtà però la
mancanza di discussione non solo fa dimenticare i fondamenti di un'opinione, ma il suo
stesso significato. Le parole che la esprimono non suggeriscono più idee, o suggeriscono
solo una piccola parte di quelle che comunicavano originariamente. Al posto di un
concetto vigoroso e di una convinzione viva, restano soltanto poche frasi meccanicamente
apprese; oppure, se resta qualcosa del significato, è solo l'involucro, e la profonda essenza
si è persa. Non si studierà e mediterà mai a sufficienza il grande capitolo della storia
umana che questo fenomeno costituisce. Lo illustra l'esperienza di quasi tutte le dottrine
morali e le religioni. Per i loro fondatori, e i loro diretti discepoli, sono tutte piene di
significato e vitalità. Il loro significato continua ad essere sentito in tutta la sua forza e anzi
diventa forse ancor più evidente finché dura la lotta per il predominio tra la nuova
dottrina o fede e le altre. Infine, o essa ha il sopravvento e diventa l'opinione generale,
oppure il suo progresso si arresta: mantiene il terreno che si è conquistata, ma smette di
espandersi. Quando uno dei due esiti è ormai chiaro, le controversie si acquietano, e
gradualmente si spengono. La dottrina ha conquistato la sua posizione, se non di opinione
generalmente ammessa, di setta o settore di opinione consentito; i suoi seguaci l'hanno in
generale ereditata e non adottata; e le conversioni da una dottrina all'altra, essendo ormai
divenute l'eccezione, non hanno più molto posto tra le preoccupazioni dei maestri. Questi
ultimi, invece di essere come una volta costantemente all'erta per difendersi dal mondo o
per portarlo dalla propria parte, si sono quietati e ammansiti e non ascoltano, se appena
possono evitarlo, gli argomenti contro la loro fede, né molestano i dissenzienti (se ve ne
sono) con argomenti a suo favore. Generalmente è a questo momento che si può far risalire
il declino della forza vitale di una dottrina. Spesso sentiamo i maestri di ogni fede
lamentarsi di quanto sia difficile mantenere viva nei fedeli la percezione della verità che a
parole professano, in modo che possa penetrare i loro sentimenti e determinare realmente
il loro comportamento. Questa difficoltà non viene mai avvertita quando la fede sta
lottando per sopravvivere; in quel momento anche i più deboli comprendono e sentono
ciò per cui combattono, e la sua differenza dalle altre dottrine; e in questa fase
dell'esistenza di ogni fede si possono trovare molti adepti che ne hanno compreso i
principi fondamentali in ogni aspetto del pensiero, ne hanno pesato e considerato tutte le
conseguenze importanti, e hanno sperimentato in se stessi l'intero effetto che la loro fede
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dovrebbe provocare in una mente che ne sia completamente imbevuta. Ma quando la fede
è diventata ereditaria, ricevuta passivamente e non attivamente – quando il pensiero non è
più costretto come agli inizi a esercitare le sue forze vitali sulle questioni con cui la sua
fede lo confronta – vi è una tendenza progressiva a dimenticarne tutto salvo le formule, o
a tributarle un consenso fiacco e torpido – come se la sua accettazione sulla fiducia
dispensasse dalla necessità di averne piena coscienza o di sperimentarla nell'esperienza
personale – finché la fede non ha quasi più rapporto con la vita interiore dell'individuo.
Allora compaiono i casi, ormai così frequenti da costituire quasi la maggioranza, in cui la
fede resta per così dire esterna alla mente, ma la incrosta e la calcifica contro tutte le altre
influenze che si rivolgono agli aspetti più elevati della nostra natura; e manifesta il suo
potere sbarrando l'accesso a tutto ciò che è nuovo e vivo, ma non facendo nulla per la
mente e il cuore, salvo che starvi da sentinella per tenerli vuoti. Il modo in cui dottrine
intrinsecamente destinate a esercitare il più profondo influsso sulla mente umana vi
sopravvivano come morte credenze, senza mai esprimersi nei sentimenti,
nell'immaginazione o nel pensiero, è esemplificato dall'atteggiamento della maggioranza
dei credenti verso le dottrine del Cristianesimo. Per Cristianesimo intendo qui ciò che è
definito tale da tutte le chiese e sette – le massime e i precetti contenuti nel Nuovo
Testamento, considerati sacri e accettati come legge da tutti coloro che si dichiarano
cristiani. E tuttavia si esagera di poco o nulla se si afferma che non un cristiano su mille
determina o giudica la propria condotta personale in base a queste leggi: il criterio cui si
riferisce è la consuetudine del suo paese, della sua classe o della sua confessione religiosa.
Ha quindi, da un lato, una collezione di massime etiche che crede gli siano state affidate
da una saggezza infallibile perché vi ispiri la propria condotta; dall'altro, un insieme di
giudizi e pratiche quotidiane che concordano in una certa misura con alcune massime, un
po' meno con altre, sono il contrario di altre ancora, e complessivamente costituiscono un
compromesso tra la fede cristiana e gli interessi e le suggestioni della vita di questo
mondo. Al primo criterio offre il suo omaggio; al secondo, la sua reale sottomissione. Tutti
i cristiani credono che beati sono i poveri e gli umili, e coloro che il mondo perseguita; che
è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel
regno dei cieli; che non devono giudicare, se non vogliono essere giudicati; che non
dovrebbero mai giurare; che dovrebbero amare il loro prossimo come se stessi; che se
qualcuno gli prende il mantello, gli devono dare anche la veste; che non dovrebbero
pensare al domani; che se fossero perfetti dovrebbero vendere tutto quello che hanno e
darlo ai poveri. Non sono insinceri quando affermano di credere in tutto ciò: ci credono,
come si crede in ciò che si è sempre sentito lodare e mai discutere. Ma se il credere è inteso
come convinzione viva e presente che determina la condotta umana, credono in queste
dottrine solo nella misura in cui abitualmente agiscono in base a esse. Nella loro integrità,
le dottrine servono a essere scagliate contro gli avversari; inoltre è convenuto che le si può
usare (quando è possibile) a giustificazione di tutto ciò che si ritenga giusto fare. Ma
chiunque ricordasse ai cristiani che le loro massime richiedono un'infinità di cose cui non
hanno mai neppure pensato, otterrebbe solo di finire nel novero di quei personaggi
alquanto impopolari che pretendono di essere migliori degli altri. Le dottrine non hanno
presa sui credenti comuni – non hanno potere sulle loro menti. I fedeli nutrono un rispetto
consuetudinario per la loro formulazione, ma non un sentimento che dalle parole si
estenda alle cose che significano e costringa la mente a prendere coscienza di queste, e a
modificarle in modo che corrispondano alla formula. Quando è questione di condotta, i
cristiani cercano il signor A e il signor B per farsi dire fino a che punto devono obbedire a
Cristo. Ora, possiamo star certi che al tempo dei primi cristiani la situazione era ben
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diversa. Fosse stata come oggi, il Cristianesimo non si sarebbe trasformato da un'oscura
setta dei disprezzati ebrei nella religione dell'Impero romano. Quando sentivano i loro
nemici dire "Guardate come si amano questi cristiani" (osservazione alquanto improbabile
al giorno d'oggi), sicuramente i cristiani avevano una percezione molto più viva del
significato della loro fede di quanto non abbiano più avuto in seguito. Ed è probabilmente
questo il motivo principale per cui oggi il Cristianesimo fa così fatica a estendere il proprio
dominio, e dopo diciotto secoli è ancora diffuso quasi esclusivamente tra gli europei e i
loro discendenti. Anche nel caso dei credenti di stretta osservanza, che prendono molto
seriamente le loro dottrine e conferiscono a molte di esse maggiore significato di quanto
venga loro generalmente attribuito, accade comunemente che l'aspetto in loro
generalmente più attivo sia stato elaborato da Calvino, o Knox, o da qualcun altro molto
più vicino al loro carattere. Nelle loro menti i detti di Cristo coesistono passivamente,
senza quasi altri effetti che quelli causati dal semplice ascolto di parole così miti e soavi.
Indubbiamente sono molte le ragioni per cui le dottrine che caratterizzano una setta
mantengono la loro vitalità più di quelle comuni a tutte le sette riconosciute, e per cui i
maestri della religione fanno maggiori sforzi per tenerne vivo il significato; ma una è
certamente che le dottrine caratteristiche sono le più discusse, quelle che più spesso vanno
difese da esperti oppositori. Sia i maestri che gli allievi si addormentano al loro posto di
guardia non appena il nemico è scomparso. Altrettanto vale, in termini generali, per tutte
le dottrine tradizionali – sia quelle di saggezza ed etica pratiche che quelle più
propriamente morali o religiose. Tutte le lingue e le letterature abbondano di osservazioni
generali sulla vita, cosa è e come comportarvisi – osservazioni che tutti conoscono, che
tutti ripetono o odono con rassegnazione, che sono accolte come truismi, e di cui tuttavia
quasi tutti apprendono veramente il significato la prima volta che un'esperienza,
generalmente dolorosa, le fa diventare una loro realtà. Quanto spesso, sotto la frustata di
una disgrazia imprevista o di una delusione, ci ritorna in mente un detto o un proverbio
che abbiamo sentito per tutta la vita, il cui significato, se solo l'avessimo capito come lo
capiamo ora, ci avrebbe risparmiato questo male. Anche di questo esistono ragioni che non
si limitano alla mancata discussione: di molte verità non si può comprendere pienamente
il significato senza esperienza personale. Ma anche il loro significato sarebbe stato molto
meglio compreso e sarebbe rimasto molto più profondamente impresso se si fosse stati
abituati a sentirlo discutere, in positivo e in negativo, da persone che lo comprendevano.
La fatale tendenza degli uomini a smettere di pensare a una questione quando non è più
dubbia è causa di metà dei loro errori. Un autore contemporaneo ha giustamente parlato
del "profondo sonno dogmatico indotto da un'opinione definitiva". Ma come! (ci si può
chiedere), la mancanza di unanimità è una condizione indispensabile per il vero sapere? È
necessario che una parte dell'umanità persista nell'errore perché qualcuno si possa rendere
conto della verità? Una convinzione cessa di essere reale e vitale non appena è
generalmente accettata – e una proposizione non è mai compresa e sentita fino in fondo se
non resta in qualche modo in dubbio? Non appena gli uomini l'abbiano unanimemente
accettata, una verità gli muore dentro? Fino ad ora si è pensato che lo scopo più alto, e il
miglior effetto, di un'intelligenza affinata fosse unire sempre più l'umanità nel
riconoscimento di verità fondamentali; e l'intelligenza esiste solo finché non ha raggiunto
il suo scopo? I frutti della vittoria si dileguano proprio perché è completa? Non affermo
nulla del genere. Col progresso umano, il numero delle dottrine che non saranno più
oggetto di dispute o dubbi aumenterà costantemente; e si può quasi misurare il benessere
degli uomini col numero e l'importanza delle verità che sono ormai incontestate. Lo
spegnersi, in una questione dopo l'altra, del dibattito serio è un accidente necessario nel
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consolidamento dell'opinione – tanto salutare nel caso di opinioni vere quanto è pericoloso
e nocivo se le opinioni sono errate. Ma anche se questo progressivo restringersi dei limiti
della diversità di opinione è necessario in entrambi i sensi del termine – è
contemporaneamente inevitabile e indispensabile –, non siamo perciò obbligati a
concludere che debba avere solo conseguenze positive. La perdita di un aiuto così
importante all'intelligente e viva comprensione di una verità, come è quello dato dalla
necessità di chiarirla o difenderla nel contraddittorio, è una conseguenza negativa non
trascurabile all'universale riconoscimento del vero, anche se non ne supera i benefici.
Quando questo aiuto viene a mancare, confesso che vorrei che i maestri dell'umanità ne
cercassero un surrogato – uno strumento che renda chi studia una data questione
altrettanto cosciente delle sue difficoltà che se gli venissero contestate da un oppositore
teso a convertirlo. Ma, invece di trovarne di nuovi, si perdono gli strumenti del passato. La
dialettica socratica, così magnificamente illustrata nei dialoghi di Platone, era uno
strumento analogo. Si trattava sostanzialmente di una discussione negativa delle grandi
questioni della filosofia e della vita, diretta con consumata abilità al fine di convincere
chiunque si limitasse a far suoi i luoghi comuni dell'opinione corrente che non
comprendeva la questione – che non aveva ancora attribuito un significato preciso alle
dottrine professate –, affinché, resosi conto della sua ignoranza, si incamminasse verso una
convinzione solida, fondata sulla chiara comprensione del significato delle dottrine e
dell'evidenza a loro favore. Le discussioni scolastiche medioevali avevano uno scopo
abbastanza simile: far sl che l'allievo comprendesse la propria opinione e (per necessaria
correlazione) l'opposta, e fosse in grado di affermare i fondamenti dell'una e confutare
quelli dell'altra. Queste sfide oratorie avevano certo l'irrimediabile difetto che le premesse
cui si rifacevano derivavano dall'autorità e non dalla ragione; e, come disciplina mentale,
erano sotto ogni aspetto inferiori alla potente dialettica che aveva formato gli intelletti dei
socratici viri; ma il pensiero moderno deve a entrambi molto più di quanto non voglia
generalmente ammettere, e l'educazione moderna non comprende alcun strumento che
minimamente svolga la funzione di questi due. Chi deriva tutta la sua istruzione da
insegnanti e libri, anche se sfugge all'incombente tentazione del nozionismo, non ha alcun
obbligo di considerare entrambi gli aspetti di una questione, che quindi raramente sono
conosciuti, persino dai filosofi; e la parte più debole di ogni argomentazione a difesa di
un'opinione è la replica agli antagonisti. Attualmente è di moda screditare la logica
negativa – quella che individua debolezze teoriche o errori pratici senza affermare verità
positive. Questa critica negativa sarebbe certo molto insoddisfacente come punto d'arrivo,
ma come mezzo per conseguire conoscenze positive o convinzioni degne di essere
chiamate tali non sarà mai abbastanza apprezzata; e fino a quando non se ne riprenderà
l'insegnamento e l'esercizio sistematico vi saranno pochi grandi pensatori e un basso
livello intellettuale complessivo in tutti i campi che non siano la speculazione matematica
e fisica. In ogni altro settore, non vi è nessuno le cui opinioni meritino di essere definite
sapere, a meno che altri non gli abbiano imposto, o non abbia seguito spontaneamente, lo
stesso percorso intellettuale che un'attiva controversia con degli oppositori gli avrebbe
richiesto di compiere. È quindi molto peggio che assurdo rifiutare, quando ci si offre
spontaneamente, ciò che quando manca è così indispensabile, eppure così difficile, creare.
Se vi sono persone che negano un'opinione generalmente accettata o che la negherebbero
se la legge o il pubblico glielo permettessero, ringraziamole, ascoltiamole a mente aperta e
rallegriamoci che qualcuno faccia per nostro conto ciò che altrimenti dovremmo fare da
soli, e con fatica molto maggiore, se abbiamo un minimo di rispetto per la certezza o la
vitalità delle nostre convinzioni. Resta ancora da menzionare una delle cause principali
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che rendono così vantaggiosa la diversità di opinioni, e continueranno a farlo finché gli
uomini saranno giunti a uno stadio di progresso intellettuale da cui ora sembrano
incalcolabilmente lontani. Fino a questo punto abbiamo considerato soltanto due
possibilità: che l'opinione comunemente accettata possa essere falsa, e qualcun'altra, di
conseguenza, vera; oppure che l'opinione comune sia vera, ma il contrasto con l'errore sia
essenziale per una chiara comprensione e una profonda percezione della sua verità. Ma vi
è un terzo caso, più frequente dei primi due: quando le dottrine contrastanti, invece di
essere una vera e l'altra falsa, contengono entrambe una parte di verità, e l'opinione
dissidente è necessaria per integrare la dottrina più generalmente accettata con ciò che le
manca. In questioni che esulano dal dominio dei sensi, l'opinione popolare è spesso vera,
ma di rado o mai costituisce l'intera verità. Ne è una parte, grande o piccola a seconda dei
casi, ma esagerata, distorta, e isolata dalle altre verità che dovrebbero accompagnarla e
precisarla. D'altro canto, le opinioni eretiche sono generalmente alcune di queste verità
soppresse e trascurate che spezzano i vincoli che le imprigionavano e, o cercano di
riconciliarsi con la verità contenuta nell'opinione comune, o affrontano quest'ultima come
un nemico, proclamando in modo altrettanto esclusivo di essere l'intera verità. Fino a oggi
è stato più frequente il secondo caso, poiché tra gli uomini l'unilateralità è sempre stata la
norma, la multilateralità, l'eccezione; quindi anche nelle rivoluzioni dell'opinione una
parte della verità generalmente tramonta al sorgere di un'altra. Persino il progresso, che
dovrebbe assommarle, nella maggior parte dei casi si limita a sostituire una verità parziale
e incompleta a un'altra; e il miglioramento consiste soprattutto nel fatto che il nuovo
frammento di verità è più richiesto, più adatto alle necessità dell'epoca di quello che
sostituisce. Dato questo carattere di parzialità dell'opinione predominante anche quando i
suoi fondamenti sono veri, ogni opinione che comprenda in una certa misura la parte di
verità omessa dall'opinione dominante, dovrebbe essere considerata preziosa, anche se in
essa si frammischiano confusamente verità ed errore. Nessun buon giudice delle cose
umane si indignerà perché coloro che ci costringono a prendere nota di verità che
altrimenti ci sarebbero sfuggite se ne lasciano a loro volta sfuggire alcune che per noi sono
evidenti: penserà anzi che finché la verità generalmente accettata è unilaterale, è più che in
altri casi auspicabile che anche quella impopolare abbia assertori unilaterali, come lo sono
generalmente i più energici, quelli che più riescono ad attrarre un'attenzione riluttante su
quel frammento che ai loro occhi è tutta la saggezza. Così nel XVIII secolo quasi tutte le
persone colte, e tutti gli incolti che da loro si facevano guidare, si perdevano
nell'ammirazione della cosiddetta civiltà, delle meraviglie della scienza, della letteratura e
della filosofia moderne, e sopravvalutavano di molto la differenza tra i moderni e gli
antichi, illudendosi che fosse tutta a loro favore; nel mezzo di questo compiacimento
generale, fu estremamente salutare l'esplosione dei paradossi di Rousseau, che
frantumarono la massa compatta di questa opinione unilaterale costringendone gli
elementi a ricombinarsi in una forma migliore, arricchiti da altri fattori. Non che le
opinioni prevalenti fossero nel loro complesso più lontane dalla verità di quelle di
Rousseau; al contrario le erano più vicine: contenevano più verità positive, e molto meno
errore. Ciononostante, nella dottrina di Rousseau era racchiusa – ed è stata trasportata fino
a noi dalla corrente dell'opinione – una notevole misura proprio di quelle verità che
mancavano all'opinione comune e che sono il sedimento rimasto dopo l'ondata di piena La
superiorità della vita semplice, l'effetto snervante e demoralizzante dei vincoli e delle
ipocrisie di una società artificiale, sono idee che dopo Rousseau non sono più state
completamente ignorate dalle persone colte e che col tempo produrranno il loro effetto,
anche se attualmente vanno più che mai ribadite, soprattutto nei fatti – poiché in questo
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campo le parole hanno quasi esaurito il loro potere. Anche in politica è quasi un luogo
comune che un partito dell'ordine o della stabilità e un partito del progresso o delle
riforme sono entrambi elementi necessari di una vita politica sana, fino a quando uno dei
due non avrà così ampliato la sua visione delle cose da diventare un partito ugualmente
d'ordine e di progresso, che sappia distinguere ciò che va conservato da ciò che va abolito.
Ambedue questi atteggiamenti mentali derivano la loro utilità dalle carenze dell'altro; ma
è in larga misura l'opposizione dell'altro a mantenerli entrambi nei limiti della ragione. Se
le opinioni favorevoli alla democrazia e all'aristocrazia, alla proprietà e all'uguaglianza,
alla cooperazione e alla competizione, al lusso e alla frugalità, alla socialità e
all'individualità, alla libertà e alla disciplina, e a tutte le altre opposizioni intrinseche alla
vita quotidiana, non vengono espresse con uguale libertà e fatte rispettare con uguale
talento e energia, non vi è alcuna probabilità che i due elementi ricevano un trattamento
equo: la bilancia penderà certamente da una parte o dall'altra. Nei grandi problemi pratici
della vita, la verità è una questione di conciliazione e combinazione di opposti, a tal punto
che pochissime menti sono abbastanza vaste e imparziali da riuscirne a dare una soluzione
anche solo parzialmente corretta, che quindi finisce col dipendere da un caotico processo
conflittuale tra opposte fazioni. In ognuna delle grandi questioni aperte che ho elencato, se
delle due opinioni ve n'è una che ha maggior diritto non solo a essere tollerata ma a venire
incoraggiata e favorita, è quella che in un dato momento e luogo è in minoranza.
Rappresenta allora gli interessi trascurati, quegli aspetti del benessere umano che
rischiano di ottenere meno attenzione di quanta è loro dovuta. So bene che nel nostro
paese le differenze di opinione sulla maggior parte di questi argomenti sono tollerate:
vengono addotte a dimostrare con esempi accettati e molteplici l'universalità del fatto che
allo stato presente dell'intelletto umano soltanto la varietà delle opinioni offre uguali
opportunità a tutti gli aspetti della verità. Quando si trovano persone che fanno eccezione
all'apparente unanimità del mondo su un qualsiasi argomento, anche se il mondo ha
ragione, è sempre probabile che i dissenzienti abbiano da dire a proprio favore qualcosa
che merita attenzione, e che, se tacessero, la verità perderebbe qualcosa. Si potrebbe
obiettare "Ma alcuni principi comunemente accettati, specialmente quelli che riguardano le
questioni più elevate e essenziali, sono più che delle mezze verità. Per esempio, la morale
cristiana è nel suo campo specifico la completa verità, e chiunque predichi una morale che
se ne discosti è completamente in errore". Dato che tra tutti i casi pratici questo è il più
importante, è anche il più adatto a controllare la validità della nostra asserzione generale.
Ma prima di stabilire che cosa sia o non sia la morale cristiana, sarebbe opportuno
decidere che cosa si intenda per morale cristiana. Se significa la morale del Nuovo
Testamento, mi chiedo come chiunque la conosca dalla lettura del testo possa supporre
che sia stata presentata, o intesa, come una dottrina morale completa. Il Vangelo si riferisce
sempre alla morale preesistente, e limita i suoi insegnamenti agli aspetti in cui essa andava
corretta e sostituita da un'etica più aperta e elevata, che inoltre è espressa in termini
estremamente generali, spesso impossibili da interpretare letteralmente, partecipi
dell'efficacia della poesia o dell'eloquenza più che della precisione della legislazione. Non
è stato mai possibile derivarne una dottrina etica organica senza riferirsi al Vecchio
Testamento, cioè a un sistema effettivamente molto elaborato, ma sotto molti aspetti
barbaro, e concepito soltanto per un popolo barbaro. Anche san Paolo, nemico dichiarato
di questa interpretazione giudaica della dottrina tendente a completare lo schema del
Maestro, assume una morale preesistente, cioè quella greca e romana: e il suo
insegnamento ai cristiani è in larga misura un sistema di compromesso che giunge al
punto di legittimare in apparenza la schiavitù. La morale che viene chiamata cristiana –
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ma il termine dovrebbe essere "teologica" – non è opera di Cristo o degli Apostoli, ma ha
un'origine molto posteriore, essendo stata costruita gradualmente dalla chiesa cattolica dei
primi cinque secoli; anche se moderni e protestanti non l'hanno adottata in toto, l'hanno
modificata molto meno di quanto ai si potesse aspettare. In effetti nella maggior parte dei
casi si sono accontentati di eliminare le aggiunte risalenti al Medioevo, sostituendole con
altre, variabili a seconda delle tendenze e caratteristiche delle varie sette. Sarei l'ultimo a
negare che gli uomini abbiano un grande debito verso questa morale e i suoi primi
maestri, ma non esito ad affermare che sotto molti importanti aspetti è incompleta e
unilaterale e che se idee e sentimenti da essa non sanciti non avessero contribuito alla
formazione della società e del carattere dell'Europa, gli uomini si troverebbero in una
condizione peggiore dell'attuale. La (cosiddetta) morale cristiana ha tutti i caratteri di una
reazione; è in gran parte una protesta contro il paganesimo. Il suo ideale è negativo
piuttosto che positivo; passivo piuttosto che attivo; è l'innocenza piuttosto che la nobiltà
d'animo; astenersi dal male piuttosto che perseguire energicamente il bene; nei suoi
precetti (è stato giustamente notato), il "non farai" predomina eccessivamente sul "farai".
Nel suo orrore della sensualità, ha fatto dell'ascetismo un idolo che a forza di compromessi
è diventato idolo della legalità. Indica la speranza del paradiso e la minaccia dell'inferno
come motivazioni esplicite e opportune di una vita virtuosa: cade così molto al di sotto di
quanto di meglio offriva il pensiero antico, e fa quanto è in suo potere per dare alla morale
umana un carattere essenzialmente egoista, scindendo il senso del dovere di ciascuno
dagli interessi dei suoi simili, che vanno sì consultati ma per motivi sostanzialmente
egoistici. È essenzialmente una dottrina dell'ubbidienza passiva; inculca lo spirito di
sottomissione a tutte le autorità costituite; e mentre sostiene che non bisogna in effetti
ubbidire attivamente quando ordinano ciò che la religione vieta, afferma che neppure però
si deve resistere, e ancor meno ribellarsi, qualunque torto ci facciano. E mentre nella
morale delle migliori nazioni pagane il dovere verso lo Stato ha un peso persino
sproporzionato e tale da violare la giusta libertà dell'individuo, nell'etica cristiana pura
questo grande campo di doveri riceve scarsissima attenzione o menzione. È nel Corano,
non nel Nuovo Testamento, che leggiamo la massima: "Un governante che investa di una
carica un uomo quando nei suoi domini ve n'è un altro a essa più idoneo pecca contro Dio
e contro lo Stato". Quel minimo di riconoscimento che il concetto di obbligo verso i
cittadini ha nella morale moderna deriva da fonti greche e romane, non cristiane; e
ugualmente, anche nella morale privata, i concetti di magnanimità, nobiltà d'animo,
dignità personale, persino di senso dell'onore, risalgono alla parte puramente umana della
nostra educazione, non a quella religiosa, e non si sarebbero mai potuti sviluppare da
criteri etici che riconoscono esplicitamente un unico valore, l'obbedienza. Sarei l'ultimo a
sostenere che questi difetti sono necessariamente inerenti all'etica cristiana,
indipendentemente dal modo in cui è concepita, o che i molti requisiti di una dottrina
morale completa che non possiede siano con essa inconciliabili: e ancor meno lo insinuerei
sulla base dei precetti e delle dottrine propri di Cristo. Credo che i detti di Cristo siano
esattamente ciò che, da quanto sappiamo, egli intendeva fossero; che non siano
inconciliabili con nessuno dei requisiti di una morale completa; che tutto ciò che nobilita
l'etica possa esservi ricondotto senza dover sforzarne il linguaggio più di quanto abbiano
fatto tutti coloro che hanno cercato di dedurne qualsiasi sistema di norme pratiche. Ma è
del tutto coerente credere anche che contengano, e originariamente intendevano
contenere, solo parte della verità; che molti elementi essenziali della morale più elevata
sono tra le cose di cui non si occupano, né intendevano occuparsi, i detti del fondatore del
Cristianesimo giunti fino a noi; che tali elementi sono stati completamente esclusi dal
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sistema etico costruito sulla base di questi detti dalla chiesa cristiana. Stando così le cose,
ritengo un grave errore persistere a cercare nella dottrina cristiana quella norma completa
per la nostra vita che il suo Autore voleva riaffermare e far valere, ma solo in parte
delineare con le sue parole. Credo inoltre che questa ottusa teoria stia diventando
gravemente dannosa nella pratica, in particolare nella formazione e istruzione morale che
tante persone benintenzionate stanno oggi cercando con grandi sforzi di favorire. Temo
molto che il tentativo di formare intelletto e sentimenti secondo una tipologia
esclusivamente religiosa che respinge quei criteri laici (li chiamiamo così in mancanza di
termini migliori) che fino a oggi hanno coesistito e collaborato con l'etica cristiana in un
mutuo scambio spirituale, darà, anzi dà già, come risultato, dei caratteri bassi, abietti e
servili che, per quanto sottomessi a ciò che ritengono la Volontà Suprema, sono incapaci di
comprendere o di apprezzare il concetto di Bene Supremo. Credo che se si vuole la
rigenerazione morale dell'umanità, etiche diverse da quelle di derivazione esclusivamente
cristiana debbano coesistere con la morale cristiana; e che il sistema cristiano non
costituisca un'eccezione alla regola secondo cui in uno stadio imperfetto dello sviluppo
intellettuale umano gli interessi della verità esigono la presenza di opinioni diverse. Non è
necessario che gli uomini, smettendo di ignorare le verità morali non contenute nella
dottrina cristiana, ignorino alcuna di quelle che contiene. Ignoranze o pregiudizi del
genere sono sempre e incondizionatamente un male, che però non possiamo sperare di
evitare sempre e dobbiamo considerare il prezzo di un bene inestimabile. Si deve
protestare contro la pretesa esclusiva di una parte della verità a essere considerata la verità
intera; e, se chi protesta per reazione diventa a sua volta ingiusto, questa unilateralità,
come l'altra, può essere deplorata ma va tollerata. Se i cristiani vogliono insegnare ai
pagani a essere giusti verso il Cristianesimo, devono essere giusti verso il paganesimo.
Non giova alla verità il tentativo di occultare il fatto, noto a chiunque abbia una minima
conoscenza della storia della letteratura, che una buona parte degli insegnamenti morali
più nobili e validi è dovuta non solo a uomini che ignoravano la fede cristiana, ma a
uomini che la conoscevano e la rifiutavano. Non pretendo che l'esercizio più
incondizionato della libertà di enunciare tutte le opinioni possibili possa por fine ai mali
del settarismo religioso o filosofico. Ogni verità propugnata da uomini di mentalità
ristretta sarà certamente asserita, inculcata, e persino applicata come se al mondo non ne
esistesse altra, o comunque non ne esistesse alcuna che possa limitarla o precisarla.
Riconosco che la più libera discussione non cura la tendenza di tutte le opinioni a
diventare settarie, e anzi spesso la acuisce e esacerba; la verità che si sarebbe dovuta
vedere ma non si è vista viene rifiutata tanto più violentemente perché è asserita da
persone considerate oppositori. Ma non è tanto sul sostenitore appassionato, quanto sul
testimone più calmo e disinteressato che questo contrasto di opinioni opera un effetto
salutare. Il male più temibile non è il violento conflitto tra parti diverse della verità, ma la
silenziosa soppressione di una sua metà; finché la gente è costretta ad ascoltare le due
opinioni opposte c'è sempre speranza; è quando ne ascolta una sola che gli errori si
cristallizzano in pregiudizi, e la verità stessa cessa di avere effetto perché l'esagerazione la
rende falsa. E poiché poche qualità mentali sono più rare della facoltà che permette di
giudicare intelligentemente tra due visioni contrapposte di una questione, di cui una sola
ha un difensore, le probabilità di vittoria della verità sono proporzionali alla misura in cui
ciascun suo aspetto, ciascuna opinione che ne esprima una pur minima parte, non solo
trova chi la difende, ma viene attivamente difesa e ascoltata. Abbiamo quindi riconosciuto
la necessità, ai fini del benessere mentale dell'umanità (da cui dipende ogni altra forma di
benessere), della libertà di opinione e della libertà di espressione, per quattro distinte
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ragioni che ora ricapitoleremo brevemente: In primo luogo, ogni opinione costretta al
silenzio può, per quanto possiamo sapere con certezza, essere vera. Negarlo significa
presumere di essere infallibili. In secondo luogo, anche se l'opinione repressa è un errore,
può contenere, e molto spesso contiene, una parte di verità; e poiché l'opinione generale o
prevalente su qualsiasi questione è raramente, o mai, l'intera verità, è soltanto mediante lo
scontro tra opinioni opposte che il resto della verità ha una probabilità di emergere. In
terzo luogo, anche se l'opinione comunemente accettata è non solo vera ma costituisce
l'intera verità, se non si permette che sia, e se in effetti non è, vigorosamente e
accanitamente contestata, la maggior parte dei suoi seguaci l'accetterà come se fosse un
pregiudizio, con scarsa comprensione e percezione dei suoi fondamenti razionali. Non
solo, ma, quarto, il significato stesso della dottrina rischierà di affievolirsi o svanire, e
perderà il suo effetto vitale sul carattere e il comportamento degli uomini: come dogma,
diventerà un'asserzione puramente formale e priva di efficacia benefica, e costituirà un
ingombro e un ostacolo allo sviluppo di qualsiasi convinzione, reale e veramente sentita,
derivante dal ragionamento o dall'esperienza personale. Prima di abbandonare la
questione della libertà di opinione, è bene dedicare qualche parola a chi afferma che la
libera espressione di tutte le opinioni va consentita a condizione che si discuta
educatamente, senza oltrepassare i limiti della moderazione. Vi sarebbero molte ragioni
per sostenere che è impossibile definire questi presunti limiti: poiché se il criterio di
definizione è l'offesa a coloro le cui opinioni vengono attaccate, ritengo per esperienza che
essi si offendano ogni volta che l'attacco è vigoroso e va a segno, e che ogni oppositore che
li incalzi e renda loro difficile replicare sembri smodato se ha idee chiare e le difende. Ma
questa considerazione, anche se importante sotto l'aspetto pratico, rientra in un'obiezione
più fondamentale. Senza dubbio il modo in cui si asserisce un'opinione, anche se vera, può
essere molto sgradevole e venire giustamente e severamente riprovato. Ma in questa sfera
le scorrettezze principali sono di tale natura che è quasi impossibile dimostrarle, a meno
che chi le commetta non si tradisca accidentalmente. Le scorrettezze più gravi sono:
argomentare per sofismi, nascondere fatti o argomenti, esporre la questione in modo
inesatto, o travisare l'opinione avversa. Ma questi atti di slealtà vengono così
continuamente commessi in perfetta buona fede, anche nelle forme più gravi, da persone
che non sono considerate – per molti altri aspetti giustificatamente – ignoranti o
incompetenti, che di rado si può dichiarare fondatamente e in piena coscienza che la
deformazione della verità in questione è moralmente riprovevole; ancor più è impensabile
che la legge interferisca in controversie riguardanti scorrettezze di questo tipo. Per quanto
concerne ciò che comunemente si intende per discussione smodata – invettive, sarcasmi,
attacchi personali e così via – la denuncia di questi mezzi riceverebbe più simpatie se si
proponesse di vietarne l'impiego a entrambi i contendenti: ma ciò che si vuole evitare è
che vengano usati contro l'opinione dominante; contro quella minoritaria non solo
possono essere impiegati senza attirare la disapprovazione generale, ma spesso chi li usa
viene lodato per il suo onesto zelo e la sua giusta indignazione. E tuttavia i danni derivanti
dall'uso di tali mezzi sono maggiori quando i bersagli sono relativamente indifesi; e ogni
tipo di vantaggio sleale derivante da questo stile di argomentazione è quasi
esclusivamente un vantaggio per l'opinione comunemente accettata. In una polemica, la
peggiore scorrettezza di questo genere consiste nel bollare gli oppositori come malvagi e
immorali. Coloro che sostengono qualsiasi opinione impopolare sono particolarmente
esposti a simili calunnie, perché in generale sono pochi e privi d'influenza e a nessuno,
salvo che a loro, interessa particolarmente che venga loro resa giustizia. Ma quest'arma è,
per la sua stessa natura, negata a coloro che attaccano un'opinione dominante: non
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possono correre il rischio di usarla e, comunque, se la impiegassero, si limiterebbe a
ritorcersi contro la loro causa. In generale, le opinioni minoritarie possono sperare di
essere ascoltate solo usando un linguaggio studiatamente moderato e evitando con ogni
cura di offendere inutilmente chiunque, pena la perdita di terreno a ogni minima
deviazione da questa linea; mentre, impiegato dal lato dell'opinione prevalente, il
vituperio più scatenato è un deterrente reale, che distoglie la gente dal professare opinioni
non conformiste e dall'ascoltare chi le professa. Di conseguenza, ai fini della verità e della
giustizia, è molto più importante che venga represso questo secondo tipo di invettiva; e
per esempio, se la scelta si ponesse, sarebbe molto più necessario scoraggiare gli attacchi
calunniosi al paganesimo che alla religione cristiana. È comunque ovvio che non è compito
della legge o dell'autorità scoraggiare nessuno dei due, mentre l'opinione dovrebbe, caso
per caso, pronunciarsi sulla base delle circostanze specifiche – condannando chiunque, da
qualunque parte stia, il cui modo di argomentare manifesti insincerità, malignità,
fanatismo o sentimenti di intolleranza; ma non deducendo queste pecche dall'opinione di
chi viene giudicato, anche se è opposta alla nostra; e lodando, come merita, chiunque, da
qualunque parte stia, sia così sereno da vedere, e così onesto da descrivere, i suoi
oppositori e le loro opinioni come sono in realtà, senza esagerazioni che li discreditino e
menzionando tutti gli elementi che sono o possono essere a loro favore. Questa è la vera
morale del dibattito pubblico: e anche se spesso viene violata, sono lieto di pensare che
molti polemisti la rispettano in larga misura, e molti di più si sforzano coscienziosamente
di rispettarla.

III - DELL'INDIVIDUALITA' COME ELEMENTO

Abbiamo stabilito le ragioni che rendono imperativo che gli uomini siano liberi di formarsi
le loro opinioni e di esprimerle senza riserve; e stabilito anche quali sono le sventurate
conseguenze per la natura intellettuale dell'uomo, e attraverso di essa per quella morale,
se questa libertà non viene concessa o affermata nonostante i divieti. Consideriamo ora se
le stesse ragioni non richiedono che gli uomini siano liberi di agire secondo le proprie
opinioni – di applicarle nella loro vita senza essere ostacolati, fisicamente o moralmente,
dai loro simili, purché lo facciano a loro esclusivo rischio e pericolo. Quest'ultima
condizione è ovviamente indispensabile. Nessuno pretende che le azioni debbano essere
libere quanto le opinioni. Al contrario, anche le opinioni perdono la loro immunità quando
le circostanze in cui vengono espresse sono tali da rendere tale espressione un'istigazione
esplicita a un atto delittuoso. L'opinione che i mercanti di grano sono degli affamatori dei
poveri, o che la proprietà privata è un furto, non dovrebbe essere molestata se viene
semplicemente diffusa per mezzo della stampa, ma può incorrere in una giusta punizione
se viene proferita di fronte a una folla eccitata riunitasi davanti alla casa di un mercante di
grano, o viene esibita tra la stessa folla sotto forma di cartello. Gli atti di qualunque tipo
che senza causa giustificata danneggino altri possono essere controllati, e nei casi più
importanti devono assolutamente esserlo, dai sentimenti a essi sfavorevoli, e, quando sia
necessario, dall'intervento attivo degli uomini. La libertà dell'individuo deve avere questo
limite: l'individuo non deve creare fastidi agli altri. Ma se evita di molestare gli altri nelle
loro attività, e si limita a agire secondo le proprie inclinazioni e il proprio giudizio
nell'ambito che lo riguarda, le stesse ragioni che dimostrano che l'opinione deve essere
libera provano anche che gli si deve consentire, senza molestarlo, di mettere in pratica le
proprie opinioni a proprie spese. Gli uomini non sono infallibili; le loro verità sono per la
maggior parte delle mezze verità; l'unanimità, a meno che non sia il risultato del più
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completo e libero confronto di opinioni opposte, non è auspicabile, e la diversità non sarà
un male ma un bene fino a quando gli uomini non saranno molto più capaci di riconoscere
tutti gli aspetti della verità: questi principi sono applicabili alle azioni altrettanto che alle
opinioni. Come è utile che fino a quando l'umanità non sarà perfetta vi siano differenze
d'opinione, così lo è che vi siano differenti esperimenti di vita; che le diverse personalità
siano lasciate libere di esprimersi, purché gli altri non ne vengano danneggiati; e che la
validità di modi di vivere diversi sia verificata nella pratica quando lo si voglia. In breve, è
auspicabile che l'individualità sia libera di affermarsi nella sfera che non riguarda
direttamente gli altri. Quando la norma di condotta non è il carattere individuale ma le
tradizioni o le consuetudini degli altri, viene a mancare uno dei principali elementi della
felicità umana, e l'elemento sicuramente principale del progresso individuale e sociale. La
difficoltà maggiore che si incontra nell'affermazione di questo principio non risiede nella
determinazione dei mezzi necessari per raggiungere un fine riconosciuto, ma
nell'indifferenza generale nei confronti del fine stesso. Se la gente si rendesse conto che il
libero sviluppo dell'individualità è uno degli elementi fondamentali del bene comune; che
non solo è connesso a tutto ciò che viene designato da termini come civiltà, istruzione,
educazione, cultura, ma è di per se stesso parte e condizione necessaria di tutte queste
cose, non vi sarebbe il pericolo che la libertà venisse sottovalutata, e la definizione dei
confini tra essa e il controllo sociale non presenterebbe enormi difficoltà. Ma il male è che
comunemente il valore intrinseco della spontaneità individuale – il fatto che è di per se
stessa degna di considerazione – è a malapena riconosciuto. I più, soddisfatti della vita
così come è (perché sono loro a renderla così come è) non riescono a capire perché non
debba andar bene a tutti; e, ciò che più conta, la spontaneità non fa parte dell'ideale della
maggioranza dei riformatori morali e sociali, ed è anzi guardata con sospetto, come un
ostacolo fastidioso e forse ribelle all'accettazione generale di ciò che essi giudicano più
opportuno per l'umanità. Poche persone al di fuori della Germania riescono a
comprendere il significato della dottrina a cui Wilhelm von Humboldt, studioso e uomo
politico così eminente, dedicò un trattato – che "il fine dell'uomo, o ciò che è prescritto dai
dettati eterni o immutabili della ragione, non suggerito da desideri vaghi e passeggeri, è il
più elevato e armonioso sviluppo dei suoi poteri in un'unità completa e coerente"; che
quindi, lo scopo "a cui ciascun essere umano deve costantemente tendere i suoi sforzi, e su
cui debbono sempre concentrarsi coloro che cercano di esercitare un influsso sui propri
simili, è l'individualità del potere e dello sviluppo"; che ciò richiede due elementi, "la
libertà, e la varietà delle situazioni"; e che dalla loro unione nascono "il vigore individuale
e la molteplice diversità", che si combinano nella "àoriginalit ". Tuttavia, per quanto poco
gli uomini siano abituati a dottrine come quella di von Humboldt, e per quanto possano
sorprendersi del valore che attribuisce all'individualità, la questione può soltanto essere
questione di grado: nessuno pensa che la migliore condotta possibile sia di non fare
assolutamente altro che copiarsi a vicenda. Nessuno affermerebbe che gli uomini non
dovrebbero esprimere in alcuna misura il proprio giudizio o il proprio carattere
individuale nel loro modo di vivere e nella condotta dei loro affari. D'altra parte, sarebbe
assurdo pretendere che gli uomini debbano vivere come se prima che venissero al mondo
tutto fosse stato completamente ignoto; come se l'esperienza non avesse ancora indicato in
una certa misura che un dato modo di vivere o di comportarsi è preferibile a un altro.
Nessuno nega che da giovani gli uomini debbano essere educati e addestrati a conoscere i
risultati accertati dall'esperienza umana e a trarne vantaggio. Ma è privilegio, e giusta
condizione, dell'uomo, una volta giunto alla pienezza delle sue facoltà, usare e interpretare
l'esperienza a modo suo. Tocca a lui determinare in quale misura l'esperienza già acquisita
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sia opportunamente applicabile alle proprie circostanze e al proprio carattere. Le
tradizioni e i costumi di altri uomini mostrano, in una certa misura, ciò che la loro
esperienza ha loro insegnato: sono prove indiziarie, e in quanto tali vanno rispettate. Ma,
innanzitutto, la loro esperienza può essere troppo limitata, o possono non averla
interpretata correttamente. In secondo luogo, la loro interpretazione può essere corretta
ma non adattarsi alle esigenze di un dato individuo. In terzo luogo, anche se queste
consuetudini sono sia positive in quanto tali sia adatte al caso particolare, tuttavia il
conformarsi semplicemente alla consuetudine in quanto tale non educa o sviluppa
nell'individuo le qualità che sono patrimonio caratteristico di un essere umano. Facoltà
umane quali la percezione, il giudizio, il discernimento, l'attività mentale, e persino la
preferenza morale, si esercitano soltanto nelle scelte. Chi fa qualcosa perché è l'usanza non
opera una scelta, né impara a discernere o a desiderare ciò che è meglio. I poteri mentali e
morali, come quelli muscolari, si sviluppano soltanto con l'uso. Facendo qualcosa soltanto
perché gli altri la fanno non si esercitano queste facoltà, non più che credendo a qualcosa
solo perché altri ci credono. Se i fondamenti su cui si basa un'opinione non convincono
completamente la ragione individuale, quest'ultima non può essere rafforzata e anzi
spesso viene indebolita dalla sua adozione. Analogamente se le motivazioni di un atto non
sono consone ai sentimenti e al carattere di un individuo (in casi che non coinvolgano gli
affetti, o i diritti altrui), compierlo contribuirà a renderli inerti e torpidi invece che attivi e
energici. Chi permette al mondo, o alla parte di esso in cui egli vive, di scegliergli la vita
non ha bisogno di altre facoltà che di quella dell'imitazione scimmiesca. Che si sceglie la
vita esercita tutte le sue facoltà. Deve usare l'osservazione per vedere, il ragionamento e il
giudizio per prevedere, l'attività per raccogliere gli elementi decisionali, il discernimento
per decidere, e, una volta presa deliberatamente la decisione, la fermezza e il controllo di
sé per attenervisi. E queste qualità gli servono, e le esercita, esattamente nella misura in cui
determina la propria condotta secondo il proprio giudizio e i propri sentimenti. Può
accadere che finisca su una buona strada, e non gli accada nulla di male, senza che faccia
nulla di tutto ciò. Ma quale sarà il suo valore relativo in quanto essere umano? Non sono
soltanto le azioni degli uomini a essere realmente importanti, ma anche i generi di uomini
che le compiono. Tra le opere umane che la vita giustamente si sforza di perfezionare e
rendere più belle, la prima in ordine d'importanza è sicuramente l'uomo stesso.
Supponendo che fosse possibile fare costruire le case, coltivare il grano, combattere le
battaglie, dibattere le cause, e persino erigere le chiese e recitare le preghiere, da macchine
– da automi di apparenza umana –, si perderebbe molto sostituendole agli uomini e alle
donne che vivono oggi nelle regioni più civilizzate del mondo e che pure sono certamente
soltanto poveri esempi di ciò che la natura può produrre e produrrà in futuro. La natura
umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia
esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di crescere e svilupparsi in
ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una creatura
vivente. Probabilmente tutti ammetteranno che è auspicabile che gli uomini esercitino il
loro intelletto, e che adeguarsi con intelligenza alle usanze, e persino talvolta discostarsene
intelligentemente, è meglio che aderirvi ciecamente e meccanicamente. In una certa misura
si ammette che il nostro intelletto spetta a noi; ma non vi è la medesima disposizione a
ammettere che anche i nostri desideri e impulsi sono di nostra competenza, o che avere
impulsi propri, forti o deboli che siano, possa costituire altro che un pericolo e una
tentazione. E tuttavia desideri e impulsi sono parte di un perfetto essere umano altrettanto
quanto le sue convinzioni e le restrizioni cui è sottoposto; e gli impulsi vigorosi sono
pericolosi solo in una situazione di squilibrio, quando un gruppo di intenzioni e tendenze
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si sviluppa e si rafforza mentre altre, che dovrebbero essere altrettanto presenti, restano
deboli e inattive. Non è perché i loro desideri sono vigorosi che gli uomini agiscono male;
è perché le loro coscienze sono deboli. Non vi è una connessione naturale tra vigore di
impulsi e debolezza di coscienza: la connessione naturale è l'inversa. Affermare che i
desideri e i sentimenti di un indviduo sono più forti e variati di quelli di un altro significa
semplicemente che ha una maggiore disponibilità di materie prime della natura umana, e
quindi è capace, forse di maggiore male, ma certamente di maggior bene. I forti impulsi
non sono che un altro nome dell'energia. L'energia può essere impiegata a fini cattivi; ma
da una natura energica può venire maggior bene che da una indolente e apatica. Gli
uomini più naturalmente dotati di sentimenti sono sempre quelli i cui sentimenti, se
coltivati, possono diventare i più forti. Le stesse profonde sensibilità che rendono vividi e
poderosi gli impulsi personali sono anche la fonte da cui originano il più appassionato
amore per la virtù e il più severo autocontrollo. È coltivandole che la società
contemporaneamente compie il suo dovere e protegge i suoi interessi, non rifiutando la
stoffa di cui sono fatti gli eroi perché non sa come farli. Di una persona i cui desideri e
impulsi siano i suoi – siano l'espressione della sua personale natura, sviluppata e
modificata dalla sua cultura – si dice che possiede un carattere; una persona i cui desideri
e impulsi non siano suoi non ha più carattere di quanto ne abbia una macchina a vapore.
Se, oltre a essere suoi, i suoi impulsi sono vigorosi e sono guidati da una forte volontà, egli
ha un carattere energico. Chiunque pensi che l'individualità di desideri e impulsi non vada
incoraggiata a esprimersi deve ritenere che la società non ha bisogno di spiriti forti – non è
migliore se molti dei suoi membri hanno molto carattere – e che non è auspicabile un alto
livello medio di energia in generale. In alcuni stadi iniziali della società, queste forze
potevano essere, ed erano, troppo superiori al potere di disciplinarle e controllarle a
disposizione della società. Vi è stata un'epoca in cui l'elemento di spontaneità e
individualità era eccessivo, e il principio sociale dovette lottare duramente contro di esso.
A quei tempi la difficoltà consisteva nell'indurre uomini fisicamente o mentalmente
vigorosi a obbedire a qualsiasi norma che gli richiedesse di controllare i propri impulsi.
Per superare questa difficoltà, la legge e la disciplina, come nel caso della lotta dei papi
contro gli imperatori, affermarono il loro potere sull'uomo nel suo complesso,
pretendendo di controllarne l'intera vita per controllarne il carattere, che la società non era
riuscita a vincolare in alcun altro modo. Ma oggi la società ha senza dubbio prevalso
sull'individualità; e il periodo che minaccia la natura umana non è l'eccesso, ma la carenza
di impulsi e preferenze individuali. La situazione è molto cambiata da quando le passioni
di chi era più forte, per posizione sociale o per doti personali, erano in una condizione di
rivolta permanente contro la legge e l'ordine, e rendevano necessario incatenarle
rigorosamente per permettere a chi si trovava nel loro raggio d'azione di godere di un
minimo di sicurezza. Nella nostra epoca, tutti, dalla più elevata alla più infima classe
sociale, vivono come se fossero sotto lo sguardo di un censore ostile e tremendo. Non
soltanto nelle questioni che riguardano gli altri, ma anche in quelle che riguardano
soltanto loro, l'individuo o la famiglia non si chiedono "Che cosa preferisco?" oppure "Che
cosa si addice al mio carattere e alle mie inclinazioni?", o "Che cosa permetterebbe alle mie
qualità migliori e più elevate di esprimersi e di crescere rigogliosamente?": si chiedono
"Che cosa si addice alla mia posizione?", "Come si comportano abitualmente le persone
della mia condizione economica e sociale?" o (peggio ancora) "Come si comportano
abitualmente le persone di condizioni economiche e sociali superiori alle mie?". Non
voglio dire che scelgono la consuetudine invece di ciò che si addice alle loro inclinazioni:
non hanno inclinazioni che non siano per la consuetudine. Così la stessa mente si piega
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sotto il giogo: persino negli svaghi, gli uomini pensano prima di tutto a conformarsi; gli
piace stare tra la folla; esercitano la scelta solo tra cose e pratiche comuni; sfuggono
l'originalità del gusto e l'eccentricità di comportamento come fuggono il crimine, finché a
forza di non seguire la propria natura non hanno più natura propria; le loro facoltà umane
deperiscono e si inaridiscono; diventano incapaci di desideri vigorosi e di piaceri naturali,
e generalmente sono privi di opinioni e sentimenti autonomamente sviluppati, o che
possano chiamare propri. È questa dunque la condizione auspicabile della natura umana?
Lo è, stando alla teoria calvinista. Per essa, la grande colpa è l'autonomia della volontà.
Tutto il bene di cui è capace l'umanità si riassume nell'obbedienza. Non c'è scelta; si deve
agire in un certo modo, e non altrimenti: "Tutto ciò che non è dovere è peccato". Poiché la
natura umana è radicalmente corrotta, nessuno è redento finché la sua non viene uccisa.
Per chi crede in questa teoria dell'esistenza, schiacciare ed eliminare tutte le facoltà,
capacità e sensibilità umane non è un male: la sola capacità di cui l'uomo ha bisogno è
quella di arrendersi alla volontà di Dio; e se usa qualunque sua facoltà per uno scopo che
non sia l'attuazione più efficace di questa presunta volontà, meglio sarebbe che non
l'avesse. Questa è la teoria del Calvinismo; essa è condivisa da molti che non si
considerano calvinisti in una formulazione più moderata, consistente in un'interpretazione
meno ascetica del supposto volere divino, secondo cui gli uomini dovrebbero soddisfare
alcune loro inclinazioni, naturalmente non nel modo che preferiscono ma nell'obbedienza,
cioè in un modo prescritto dall'autorità e quindi, per necessità del caso, identico per tutti.
Attualmente esiste, sotto forme insidiose di questo genere, una forte tendenza favorevole a
questa ristretta visione dell'esistenza, e al genere di personalità tormentata e piena di
pregiudizi da essa favorita. Senza dubbio molti pensano in tutta sincerità che degli uomini
così bloccati e rimpiccioliti siano ciò che il loro Creatore intendeva che fossero, esattamente
come molti altri ritengono che gli alberi siano molto più belli potati, o modellati in forma
di animali, che così come natura li ha fatti. Ma se la convinzione che l'uomo sia stato creato
da un Essere buono fa parte integrante della religione, è più coerente con essa pensare che
Egli ha dato agli uomini tutte le loro facoltà perché siano coltivate e sviluppate, non
sradicate e bruciate, e che si compiace ad ogni passo delle sue creature verso la concezione
ideale in esse incarnata, a ogni aumento di ogni loro capacità di comprensione, di azione o
di gioia. Vi è un ideale di perfezione umana diverso da quello di Calvino: una concezione
secondo cui l'umanità è stata dotata della sua natura per altri fini che per rinnegarla.
L'"affermazione di sé" dei pagani è una componente del valore dell'uomo, altrettanto
quanto la "negazione di sé dei cristiani ". Vi è un ideale greco di sviluppo di se stessi, che si
fonde con l'ideale platonico e cristiano del controllo di se stessi ma non ne viene sostituito.
Forse è meglio essere un John Knox che un Alcibiade, ma è sicuramente meglio essere un
Pericle che uno dei due; né un Pericle, se esistesse oggi, sarebbe privo delle qualità di John
Knox. Non è stemperando nell'uniformità tutte le caratteristiche individuali, ma
coltivandole e facendo appello ad esse entro i limiti imposti dai diritti e dagli interessi
altrui, che gli uomini diventano nobili e magnifici esempi di vita; e poiché le opere
partecipano del carattere di chi le compie, mediante lo stesso processo anche la vita umana
si arricchisce, si diversifica e si anima, fornendo maggiore stimolo ai pensieri e sentimenti
più elevati, e rafforzando il legame che unisce ciascun individuo alla sua stirpe, perché la
rende infinitamente più degna di appartenervi. Proporzionalmente allo sviluppo della
propria individualità ciascuno acquista maggior valore ai propri occhi, e quindi può aver
maggior valore per gli altri. L'esistenza individuale è più piena, e quando le singole unità
sono più vitali lo è anche la massa che compongono. Non si può fare a meno di esercitare
la repressione, nella misura necessaria a impedire agli esemplari umani più forti di violare
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i diritti altrui; ma ciò viene ampiamente compensato anche dal punto di vista dello
sviluppo umano. I mezzi di svilupparsi che l'individuo perde quando gli viene impedito
di soddisfare le sue inclinazioni a danno di altri sono generalmente ottenuti a spese altrui.
E anche per l'individuo stesso vi è una completa compensazione, sotto forma di un
migliore sviluppo dell'aspetto sociale della sua natura, reso possibile dai vincoli imposti a
quello egoistico. Il fatto di essere vincolati a rigide norme di giustizia per il bene altrui
sviluppa i sentimenti e le capacità che portano a compierlo. Ma venire repressi in campi
che non riguardano il benessere degli altri, soltanto a causa della loro disapprovazione,
non sviluppa nulla di valido, salvo eventualmente quella forza di carattere che si esplica
nella resistenza alle costrizioni e che, se prende il sopravvento, intorpidisce e affievolisce
l'intera personalità. Perché la natura di ciascuno abbia ogni opportunità di esplicarsi, è
essenziale che sia consentito a persone diverse di condurre vite diverse. Il valore che ogni
periodo storico ha acquisito tra i posteri è direttamente proporzionale alla libertà che sotto
questo aspetto ha concesso a chi vi è vissuto. Persino il dispotismo non arriva a produrre i
peggiori effetti di cui è capace se ammette l'esistenza dell'individualità; e tutto ciò che la
sopprime è dispotismo, comunque lo si chiami, e indipendentemente dal fatto che
sostenga di voler far rispettare la volontà divina o i comandi degli uomini. Avendo detto
che l'individualità coincide con il progresso, e che solo la sua coltivazione produce, o può
produrre, esseri umani compiutamente sviluppati, potrei concludere qui; poiché la
maggiore e più esplicita lode che si possa fare di uno stato di cose è dire che aiuta gli
uomini a realizzarsi al meglio delle loro possibilità; e affermare che glielo impedisce o li
ostacola è la peggiore condanna. Tuttavia non vi è dubbio che queste considerazioni non
basteranno a convincere coloro che più hanno bisogno di esserlo; e quindi è necessario
dimostrare che lo sviluppo di alcuni ha una certa utilità anche per chi non si sviluppa –
mostrare cioè a coloro che non desiderano la libertà e non se ne servirebbero che possono
essere ricompensati in modo a loro comprensibile se permettono ad altri di farne uso
indisturbati. Innanzitutto direi loro che avrebbero forse la possibilità di imparare qualcosa
dagli altri. Nessuno negherà che nella vita l'originalità è preziosa. C'è sempre bisogno di
gente che non solo scopra verità nuove e mostri che quelle che una volta erano delle verità
non lo sono più, ma anche inizi attività nuove e dia esempio di comportamento più
illuminato e di maggiore sensibilità e razionalità di vita. Quest'asserzione è difficilmente
confutabile da chiunque non creda che il mondo abbia già raggiunto la completa
perfezione. È vero che non tutti sono capaci di esercitare questo ruolo benefico; rispetto al
totale degli uomini, sono pochi coloro i cui esperimenti, se adottati dagli altri, potrebbero
rivelarsi migliori della pratica consolidata: ma sono il sale della terra; senza di loro la vita
ristagnerebbe. Non soltanto sono loro a introdurre le novità positive, ma anche a
conservare quanto di positivo già esiste. Se non ci fosse più nulla di nuovo da realizzare,
l'intelletto umano cesserebbe forse di essere necessario? Sarebbe un buon motivo per
dimenticare le ragioni per cui si fanno le cose che già si conoscono, e farle come bestie e
non come esseri umani? Anche le convinzioni e le pratiche migliori hanno una tendenza
fin troppo grande a degenerare nel meccanico; e se non si succedessero persone la cui
incessante originalità impedisce che queste convinzioni o pratiche perdano la loro ragione
di essere e diventino mere tradizioni, questo complesso di cose morte non resisterebbe al
minimo scontro con qualsiasi cosa che sia realmente viva, e non ci sarebbe motivo che la
civiltà non perisca, come è avvenuto nel caso dell'Impero di Bisanzio. È vero che le
persone di genio sono una piccola minoranza e probabilmente lo saranno sempre; ma
perché vi siano è necessario conservare il terreno in cui crescono. Il genio può respirare
liberamente soltanto in un'atmosfera di libertà. Le persone di genio sono, per definizione,
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più individualiste di chiunque altro – quindi meno capaci di adeguarsi senza dolorose
deformazioni a uno dei pochi modelli che la società offre ai suoi membri per risparmiare
loro il fastidio di formarsi il proprio carattere. Se, per timore, esse permettono che le si
costringa entro un modello, e rinunciano a espandere quella parte di sé che esso
comprime, la società non trarrà alcun beneficio dal loro genio. Se hanno un carattere forte
e spezzano i loro legami, diventano bersaglio della società che non è riuscita a ridurle alla
banalità, e vengono solennemente bollate come "agitati", "stravaganti", eccetera –
atteggiamento analogo a quello di chi protesti perché il Niagara non scorre placido tra le
sue sponde come i canali olandesi. Insisto quindi vigorosamente sull'importanza del genio
e la necessità di permettergli di esplicarsi liberamente, sia nel pensiero sia nella pratica,
rendendomi ben conto che nessuno mi contraddirà in teoria, ma sapendo che la questione
non importa quasi a nessuno. La gente pensa che il genio sia una gran bella cosa se
permette di scrivere magnifiche poesie o di dipingere quadri. Ma, del genio nel suo vero
senso di originalità di pensiero e di azione, anche se nessuno dice che non va ammirato,
quasi tutti tra sé pensano di poter fare benissimo a meno. Purtroppo è un atteggiamento
così naturale che non stupisce neppure. L'originalità è l'unica cosa di cui coloro che
originali non sono non possono comprendere l'utilità. Non vedono a che cosa gli serva: e
come potrebbero? Se lo potessero, non si tratterebbe più di originalità. Il primo servizio
che l'originalità può rendere a questo tipo di persone è aprirgli gli occhi: quando li
avessero completamente aperti, avrebbero la possibilità di essere a loro volta originali. Nel
frattempo, e ricordando che c'è stata sempre una prima volta e che tutto ciò che di buono
vi è al mondo è frutto dell'originalità, gli uomini dovrebbero essere abbastanza modesti da
credere che essa ha ancora un ruolo da svolgere, e convincersi che quanto meno ne
sentono la mancanza tanto più ne hanno bisogno. La semplice verità è che,
indipendentemente dagli omaggi tributati a parole o anche nei fatti alla superiorità
intellettuale, reale o presunta, la tendenza generale del mondo è al predominio della
mediocrità. Nell'antichità, nel Medioevo, e, in misura decrescente, durante la lunga
transizione dal feudalesimo alla società odierna, l'individuo costituiva un potere a sé; e se
aveva grandi talenti o una posizione sociale elevata era un potere considerevole. Oggi gli
individui si perdono nella folla. In politica, dire che governa l'opinione pubblica è quasi
una banalità. Il solo potere che meriti di essere chiamato tale è quello delle masse, e dei
governi finché si rendono espressione delle tendenze e degli istinti delle masse. Questo è
altrettanto vero nei rapporti morali e sociali privati che nelle transazioni pubbliche. Coloro
la cui opinione viene chiamata opinione pubblica non sono sempre lo stesso pubblico: in
America sono l'intera popolazione bianca; in Inghilterra sono principalmente la classe
media. Ma in tutti i casi si tratta di una massa, cioè della mediocrità collettiva. E, novità
ancora maggiore, oggi le masse non ricevono più le loro opinioni dalle gerarchie
ecclesiastiche e statali, da capi visibili, o dai libri. Chi pensa per loro conto sono uomini
molto simili a loro, che li arringano o parlano a loro nome, sull'impulso del momento,
attraverso i giornali. Non mi sto lamentando. Non affermo che il basso livello intellettuale
dell'umanità consentirebbe, in genere, qualcosa di meglio. Ma ciò non toglie che il governo
della mediocrità sia un governo mediocre. Nessun governo democratico o di
un'aristocrazia numerosa si è mai sollevato al di sopra della mediocrità – né poteva farlo –,
né nei suoi atti politici né nelle opinioni, qualità e stile intellettuali che favoriva; fanno
eccezione alcuni capi supremi. Molti si sono lasciati guidare (e ciò ha sempre coinciso con i
loro periodi migliori) dai consigli e dall'influenza di una persona più dotata, e hanno
trasmesso le loro esperienze a una o a poche persone. Tutto ciò che è saggio e nobile viene
iniziato, e deve esserlo, da individui: generalmente da uno solo. L'onore e il merito
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dell'uomo medio stanno nel fatto che è capace di seguire questa iniziativa; che può reagire
interiormente alla saggezza e alla nobiltà, e vi può essere portato coscientemente. Non sto
facendo l'elogio di quel tipo di "culto dell'eroe" che approva l'uomo forte e di genio che si
impadronisce con la forza del governo del mondo e costringe quest'ultimo a obbedirgli
suo malgrado. Un uomo del genere può solo chiedere la libertà di indicare la via: il potere
di costringere gli altri a seguirla non solo è incompatibile con la libertà e lo sviluppo di
tutto il resto, ma corrompe lo stesso uomo forte. A quanto pare, tuttavia, ora che le
opinioni di masse di gente semplicemente media sono diventate o stanno diventando il
potere dominante dappertutto, il contrappeso che corregge la tendenza dovrebbe essere la
sempre più accentuata individualità dei pensatori più elevati. È proprio in queste
circostanze che gli individui eccezionali, invece di venirne dissuasi, dovrebbero essere
incoraggiati ad agire in modo differente dalle masse. In altri tempi ciò non implicava
benefici, salvo nel caso in cui le loro attività non fossero solo diverse, ma anche migliori.
Nella nostra epoca, il semplice esempio di anticonformismo, il mero rifiuto di piegarsi alla
consuetudine, è di per se stesso un servigio all'umanità. Proprio perché la tirannia
dell'opinione è tale da rendere riprovevole l'eccentricità, per infrangere l'oppressione è
auspicabile che gli uomini siano eccentrici. Nei periodi in cui la forza di carattere era
frequente, lo era sempre anche l'eccentricità; e la sua presenza in una società è
generalmente stata proporzionale a quella del genio, del vigore intellettuale e del coraggio
morale. Il fatto che oggi così pochi osano essere eccentrici indica quanto siamo in pericolo.
Ho affermato che è importante che vi sia la più ampia libertà di svolgere ogni attività
inconsueta, affinché col tempo emergano chiaramente quelle che meritano di diventare
consuetudini. Ma l'indipendenza nell'azione e l'indifferenza nei confronti della tradizione
non vanno incoraggiate soltanto perché offrono la possibilità di tracciare vie migliori, e
indicare consuetudini più degne di essere generalmente adottate; né sono soltanto le
persone di intelletto nettamente superiore ad avere giusto diritto a vivere a loro modo.
Non vi è ragione alcuna perché tutta l'esistenza umana si articoli secondo uno o pochi
schemi. Se una persona è dotata di un minimo tollerabile di buon senso e esperienza, il suo
modo di formare la propria esistenza è il migliore, non perché lo sia di per se stesso, ma
perché è il suo. Gli esseri umani non sono come le pecore: e persino le pecore non sono
tutte identiche. Un uomo non può comprarsi un cappotto o delle scarpe che gli vadano
bene se non gli vengono fatti su misura o non ha a sua disposizione un intero magazzino
per sceglierli; è forse più facile trovargli una vita che un cappotto su misura, oppure gli
uomini sono più simili nella loro intera conformazione fisica e spirituale che nella forma
dei loro piedi? Anche se fossero diversi soltanto nei gusti, questa sarebbe una ragione
sufficiente per non cercare di uniformarli tutti allo stesso modello. Ma persone diverse
richiedono anche condizioni diverse di sviluppo spirituale; e non possono vivere tutte in
salute nello stesso clima morale più di quanto tutte le piante non possano coesistere
salubremente nella stessa atmosfera e clima fisici. Gli stessi fattori che favoriscono lo
sviluppo della natura più elevata di una persona ostacolano quello di un'altra. Lo stesso
modo di vivere è per l'uno sano e stimolante e ne favorisce al massimo la capacità di agire
e di godersi la vita, mentre per un altro costituisce un peso intollerabile che paralizza o
annienta tutta la sua vita interiore. Gli uomini sono così diversi nei loro motivi di gioia,
nelle sensibilità al dolore, nel modo e nei mezzi, fisici e morali, in cui li esplicano, che se
non esiste una corrispondente diversità nei loro modi di vivere non ottengono la felicità
che spetta loro né sviluppano la statura intellettuale, morale e estetica di cui la loro natura
è capace. Perché allora la tolleranza, intesa come sentimento pubblico, dovrebbe limitarsi
ai gusti e ai modi di vita che strappano il consenso semplicemente a causa della massa dei
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propri seguaci? La diversità non è mai totalmente disconosciuta (salvo che in qualche
ordine monastico); a una persona può senza infamia piacere o no il canottaggio, il fumo, la
musica, l'esercizio atletico, gli scacchi, le carte o lo studio, perché sia coloro a cui piacciono
queste attività sia quelli a cui dispiacciono sono troppo numerosi per poter essere ridotti al
silenzio. Ma l'uomo, e ancor più la donna, che possono essere accusati o di fare "quel che
nessuno fa" o di fare "quel che fanno tutti" sono oggetto di altrettanto disprezzo che se
avessero commesso un grave crimine morale. La gente ha bisogno di un titolo nobiliare, o
di un altro segno di rango, o di essere tenuta in considerazione da persone socialmente
elevate, per potersi permettere in una certa misura il lusso di fare ciò che gli piace senza
danno per la reputazione. In una certa misura, ripeto: poiché chiunque si permetta di
oltrepassarla rischia più che dei commenti sprezzanti – rischia l'internamento in
manicomio e il sequestro delle sue proprietà, che finiscono ai parenti . La tendenza attuale
dell'opinione pubblica presenta una caratteristica particolarmente adatta a renderla
intollerante di qualsiasi spiccata dimostrazione di individualità. La media degli uomini è
moderata, non solo nell'intelletto ma nelle inclinazioni; non hanno gusti o desideri
abbastanza forti da spingerli ad azioni insolite, e di conseguenza non capiscono chi li ha, e
lo classificano tra le persone squilibrate e smodate, a cui sono abituati a sentirsi superiori.
Basta combinare questo fenomeno, che è generale, con l'ulteriore ipotesi che si formi un
forte movimento moralista e il risultato è facilmente prevedibile. Oggi siamo in presenza
di un movimento di questo genere; i comportamenti si sono molto uniformati e gli eccessi
vengono scoraggiati con decisione; e aleggia uno spirito filantropico che non trova per
esercitarsi campo più invitante del miglioramento della moralità e della prudenza dei
nostri simili. Queste tendenze attuali fanno sì che il pubblico sia più disposto di quanto
non lo fosse in generale nel passato a prescrivere norme generali di condotta e a sforzarsi
di far conformare tutti al criterio comunemente accettato. E questo criterio, esplicito o
tacito, è non desiderare fortemente nulla. Il suo ideale di carattere è la mancanza di
qualunque carattere spiccato – è storpiare, comprimendola come il piede di una
nobildonna cinese, qualsiasi parte della natura umana che si distingua dalle altre e tenda a
rendere l'individuo nettamente dissimile dall'umanità comune. Come solitamente avviene
nel caso di ideali che escludono la metà di ciò che è complessivamente auspicabile, il
criterio odierno produce solo un'imitazione scadente dell'altra metà. Invece di grandi
energie guidate da una ragione vigorosa, e profondi sentimenti fortemente controllati da
una volontà cosciente, produce sentimenti e energie deboli, che quindi possono
mantenersi esteriormente conformi alla norma senza alcuna forza di volontà o di intelletto.
Le personalità energiche stanno già diventando rare in ogni campo. Nel nostro paese
l'energia non ha quasi altro sfogo che gli affari, che in effetti ne impegnano ancora una
quantità notevole. Il poco che resta è speso in qualche passatempo, che può essere utile e
persino filantropico, ma è sempre una cosa sola, generalmente di piccole dimensioni.
Ormai la grandezza dell'Inghilterra è tutta collettiva; individualmente piccoli, sembriamo
capaci di grandi cose solo in virtù della nostra abitudine ad associarci; e di questo i nostri
filantropi morali e religiosi sono perfettamente soddisfatti. Ma furono uomini di altro
stampo a fare dell'Inghilterra quello che è stata; e uomini di altro stampo ci vorranno per
evitarne il declino. Ovunque il dispotismo della consuetudine si erge a ostacolo del
progresso umano, ed è in costante antagonismo con quella disposizione a tendere verso
qualcosa che sia migliore dell'abitudine, chiamata a seconda delle circostanze, spirito di
libertà o di progresso o di innovazione. Lo spirito di progresso non è sempre spirito di
libertà, perché può cercare di imporre a un popolo dei mutamenti indesiderati; e, nella
misura in cui oppone resistenza a questi tentativi, lo spirito della libertà può allearsi
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localmente e temporaneamente con chi si oppone al progresso; ma la libertà è l'unico
fattore infallibile e permanente di progresso, poiché fa sì che i potenziali centri
indipendenti di irradiamento del progresso siano tanti quanti gli individui. Tuttavia, il
principio progressivo, sia sotto forma di amore per la libertà sia di amore del nuovo, è
antagonistico alla consuetudine, poiché implica inevitabilmente l'emancipazione dal suo
giogo; e il conflitto tra i due è il motivo conduttore della storia umana. A stretto rigor di
termini, la maggior parte del mondo non ha storia, perché il dispotismo della
consuetudine vi è totale: è il caso di tutto l'Oriente. In esso la consuetudine è in tutti i
campi il criterio ultimo; giustizia e diritto significano conformità alle usanze; a nessuno
che non sia un tiranno inebriato di potere viene in mente di opporsi all'argomento della
tradizione. E ne vediamo i risultati. Quei paesi devono aver posseduto, a suo tempo,
dell'originalità; non sono nati popolosi, colti, e versati in molte arti della vita; lo sono
diventati con le loro forze, e allora erano le nazioni più grandi e potenti del mondo. Che
cosa sono oggi? Sudditi o dipendenti di tribù i cui antenati vagavano nelle foreste quando
i loro avevano magnifici palazzi e splendidi templi, ma obbedivano in parte alla
consuetudine, in parte al desiderio di libertà e progresso. A quanto pare, un popolo può
progredire per un certo periodo, e poi fermarsi: quando si ferma? Quando cessa di
possedere l'individualità. Se un simile mutamento si verificasse nelle nazioni d'Europa,
non prenderebbe esattamente la stessa forma: il dispotismo delle usanze che le minaccia
non è precisamente la staticità. Mette al bando la singolarità, ma non preclude il
mutamento, purché tutti cambino insieme. Abbiamo abbandonato il modo di vestire dei
nostri padri. Ci dobbiamo ancora vestire tutti allo stesso modo, ma la moda può cambiare
una o due volte all'anno. Quindi facciamo sì che ogni eventuale mutamento sia fine a se
stesso, e non origini da un'esigenza di bellezza o di comodità: poiché l'identico concetto di
bellezza e comodità non potrebbe afferrare simultaneamente tutto il mondo a un dato
momento, né sarebbe simultaneamente respinto da tutti in un altro. Ma siamo progressivi,
oltre che mutevoli: inventiamo continuamente nuovi strumenti meccanici, e li teniamo fino
a quando non li sostituiamo con altri migliori; cerchiamo zelantemente di migliorare la
politica, l'educazione e perfino la morale, anche se in quest'ultimo campo il nostro concetto
di miglioramento consiste soprattutto nel persuadere o costringere gli altri a essere buoni
quanto noi. Non è al progresso che obiettiamo; al contrario, ci illudiamo di essere il popolo
più progressivo che sia mai esistito. È l'individualità che combattiamo: se riuscissimo a
renderci tutti uguali penseremmo di aver fatto meraviglie, dimenticando che la differenza
tra due persone è generalmente il primo elemento che richiama l'attenzione di entrambe
alla propria imperfezione e all'altrui superiorità, o alla possibilità di produrre qualcosa
migliore di entrambe combinando i meriti rispettivi. Ci ammonisca l'esempio della Cina –
nazione di grande talento e, sotto certi aspetti, persino di grande saggezza, che ha avuto la
rara fortuna di ricevere all'inizio della sua storia un complesso di usanze e consuetudini
particolarmente buone, opera in una certa misura di uomini cui anche gli europei più
illuminati devono concedere, pur entro certi limiti, il primato nella saggezza e nella
filosofia. Colpisce inoltre la qualità e l'efficacia del meccanismo usato dai cinesi per
trasmettere, nella misura del possibile, la loro migliore cultura a tutti i membri della
comunità, e far sì che coloro che più ne erano imbevuti ricoprissero le cariche più
importanti. Ci si sarebbe aspettati che la Cina scoprisse il segreto del progresso umano e si
mantenesse costantemente alla testa del movimento di innovazione mondiale. Invece,
sono diventati statici – lo sono rimasti per migliaia d'anni, e se mai riusciranno a
migliorare, dovrà essere ad opera di stranieri. Sono riusciti al di là di ogni aspettativa in
ciò a cui tendono così industriosamente i filantropi inglesi – a formare un popolo tutto
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uguale, i cui pensieri e le cui azioni sono guidati dalle stesse massime e norme: ed eccone i
risultati. Il moderno dominio della pubblica opinione è, in forma disorganizzata, ciò che il
sistema educativo e politico cinese è in forma organizzata; e se l'individualità non riuscirà
a farsi valere contro questo giogo, l'Europa, nonostante il suo nobile passato e il suo
proclamato Cristianesimo, tenderà a diventare un'altra Cina. Che cosa ha finora
risparmiato all'Europa questa sorte? Che cosa ha reso le nazioni europee un settore
dell'umanità che si evolve e non resta statico? Nessuna loro intrinseca superiorità – che,
quando esiste, è un effetto e non una causa –, ma piuttosto la notevole diversità di caratteri
e culture. Individui, classi e nazioni sono stati estremamente diversi gli uni dagli altri:
hanno tracciato una gran quantità di vie, che portavano tutte a qualcosa di valido; e anche
se in ogni epoca chi percorreva vie diverse non tollerava gli altri, e avrebbe giudicato
ottima cosa costringerli tutti a seguire la sua strada, i tentativi reciproci di impedire il
progresso altrui hanno raramente avuto un successo definitivo, e a lungo andare tutti
hanno avuto la possibilità di recepire i risultati positivi altrui. A mio giudizio, l'Europa
deve a questa pluralità di percorsi tutto il suo sviluppo progressivo e multiforme; ma è
una dote che si sta già riducendo in misura considerevole. L'Europa sta decisamente
avanzando verso l'ideale cinese di rendere tutti gli uomini uguali. Il signor de Tocqueville,
nella sua ultima importante opera, osserva che i francesi di oggi si rassomigliano molto di
più di quelli anche solo della generazione precedente. Un inglese potrebbe dire lo stesso, e
a molto maggior ragione. In un passo già citato, Wilhelm von Humboldt indica due
condizioni necessarie allo sviluppo umano – perché necessarie per differenziare gli uomini
–, la libertà e la varietà di situazioni. In questo paese, la seconda condizione svanisce ogni
giorno di più. Le circostanze in cui vivono classi e individui diversi, e che ne formano i
caratteri, diventano di giorno in giorno più simili. Una volta, strati sociali, comunità locali,
mestieri e professioni diversi vivevano in quelli che potevano essere definiti mondi
diversi; oggi il mondo è in buona misura lo stesso per tutti. Relativamente parlando, oggi
la gente legge le stesse cose, ascolta le stesse cose, vede le stesse cose, va negli stessi posti,
spera e teme le stesse cose, ha le stesse libertà, gli stessi diritti, e le stesse possibilità di farli
valere. Per quanto siano grandi le differenze che ancora sussistono tra gli uomini, non
sono nulla in confronto a quelle che sono scomparse. E il processo di assimilazione
continua: lo favoriscono tutti i mutamenti politici di questo periodo, che tendono senza
eccezione a innalzare chi sta in basso e viceversa. Lo favorisce ogni estensione
dell'istruzione, perché essa sottopone tutti a influenze comuni e li pone in contatto con il
complesso delle conoscenze e dei sentimenti generali. Lo favorisce il miglioramento delle
comunicazioni, che pone in contatto gli abitanti di località distanti tra loro e incoraggia
rapidi e frequenti spostamenti di residenza da un posto all'altro. Lo favorisce l'espansione
del commercio e dell'industria manifatturiera, che diffonde sempre più ampiamente i
benefici materiali e offre alla competizione generale anche i più elevati oggetti di
ambizione, per cui il desiderio di ascendere nella società non caratterizza più una classe
particolare, ma tutte. Un fattore che ancor più di questi appena elencati favorisce la
generale somiglianza degli uomini è l'influenza, ormai consolidata in questo e altri paesi
dell'opinione pubblica sullo Stato. Col graduale livellamento delle varie distinzioni sociali
che permettevano a chi si barricava dietro di esse di ignorare l'opinione delle masse; con la
progressiva sparizione dalle menti degli uomini politici dell'idea stessa di opporsi alla
volontà pubblica, nei casi in cui la si conosca con certezza, il nonconformismo perde
qualsiasi sostegno sociale. Scompare cioè qualsiasi consistente potere sociale che, essendo
di per se stesso contrario al dominio della massa, sia interessato ad assumersi la
protezione di opinioni e tendenze diverse da quelle del grande pubblico. La combinazione
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di queste cause forma una tale massa di influenze ostili all'individualità che è difficile
immaginare come essa riuscirà a sopravvivere. Incontrerà difficoltà sempre maggiori se
non si riesce a farne comprendere il valore alla parte più intelligente del pubblico – a fargli
capire che la diversità è positiva, anche se non è sempre migliore e talvolta può sembrare
peggiore di ciò che è comunemente accettato. Se i diritti dell'individualità devono essere
fatti valere, questo è il momento, quando manca ancora molto perché l'assimilazione
forzata sia completa. È solo resistendo fin dall'inizio che si possono sconfiggere gli abusi.
La pretesa che tutti si rassomiglino cresce quanto più la si nutre: se si aspetta a resistere
fino a quando la vita non sarà quasi completamente ridotta a un tipo uniforme, ogni
deviazione da esso finirà coll'essere considerata empia, immorale, persino mostruosa e
contro natura. Gli uomini diventano rapidamente incapaci di concepire la diversità
quando per qualche tempo si sono disabituati a vederla.

IV - DEI LIMITI ALL'AUTORITA' DELLA SOCIETA' SULL'INDIVIDUO

Qual è allora il giusto limite alla sovranità dell'individuo su se stesso? Dove comincia
l'autorità della società? Quanto della vita umana spetta all'individualità e quanto alla
società? Ciascuna riceverà la parte che le spetta se le viene attribuito ciò che la riguarda
più direttamente. All'individualità dovrebbe appartenere la sfera che interessa
principalmente l'individuo; alla società, quella che interessa principalmente la società.
Anche se la società non si fonda su un contratto, e sarebbe inutile inventarne uno per
dedurne degli obblighi sociali, chiunque riceva la sua protezione deve ripagare il
beneficio, e il fatto di vivere in società rende indispensabile che ciascuno sia obbligato a
osservare una certa linea di condotta nei confronti degli altri. Questa condotta consiste, in
primo luogo, nel non danneggiare gli interessi reciproci, o meglio certi interessi che, per
esplicita disposizione di legge o per tacito accordo, dovrebbero essere considerati diritti; e,
secondo, nel sostenere la propria parte (da determinarsi in base a principi equi) di fatiche e
sacrifici necessari per difendere la società o i suoi membri da danni e molestie. La società
ha il diritto di far valere a tutti i costi queste condizioni nei confronti di coloro che tentano
di non adempiervi. Né questo è tutto ciò che la società può fare. Gli atti di un individuo
possono arrecare danno ad altri o non tenere in giusta considerazione il loro benessere,
senza giungere al punto di violare alcuno dei loro diritti costituiti. In questo caso il
colpevole può essere giustamente condannato dall'opinione, ma non dalla legge. Non
appena qualsiasi aspetto della condotta di un individuo diventa pregiudiziale degli
interessi altrui, ricade sotto la giurisdizione della società, e ci si può chiedere se questa
interferenza giovi o meno al benessere generale. Ma tale questione non si pone in alcun
modo quando la condotta di un individuo coinvolge soltanto i suoi interessi, o coinvolge
quelli di altre persone consenzienti (tutti essendo maggiorenni e dotati di normali facoltà
mentali). In tutti questi casi, vi dovrebbe essere piena libertà, legale e sociale, di compiere
l'atto e subirne le conseguenze. Sarebbe un grave malinteso supporre che si tratti di una
dottrina ispirata a egoistica indifferenza, secondo la quale la vita di ciascuno non è affare
degli altri e gli uomini non devono preoccuparsi del benessere reciproco, a meno che non
vi siano coinvolti i loro interessi. Al contrario, gli sforzi disinteressati per il bene altrui non
vanno diminuiti, ma grandemente aumentati. Ma la benevolenza disinteressata può
persuadere gli uomini a compiere il proprio bene senza far uso di sferze o flagelli, letterali
o metaforici che siano. Sono l'ultimo a sottovalutare le virtù verso se stessi: per importanza
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sono seconde, se lo sono, soltanto a quelle sociali. Tocca all'educazione coltivarle
entrambe: ma anche l'educazione opera con la convinzione e la persuasione oltre che con
la costrizione, e solo mediante le prime due, finito il periodo educativo dovrebbero essere
insegnate le virtù verso se stessi. Gli uomini hanno il dovere reciproco di aiutarsi a
distinguere il bene dal male, e incoraggiarsi a scegliere il primo e evitare il secondo.
Dovrebbero sempre stimolarsi vicendevolmente a esercitare maggiormente le facoltà più
elevate e a dirigere sentimenti e azioni verso scopi e pensieri saggi e non insensati,
nobilitanti e non degradanti. Ma nessuno, e nessun gruppo, è autorizzato a dire a un
adulto che per il suo bene non può fare della sua vita quel che sceglie di farne. Ciascuno è
la persona maggiormente interessata al proprio benessere; L'interesse che chiunque altro
può avervi, salvo che in casi di profondi legami personali, è minimo in confronto al suo;
L'interesse che la società ha per lui in quanto individuo (cioè eccezion fatta per la sua
condotta verso gli altri) è scarsissimo e del tutto indiretto, e inoltre l'uomo o la donna più
ordinari hanno mezzi di conoscere i propri sentimenti e la propria condizione
incommensurabilmente superiori a quelli di cui può disporre chiunque altro.
L'interferenza della società in ciò che riguarda solo l'individuo al fine di prevaricarne
giudizio e intenzioni, si fonda per forza su presupposizioni generiche, che possono essere
completamente sbagliate, e che, anche se giuste, hanno buone probabilità di essere
applicate erroneamente ai casi specifici da persone che non ne conoscono le circostanze né
più né meno di qualunque altro osservatore esterno. È quindi in questo settore delle
attività umane che l'individualità trova il suo giusto campo d'azione. Nel comportamento
reciproco degli uomini, è necessario che le norme generali vengano sostanzialmente
rispettate, perché gli altri sappiano che cosa aspettarsi da una determinata situazione; ma,
nelle questioni che riguardano solo il singolo, la spontaneità individuale di ciascuno ha
diritto a esercitarsi liberamente. Gli altri possono proporgli, o persino imporgli, delle
considerazioni che lo aiutino nel giudizio, o delle esortazioni che ne rafforzino la volontà;
ma è lui il giudice ultimo. Tutti gli errori che può commettere ignorando consigli e
ammonimenti saranno un male infinitamente inferiore a quello di lasciarsi costringere da
altri a fare ciò che essi ritengono il suo bene. Non voglio dire che i sentimenti con cui gli
altri considerano una persona non debbano essere influenzati in alcun modo dal suo
comportamento nella sfera di azioni che riguardano solo lui stesso. Non è possibile, né
auspicabile. Se la persona è ricca di qualità che favoriscono il suo benessere, è degna
d'ammirazione perché è più vicina alla perfezione ideale della natura umana. Se ne è
grossolanamente carente, provocherà un sentimento opposto all'ammirazione. Vi è un
certo livello di follia, e un livello di ciò che può essere chiamato (anche se la terminologia
presta il fianco a obiezioni) bassezza o depravazione di gusti, che, anche se non può
giustificare che si nuoccia alla persona che lo manifesta, la rende inevitabilmente e
giustamente oggetto di disgusto o, in casi estremi, persino di disprezzo: chi non provasse
questi sentimenti non avrebbe le qualità opposte in misura sufficiente. Pur non facendo
torto a nessuno, una persona può comportarsi in modo da costringerci a giudicarla uno
stupido o un essere inferiore, e a provare nei suoi confronti un certo tipo di sentimenti.
Poiché la persona non li gradirebbe, le rendiamo un favore avvertendola in anticipo di
questa e di ogni altra conseguenza spiacevole cui si espone col suo comportamento.
Sarebbe in effetti opportuno che questo tipo di servigio fosse molto più frequente di
quanto non permetta la normale buona educazione, e che si potesse onestamente far
notare a chiunque che secondo noi sta sbagliando senza essere considerati maleducati o
presuntuosi. Abbiamo inoltre diritto, sotto varie forme, ad agire in base alla nostra
opinione negativa di qualcuno, non per opprimerne l'individualità, ma esercitando la
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nostra. Per esempio, non siamo obbligati a cercare la sua compagnia; abbiamo il diritto di
evitarlo (non però ostentatamente), perché è nostro diritto scegliere la compagnia che più
ci piace. Abbiamo il diritto, e può essere nostro dovere, di mettere altre persone in guardia
contro di lui, se pensiamo che il suo esempio o la sua conversazione possano avere effetti
dannosi su chi lo frequenta. Possiamo fare favori – che non siano obbligatori – ad altri
invece che a lui, a cui invece dobbiamo quelli che possono migliorarlo. Con queste svariate
modalità si può punire molto severamente un individuo per colpe che direttamente
riguardano soltanto lui; egli però subisce gli effetti di queste punizioni solo nella misura in
cui sono le conseguenze naturali, e per così dire spontanee, delle sue colpe, non perché gli
vengano inflitte espressamente per punirlo. Una persona sconsiderata, ostinata,
presuntuosa; che non può vivere senza grandi ricchezze; che è incapace di autocontrollo;
che persegue piaceri da animale ai danni di quelli morali e intellettuali, deve aspettarsi di
perdere la stima altrui e di essere considerata con sentimenti meno favorevoli, ma non ha
diritto di lamentarsene, a meno che non abbia dei meriti sociali e quindi abbia diritto a una
speciale considerazione, non intaccata dai suoi demeriti verso se stesso. La mia tesi è che le
sole sanzioni a cui un individuo può essere legittimamente sottoposto per quella parte
della sua condotta e del suo carattere che lo riguarda esclusivamente e non tocca gli
interessi di chi abbia rapporti con lui, sono quelle strettamente inscindibili dal giudizio
sfavorevole altrui. Gli atti che danneggino altre persone vanno trattati in modo
completamente diverso. Violare i diritti altrui, causare agli altri danni o perdite non
giustificati dai propri diritti, ingannarli con falsità e doppiezze, approfittare ingiustamente
o ingenerosamente di loro, anche evitare egoisticamente di difenderli: sono tutte azioni
che meritano la riprovazione morale e, nei casi più gravi, il castigo. E non solo gli atti, ma
anche le inclinazioni che li provocano sono realmente immorali e meritano la
disapprovazione, che può giungere all'abominio. La crudeltà d'animo, la malizia e il
malanimo, la passione più antisociale e odiosa, l'invidia, la dissimulazione e l'insincerità,
l'irascibilità per motivi insufficienti, il risentimento sproporzionato alla causa, la passione
del dispotismo, il desiderio di accaparrarsi più di quanto si meriti (la pleonexía dei greci),
l'orgoglio che si soddisfa nell'avvilimento altrui, l'egoismo che considera i propri interessi
più importanti di qualsiasi altra cosa, e decide tutte le questioni dubbie a proprio favore:
questi sono vizi morali, elementi malvagi e odiosi del carattere, diversi in questo dalle
colpe verso di sé menzionate più sopra, che non sono immoralità in senso stretto e che, per
quanto portate all'estremo, non costituiscono malvagità. Possono essere segni della più
completa follia, o mancanza di dignità e di rispetto di sé, ma sono passibili di riprovazione
morale solo quando implicano un'infrazione al dovere, che ciascuno ha nei confronti degli
altri, di badare a se stesso. I cosiddetti doveri verso di sé non sono socialmente obbligatori,
a meno che le circostanze non li rendano contemporaneamente doveri verso gli altri. Il
termine "dovere verso se stessi", quando non significa semplicemente "prudenza", significa
o rispetto di sé o sviluppo di sé, entrambe cose di cui nessuno deve rendere conto ai suoi
simili, perché non coinvolgono gli interessi dell'umanità. La distinzione tra la perdita
dell'altrui stima, in cui si può giustamente incorrere per mancanza di prudenza o dignità
personale, e la riprovazione che si merita se si ledono i diritti altrui, non è puramente
nominale. Fa molta differenza, nei termini sia dell'atteggiamento che del comportamento
che teniamo nei suoi confronti, che qualcuno ci offenda in qualcosa che riteniamo di avere
il diritto di controllare o invece in qualcosa in cui sappiamo di non averlo. Se la persona ci
infastidisce, possiamo esprimerle la nostra antipatia, ed evitarla, come evitiamo tutto ciò
che ci infastidisce; ma non ci sentiremo in obbligo di rovinarle l'esistenza. Terremo in
considerazione il fatto che sconta già, o sconterà, tutti i suoi errori; proprio perché si
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rovina da sola la vita, sprecandola, non desidereremo rovinargliela ulteriormente: invece
di punirla, cercheremo piuttosto di alleviarle la punizione mostrandole come evitare o
rimediare ai mali che la sua condotta tende a causarle. Nei suoi confronti possiamo
provare pietà, forse antipatia, ma non ira o risentimento. Non la tratteremo come un
nemico della società; al massimo ci riterremo giustificati ad abbandonarla a se stessa, ma
potremmo interferire benevolmente mostrando interesse o preoccupazione per lei. Ben
altrimenti accade se un individuo ha violato le norme necessarie alla protezione,
individuale o collettiva, dei suoi simili. Le conseguenze negative dei suoi atti non ricadono
allora su di lui, ma sugli altri; e la società, in quanto protettrice di tutti i suoi membri, deve
rifarsi su di lui, deve farlo soffrire all'esplicito scopo di punirlo, e deve assicurarsi che la
punizione sia sufficientemente severa. In un caso l'individuo è imputato di fronte al nostro
tribunale, e siamo chiamati non solo a giudicarlo ma anche, in un modo o nell'altro, a
eseguire la nostra sentenza; nell'altro, non è nostro compito infliggergli sofferenze, salvo
quelle che possono incidentalmente derivare dal nostro esercizio, nella condotta dei nostri
affari, della stessa libertà che consentiamo a lui nei suoi. Molti rifiuteranno questa
distinzione tra la parte della vita di un uomo che riguarda soltanto lui e quella che
riguarda gli altri. Come può (si potrebbe domandare) essere indifferente agli altri un
qualsiasi aspetto del comportamento di un membro della società? Nessuno è
completamente isolato; è impossibile arrecare un danno serio o permanente a se stessi
senza che il male si estenda almeno fino a chi ci è più vicino, e spesso molto oltre. Se un
uomo lede le sue proprietà, danneggia chi direttamente o indirettamente ne traeva
sostentamento, e generalmente diminuisce in maggiore o minore misura le risorse
complessive della comunità. Se deteriora le sue facoltà fisiche o mentali, non solo fa del
male a coloro la cui felicità dipendeva, in misura minore o maggiore, da lui, ma si pone
nell'incapacità di rendere i servigi di cui è in generale debitore ai suoi simili, e talvolta
diventa un peso per il loro affetto e la loro benevolenza. Se questo comportamento fosse
molto frequente, sarebbe più rovinoso per il bene comune di quasi ogni altro crimine
possibile. Infine (si potrebbe dire), anche se una persona non danneggia direttamente altri
con i suoi vizi o follie, tuttavia è dannosa con l'esempio, e dovrebbe essere costretta a
controllarsi per il bene di chi potrebbe essere corrotto o ingannato dall'osservazione,
diretta o indiretta, della sua condotta. E (si potrebbe aggiungere), anche se le conseguenze
del comportamento di un individuo vizioso o sconsiderato potessero venire limitate a lui,
può la società abbandonare a se stessi coloro che non sono manifestamente in grado di
badarsi? Se, per ammissione comune, i bambini e i minori vanno protetti da se stessi, la
società non è forse ugualmente obbligata a proteggere adulti che sono ugualmente
incapaci di controllarsi? Se il gioco d'azzardo, l'ubriachezza, l'incontinenza, la pigrizia o la
sporcizia sono altrettanto nocivi alla felicità e contrari al progresso che la maggior parte
degli atti vietati dalla legge, perché (ci si potrebbe chiedere) la legge non dovrebbe cercare
di reprimerli, nella misura in cui ciò è possibile e socialmente utile? E, per supplire alle
inevitabili imperfezioni della legge, non dovrebbe l'opinione pubblica almeno organizzare
una poderosa polizia contro questi vizi e colpire con rigide pene sociali coloro che
notoriamente li praticano? Qui non si tratta (si potrebbe asserire) di reprimere
l'individualità o di impedire che vengano tentati nuovi e originali esperimenti di vita. Le
sole cose che si cerca di impedire sono state giudicate e condannate dall'alba del mondo ai
nostri giorni – e l'esperienza le ha dimostrate inutili o dannose per l'individualità di
chiunque. Ci deve essere un periodo – espresso in termini di tempo o di quantità di
esperienze – trascorso il quale una verità morale o pratica può essere data per acquisita: e
ciò al solo scopo di impedire a generazione dopo generazione di precipitare nello stesso
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baratro che è stato fatale a quelle che l'hanno preceduta. Ammetto incondizionatamente
che il male fatto a noi stessi può colpire gravemente, sia negli affetti sia negli interessi, le
persone che ci sono strettamente legate e, in misura minore, la società in generale. Quando
una condotta di questo tipo porta a violare un impegno distinto e preciso verso una o più
persone, il caso non è classificabile come danno verso se stessi e diventa passibile di
disapprovazione morale in senso stretto. Se per esempio un uomo, per intemperanza o
stravaganza, diventa insolvente, o, avendo assunto la responsabilità morale di una
famiglia, diventa per cause analoghe incapace di mantenerla o di educarla, viene
meritatamente riprovato e può essere giustamente punito; ma per l'inadempienza al
dovere verso la famiglia o i creditori, non per la stravaganza. Se le risorse loro destinate
fossero state loro negate per essere investite nel modo più oculato possibile, la
colpevolezza morale sarebbe stata identica. George Barnwell ammazzò suo zio per dare
dei soldi alla sua amante, ma se l'avesse ucciso per iniziare un'attività commerciale
sarebbe stato ugualmente impiccato. Ancora, nel caso frequente di uomini che causano
dolore alle loro famiglie per le loro cattive abitudini, essi meritano rimprovero perché sono
crudeli o ingrati; ma potrebbero meritarne altrettanto coltivando abitudini di per sé non
viziose, che pure fanno soffrire coloro con cui vivono, o chi per legami personali dipende
da loro per il proprio benessere. Chiunque non tenga nella considerazione che
generalmente è loro dovuta gli interessi e i sentimenti altrui, senza essere costretto a ciò da
un dovere più alto o giustificato da un'ammissibile preferenza per sé, è degno di
disapprovazione morale per questo comportamento, ma non per le sue cause né per gli
errori che possono averlo indirettamente provocato, e che riguardano solo lui.
Analogamente, chi con il suo comportamento verso di sé si renda incapace di compiere un
preciso dovere verso il pubblico è colpevole di un reato sociale. Nessuno dovrebbe essere
punito semplicemente perché è ubriaco; ma un soldato o un poliziotto dovrebbero essere
puniti per ubriachezza in servizio. In breve, in presenza di un preciso danno, o di un
preciso rischio di danno, per il pubblico o per un individuo, il caso esula dalla sfera della
libertà e rientra in quella della moralità o della legge. Ma, per quanto concerne il danno
puramente contingente o, come lo si può chiamare, costruttivo che un individuo causa alla
società con una condotta che non infranga alcun dovere specifico verso il pubblico, né leda
percettibilmente alcuna persona precisa salvo l'individuo stesso, si tratta di un fastidio che
la società può permettersi di sopportare, negli interessi di un bene maggiore, la libertà
umana. Se degli adulti devono proprio essere puniti perché non si occupano abbastanza
bene di se stessi, preferirei che lo fossero per il loro bene, non con il pretesto di impedire
loro di danneggiare le proprie facoltà o con la scusa di rendere alla società benefici cui essa
non pretende di aver diritto. Ma non posso consentire a una discussione in cui si dà per
scontato che la società non avrebbe mezzo alcuno di elevare i suoi membri più deboli al
livello normale di condotta razionale, salvo quello di aspettare che commettano qualcosa
di irrazionale e poi punirli, legalmente o moralmente. La società ha avuto potere assoluto
su di essi durante tutta la prima parte della loro esistenza: ha avuto tutto il periodo
dell'infanzia e dell'adolescenza per cercare di renderli capaci di condurre razionalmente la
propria vita. La generazione di oggi è signora e padrona sia dell'educazione sia di tutte le
condizioni di vita della generazione di domani: in effetti, non può farla diventare
perfettamente saggia e buona, perché è essa stessa così deplorevolmente priva di saggezza
e bontà; e, in certi casi, i suoi maggiori sforzi non sempre sono i più riusciti; ma nel
complesso è perfettamente in grado di formare una nuova generazione altrettanto buona,
anzi un poco migliore. Se la società lascia che un numero considerevole dei suoi membri,
pur crescendo fisicamente, resti bambino e incapace di essere influenzato dalla
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considerazione razionale di motivi non immediatamente percepibili, può incolpare solo se
stessa. Ha a disposizione non solo tutti i poteri dell'educazione, ma anche il predominio
che l'autorità di un'opinione comune esercita sempre sulle menti meno in grado di
giudicare da sole, e inoltre è aiutata dalle punizioni naturali che non possono non
abbattersi su coloro che incorrono nel disgusto o nel disprezzo del prossimo: che la società
non pretenda di aver bisogno, oltre che di questo armamentario, anche del potere di
emanare e far rispettare ordini riguardanti questioni personali dei singoli, le quali, stando
a qualsiasi principio legale o politico, andrebbero decise da chi deve sopportarne le
conseguenze. E niente scredita e frustra i migliori metodi di influire sulla condotta umana
più del ricorso ai peggiori. Se tra coloro che la società cerca di costringere alla prudenza e
alla temperanza vi è qualcuno della stoffa di cui sono fatti i caratteri indipendenti e
vigorosi, si ribellerà infallibilmente al giogo. Nessuna persona del genere penserà mai che
gli altri hanno diritto di controllarlo nei suoi affari, come invece lo hanno di impedirgli di
disturbare i loro; perciò, sfidare questa autorità usurpata, facendo ostentatamente l'esatto
contrario di ciò che comanda, come accadde all'epoca di Carlo II con la moda della
volgarità che subentrò alla fanatica intolleranza morale dei puritani, finisce facilmente
coll'essere considerato segno di uno spirito coraggioso. Quanto alla necessità, menzionata
in precedenza, di proteggere la società dal cattivo esempio dato dai viziosi o da chi è
troppo indulgente con se stesso, è vero che il cattivo esempio può avere effetti dannosi,
specialmente nel caso di chi faccia un torto ad altri e resti impunito. Ma qui stiamo
parlando di comportamenti che, mentre non danneggiano gli altri, si presume siano
gravemente dannosi a chi li tiene; e non vedo come coloro che li ritengono tali possano
non pensare che, nel complesso, l'esempio finisce coll'essere più salutare che dannoso,
poiché mostra il comportamento ma anche le sue conseguenze, che, se lo si biasima a
ragione, si devono supporre nella maggior parte dei casi penose o degradanti. Ma
l'argomento più forte contro l'interferenza del pubblico nella condotta puramente
individuale è che, quando si verifica, si verifica con ogni probabilità sia nei modi sbagliati
che nel posto sbagliato. Nelle questioni di moralità sociale, di doveri nei confronti degli
altri, L'opinione del pubblico, cioè della stragrande maggioranza, è più spesso giusta che
sbagliata, poiché si tratta soltanto di giudicare sui propri interessi, su come verrebbero
coinvolti da un dato comportamento, se venisse consentito. Ma l'opinione di una simile
maggioranza, imposta come legge a una minoranza, in questioni di condotta strettamente
individuale ha uguali probabilità di essere giusta o sbagliata, perché nel migliore di questi
casi opinione pubblica significa l'opinione di alcuni su che cosa sia bene o male per altri, e
molto spesso non significa neanche questo – il pubblico, con la più perfetta indifferenza,
ignora i sentimenti o le esigenze di coloro di cui biasima la condotta, e pensa solo alla
propria preferenza. Molti considerano lesiva dei propri interessi qualsiasi condotta che
loro dispiaccia, e se ne risentono come di un oltraggio ai loro sentimenti; simili a quel
bigotto che, accusato di disprezzare i sentimenti religiosi degli altri, ha ribattuto che sono
loro a disprezzare i suoi persistendo nel loro abominevole culto o credo. Ma non sono
sullo stesso piano ciò che uno pensa della propria opinione e ciò che ne pensa un altro che
la considera un'offesa, come non lo sono il desiderio di un ladro di rubare una borsa e il
desiderio del legittimo proprietario di tenersela. E i gusti di un individuo sono una sua
questione personale, quanto la sua opinione o la sua borsa. È facile immaginare un
pubblico ideale che lasci indisturbata la libertà e la scelta individuale in tutte le questioni
dubbie, e si limiti a chiedere agli individui di evitare comportamenti che l'esperienza
universale ha condannato. Ma dove si è mai visto un pubblico che imponesse limiti del
genere alla propria facoltà di censura? O quando mai il pubblico si preoccupa
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dell'esperienza universale? Nelle sue interferenze con la condotta individuale pensa
raramente ad altro che alla mostruosità di agire o pensare diversamente da lui; e questo
criterio di giudizio, lievemente camuffato, viene presentato agli uomini come il dettame
della religione e della filosofia dai nove decimi dei moralisti e pensatori, i quali insegnano
che le cose sono giuste perché sono giuste; perché sentiamo che lo sono. Ci dicono di
cercare nelle nostre menti e nei nostri cuori le norme di condotta per noi e per tutti gli altri.
Cos'altro può fare chi è parte del pubblico, se non seguire le istruzioni e rendere le proprie
concezioni personali del bene e del male, se sono tollerabilmente unanimi, obbligatorie per
tutto il mondo? Questo male non esiste soltanto in teoria; e ci si potrebbe forse aspettare
che io specifichi i casi in cui il pubblico contemporaneo del nostro paese conferisce
impropriamente veste legale alle sue preferenze. Non sto scrivendo un saggio sulle
aberrazioni dell'odierno sentimento morale: è un argomento troppo vasto per discuterlo
incidentalmente, a fini illustrativi. Tuttavia si rendono necessari degli esempi per
dimostrare che il principio da me affermato è di notevole importanza pratica, e che non sto
cercando di erigere difese contro mali immaginari. E non è difficile dimostrare, con
abbondanza di esempi, che l'ampliamento del raggio d'azione di quella che può essere
chiamata polizia morale fino a farle ledere la libertà individuale più indiscutibilmente
legittima è una delle più universali propensioni umane. Consideriamo come primo caso le
antipatie nei confronti di coloro la cui sola colpa è che, avendo opinioni religiose diverse
dalle nostre, non praticano le nostre osservanze religiose, in particolare le astinenze. Per
citare un esempio alquanto banale, ciò che più eccita l'odio dei musulmani nei confronti
della fede e della pratica cristiane è il fatto che i cristiani mangiano carne di maiale. Pochi
sono gli atti per cui cristiani e europei provano un disgusto più sincero di quello dei
musulmani per questo particolare modo di sfamarsi. Innanzitutto è una trasgressione alla
loro religione, ma ciò non spiega affatto la violenza o il tipo della loro ripugnanza; infatti
anche il vino è loro vietato dalla religione, e tutti i musulmani considerano il bere
peccaminoso, ma non disgustoso. La loro avversione per la carne della "bestia immonda" è
al contrario analoga a quella dell'antipatia istintiva che l'idea di sporcizia, una volta che sia
stata profondamente assimilata, sembra sempre suscitare anche in persone le cui abitudini
sono tutt'altro che scrupolosamente pulite, e di cui è notevole esempio il sentimento
dell'impurità religiosa, così forte negli indù. Supponiamo ora che in un popolo a
maggioranza maomettana venga proibito a tutti di mangiare carne di maiale entro i
confini del paese: non sarebbe una novità per i paesi musulmani . Si tratterebbe di un
esercizio legittimo dell'autorità morale della pubblica opinione, oppure sarebbe illegittimo,
e perché? Per questa gente la pratica è davvero rivoltante: e inoltre pensano sinceramente
che sia vietata e aborrita dalla Divinità. Né questa proibizione potrebbe essere condannata
in quanto persecuzione religiosa: potrà avere origini religiose, ma non è una persecuzione,
perché non c'è religione che comandi di mangiare carne di maiale. La sola base difendibile
su cui condannarla sarebbe che il pubblico non ha diritto di interferire nei gusti personali e
nelle questioni strettamente individuali. Per venire più vicino a noi: la maggioranza degli
spagnoli considera grossolanamente empio, massimamente ingiurioso dell'Essere
Supremo, adorarlo in modo diverso da quello cattolico romano; e in Spagna ogni altro
culto pubblico è vietato. I popoli di tutta l'Europa meridionale considerano un clero che
non pratica il celibato non soltanto irreligioso, ma impuro, indecente, volgare e disgustoso.
Che cosa pensano i protestanti di questi sentimenti perfettamente sinceri, e del tentativo di
farli rispettare anche da chi non è cattolico? E tuttavia, se gli uomini possono
giustificatamente interferire nella loro reciproca libertà anche in questioni che non
riguardano gli interessi altrui, in base a quale principio si possono coerentemente
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escludere questi casi? O chi può biasimare gente che desidera sopprimere ciò che
considera uno scandalo al cospetto di Dio e degli uomini? Gli argomenti a favore della
proibizione di tutto ciò che è considerato immoralità individuale sono identici a quelli
usati per giustificare la soppressione di certe pratiche religiose da coloro che le
considerano empie; e, a meno che non vogliamo adottare la logica dei persecutori, e
sostenere che dobbiamo perseguitare altre persone perché abbiamo ragione, mentre loro
non devono perseguitare noi perché hanno torto, dobbiamo guardarci dall'ammettere un
principio la cui applicazione nei nostri confronti considereremmo grossolanamente
ingiusta. Si potrebbe obiettare, anche se a torto, che i casi precedenti si riferiscono a
situazioni impossibili tra noi, dato che non è probabile che l'opinione di questo paese
costringa tutti a non mangiare carne o interferisca nella libertà della gente di praticare un
culto, e di sposarsi o di non sposarsi a seconda delle proprie fedi o inclinazioni. Il
prossimo esempio tuttavia si riferisce a una interferenza nella libertà che costituisce un
pericolo ancora attuale. In ogni situazione in cui sono stati sufficientemente potenti – per
esempio nella Nuova Inghilterra o in Gran Bretagna ai tempi di Cromwell –, i puritani
hanno cercato, con considerevole successo, di sopprimere tutti i divertimenti pubblici e
quasi tutti quelli privati: in particolare la musica, la danza, i giochi pubblici o le altre
riunioni a fini ricreativi, e il teatro. Ancor oggi vi sono in questo paese vasti gruppi i cui
ideali morali e religiosi condannano questi svaghi; e dato che queste persone
appartengono soprattutto alla classe media, che nelle attuali condizioni politiche e sociali
del Regno costituisce il potere dominante, non è affatto impossibile che prima o poi
ottengano la maggioranza in parlamento. Al resto della comunità farà piacere che quegli
svaghi che gli saranno consentiti siano regolamentati dai sentimenti morali e religiosi dei
calvinisti e metodisti più severi? Non auspicherà, in modo alquanto perentorio, che questi
pii e invadenti membri della società badino ai fatti propri? È esattamente quel che si
dovrebbe dire a qualsiasi governo o pubblico che pretendono che nessuno si diverta in un
modo da loro ritenuto sbagliato. Ma se in linea di principio si ammette questa pretesa, non
si può ragionevolmente chiedere che non venga attuata secondo i voleri della
maggioranza, o comunque di chi detiene il potere in un dato paese; e dobbiamo essere
pronti a conformarci alla concezione di comunità cristiana che avevano i primi coloni della
Nuova Inghilterra, nel caso che una confessione religiosa simile alla loro riesca a
riguadagnare il terreno perduto, come hanno spesso fatto religioni che erano ritenute in
declino. Immaginiamo un'altra situazione, forse più probabile di quest'ultima. Tutti
concordano nell'affermare che il mondo moderno presenta una forte tendenza verso una
costituzione democratica della società, accompagnata o meno da istituzioni politiche
popolari. Si afferma anche che, nel paese in cui questa tendenza è più compiutamente
realizzata – in cui società e governo sono più democratici, cioè gli Stati Uniti –, il
sentimento della maggioranza, che non gradisce alcuna ostentazione di uno stile di vita
più brillante o costoso di quello che può sperare di emulare, funziona con discreta efficacia
da legge suntuaria, e che in molte parti dell'Unione una persona con un reddito molto
elevato trova veramente difficile spenderlo senza incorrere nella disapprovazione
popolare. Anche se affermazioni del genere sono senza dubbio molto esagerate, la
situazione da esse descritta è un risultato, non solo concepibile e possibile, ma probabile,
della combinazione del sentimento democratico con la nozione secondo cui il pubblico ha
diritto di veto sul modo in cui gli individui spendono i loro redditi. Supponiamo inoltre
che le opinioni socialiste si diffondano considerevolmente: ogni proprietà che non sia
minima o ogni reddito che non derivi dal lavoro manuale rischiano di diventare
un'infamia agli occhi della maggioranza. Opinioni in linea di principio simili a questa
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predominano già nella classe dei lavoratori manuali, e opprimono pesantemente coloro
che principalmente si riferiscono a esse – vale a dire, i membri di quella classe. È ben noto
che gli operai inefficienti che in molti rami dell'industria costituiscono la maggioranza,
sono decisamente dell'opinione che essi dovrebbero essere pagati quanto quelli efficienti, e
che a nessuno dovrebbe essere consentito, mediante il cottimo o altre forme, di
guadagnare più di altri che non sono altrettanto abili o operosi. E impiegano una polizia
morale, che talvolta diventa fisica, per far sì che gli operai più abili non ricevano una
maggiore remunerazione per un migliore servizio, e che i datori di lavoro non la
concedano. Se il pubblico ha una qualsiasi giurisdizione sulle questioni private, non vedo
perché questa gente debba avere torto, o perché si debbano criticare le persone
direttamente in rapporto con uno specifico individuo se rivendicano sulla condotta
individuale di quest'ultimo la stessa autorità che il pubblico nel suo complesso rivendica
su tutti i singoli individui. Ma, tralasciando i casi ipotetici, al giorno d'oggi si verificano
effettivamente grossolane violazioni della libertà privata, ne vengono minacciate, con
probabilità di successo, di più gravi, e viene apertamente sostenuto il diritto
incondizionato del pubblico non solo a vietare per legge tutto ciò che ritiene sbagliato, ma
a proibire, per colpire quelli che considera errori, una serie di attività che, per sua stessa
ammissione, sono innocue. Con la scusa di prevenire l'intemperanza, è stato vietato per
legge alla popolazione di una colonia inglese, e di quasi metà degli Stati Uniti, di far uso di
bevande fermentate, salvo che per fini medicinali; la proibizione della loro vendita è in
effetti, come era intesa essere, proibizione del loro uso. E anche se l'impossibilità di farla
rispettare in pratica ha fatto sì che questa legge venisse abrogata in parecchi stati che
l'avevano adottata, ivi compreso il Maine, da cui prende nome, nel nostro paese molti
filantropi dichiarati hanno iniziato, e proseguono con notevole zelo, a far propaganda in
favore dell'adozione di un provvedimento analogo. L'associazione, o "Alleanza", come si
autodefinisce, costituita a questo scopo ha ricevuto una certa notorietà in seguito alla
pubblicazione di una corrispondenza tra il suo segretario e uno dei pochissimi uomini
pubblici inglesi che ritengono che le opinioni di un politico debbano fondarsi su principî.
Le lettere di Lord Stanley aumenteranno certamente le speranze già riposte in lui da coloro
che sanno quanto siano purtroppo rare, nella vita politica, le qualità già manifestatesi in
qualche suo intervento pubblico. Il segretario dell'Alleanza, che "deplorerebbe
profondamente il riconoscimento di qualsiasi principio che potrebbe essere travisato in
modo tale da giustificare fanatismi e persecuzioni", intende ribadire la "spessa e
invalicabile barriera" che separa principi del genere da quelli dell'associazione. "Tutte le
questioni relative al pensiero, all'opinione, alla coscienza, mi sembrano", afferma, "al di
fuori della sfera della legislazione; tutto ciò che è invece attinente a atti, abitudini, rapporti
sociali – che è soggetto solo a un potere discrezionale spettante allo Stato e non
all'individuo – dentro di essa". Non viene menzionata una terza classe, diversa da
entrambe, cioè quella degli atti e delle abitudini che non sono sociali ma individuali: anche
se, sicuramente, è ad essa che appartiene l'atto di bere liquori fermentati. Tuttavia, vendere
liquori fermentati è commercio, e il commercio è un atto sociale. Ma la violazione contro
cui protestiamo non è della libertà del venditore, ma di quella del compratore e
consumatore; poiché lo Stato potrebbe benissimo vietargli di bere vino, dal momento che
gli rende espressamente impossibile ottenerlo. Tuttavia, il segretario sostiene: "Affermo,
come cittadino, il mio diritto a un intervento legislativo in ogni caso in cui i miei diritti
sociali siano violati dall'atto sociale di un altro". Ed ecco la definizione di questi "diritti
sociali": "Se c'è qualcosa che viola i miei diritti sociali è certamente il commercio di
bevande alcooliche. Distrugge il mio diritto fondamentale alla sicurezza, creando e
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stimolando costantemente il disordine sociale. Viola il mio diritto all'uguaglianza,
derivando profitto dalla creazione di un'indigenza sostentata dalle tasse che pago.
Ostacola il mio diritto a un libero sviluppo morale e intellettuale, circondando di pericoli il
mio cammino e indebolendo e demoralizzando la società da cui ho diritto di pretendere
mutuo soccorso e appoggio". Probabilmente nessuno ha mai enunciato distintamente
qualcosa di simile a questa teoria dei "diritti sociali", che equivale a quanto segue: è diritto
sociale assoluto di ciascun individuo che ciascun altro individuo si comporti sotto ogni
aspetto esattamente come dovrebbe comportarsi; inoltre, chiunque non ottemperi nei
minimi dettagli a quanto sopra viola il mio diritto sociale e mi autorizza a esigere che il
motivo della mia lagnanza venga eliminato per legge. Un principio così mostruoso è molto
più pericoloso di qualsiasi singola interferenza nella libertà; non vi è violazione della
libertà che esso non giustifichi; non riconosce alcun diritto ad alcuna libertà, salvo forse
quella di avere opinioni in segreto, senza rivelarle a nessuno poiché nell'attimo in cui
un'opinione che considero nociva viene proferita, viola tutti i "diritti sociali" che l'Alleanza
mi conferisce. La dottrina attribuisce a tutti gli uomini un interesse acquisito nella
reciproca perfezione morale, intellettuale e persino fisica, definita da ciascuno secondo i
propri criteri. Un altro importante esempio di interferenza illegittima nella giusta libertà
dell'individuo, e non semplicemente minacciata ma ormai da molto realizzata con
successo, è la legislazione riguardante le domeniche. Senza dubbio, astenersi dall'abituale
attività quotidiana nella misura in cui lo permettono le esigenze della vita, è una
consuetudine altamente benefica, anche se non è sotto alcun aspetto un obbligo religioso,
salvo che per gli ebrei. E, nella misura in cui questa consuetudine non può essere rispettata
senza il consenso generale di chi lavora, dato che se alcuni lavorano anche altri possono
trovarsi costretti a lavorare, può essere consentito e giusto che la legge garantisca
l'osservanza reciproca del riposo, sospendendo le principali attività lavorative in un dato
giorno. Ma questa giustificazione, fondata sull'interesse diretto di tutti al rispetto
dell'usanza da parte di ciascuno, non vale per le occupazioni indipendenti cui si può voler
dedicare il proprio tempo libero, né, in alcun modo, per le restrizioni legali imposte agli
svaghi. È vero che lo svago di alcuni è il lavoro di altri; ma il divertimento, per non dire
l'utile ricreazione, di molti vale la fatica di pochi, purché l'abbiano liberamente scelta. Gli
operai hanno perfettamente ragione a pensare che, se tutti lavorassero la domenica, il
lavoro di sette giorni riceverebbe il salario di sei; ma se la attività lavorative sono per la
gran maggioranza sospese, i pochi che devono continuare a lavorare per il divertimento
altrui ricevono un aumento proporzionale dei guadagni; e, se preferiscono il tempo libero
all'emolumento, non sono obbligati a svolgere quel particolare lavoro. Volendo migliorare
ulteriormente la situazione, si può stabilire per consuetudine un giorno di vacanza
settimanale per chi lavora la domenica. Quindi, le restrizioni ai divertimenti domenicali
possono giustificarsi solo sostenendo che sono contrari al dettato religioso – motivo di
legislazione, questo, contro cui non si protesterà mai abbastanza. "Deorum injuriae Diis
curae". Resta da provare che la società, o qualunque suo funzionario, ha ricevuto dall'alto
l'incarico di vendicare ogni presunta offesa all'Onnipotente che non sia anche un torto
verso i nostri simili. Il concetto secondo cui è dovere di ognuno che gli altri siano religiosi
è stato alla base di tutte le persecuzioni religiose, e, una volta accettato le giustifica
pienamente. Anche se il sentimento che traspare dai ripetuti tentativi di fermare le ferrovie
o di tenere chiusi i musei la domenica, e così via, non ha la crudeltà dei vecchi persecutori,
l'atteggiamento mentale che esso indica è fondamentalmente lo stesso. È la determinazione
a non tollerare che altri facciano ciò che è permesso dalla loro religione, perché non è
permesso da quella del persecutore. È la convinzione che Dio non solo aborre le azioni del
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miscredente, ma non ci considererà innocenti se lo lasciamo in pace. Non posso evitare di
aggiungere a questi esempi dello scarso conto in cui la libertà umana è abitualmente
tenuta, il linguaggio apertamente persecutorio cui indulge la stampa di questo paese
quando si sente investita della missione di occuparsi del fenomeno del Mormonismo.
Molto si potrebbe dire sul fatto, imprevisto e istruttivo, che centinaia di migliaia di
persone credano a una pretesa nuova rivelazione e alla religione fondata su di essa – frutto
di evidente impostura, neppure sostenuta dal prestigio o dalle straordinarie qualità del
suo fondatore –, che è diventata la base di una società, nell'epoca dei giornali, delle
ferrovie e del telegrafo. Ciò che ci interessa in questa sede è che questa religione, come
altre migliori di essa, ha i suoi martiri; che il suo profeta e fondatore fu linciato a causa dei
suoi insegnamenti; che altri suoi aderenti persero la vita a causa della stessa violenza
scatenata; che i Mormoni furono espulsi a forza, in massa, dal paese in cui erano nati, e,
ora che sono stati confinati in un rifugio solitario nel mezzo di un deserto, molti abitanti di
questo paese dichiarano apertamente che sarebbe giusto (ma è scomodo) mandare una
spedizione che li costringa a forza a uniformarsi alle opinioni altrui. L'aspetto della
dottrina mormone che maggiormente provoca avversione e scatena un'insolita
intolleranza religiosa è il permesso di praticare la poligamia; che, anche se consentita a
musulmani, indù e cinesi, sembra suscitare un'implacabile animosità se praticata da
persone che parlano inglese e si dichiarano una sorta di cristiani. Nessuno disapprova più
di me quest'istituzione mormone; tra l'altro anche perché, lungi dal rappresentare
un'espressione del principio della libertà, lo viola direttamente, poiché non fa che ribadire
le catene di una metà della comunità e emancipare l'altra dalla reciprocità dell'impegno
nei suoi confronti. Eppure, va ricordato che le donne coinvolte in questo tipo di rapporto –
che possono esserne considerate la parte lesa – l'accettano altrettanto volontariamente che
qualsiasi altra forma di matrimonio: e ciò, per quanto sembri sorprendente, trova
spiegazione nelle opinioni e nelle usanze comuni che, insegnando alle donne che il
matrimonio è la sola cosa che conti, fanno sì che molte preferiscano essere una moglie
insieme a parecchie altre piuttosto di non esserlo del tutto. Agli altri paesi non viene
chiesto di riconoscere queste unioni, né di esimere dal rispetto della legge alcun loro
cittadino a causa della sua fede mormone. Ma quando i dissenzienti hanno concesso agli
altrui sentimenti ostili ben più di quanto fosse giusto esigere da loro; quando hanno
abbandonato i paesi che rifiutavano le loro dottrine e si sono stabiliti in un remoto angolo
della terra, che hanno colonizzato e reso abitabile, è difficile comprendere in base a quali
principi, salvo quelli della tirannide, si possa loro impedire di viverci secondo le leggi che
preferiscono, purché non commettano atti di aggressione contro altre nazioni e lascino a
chi non è soddisfatto del loro modo di vivere la perfetta libertà di andarsene. Un autore
recente, e sotto certi aspetti di considerevole merito, propone (per usare le sue parole), non
una crociata, ma una civilizzata contro questa comunità poligamica per porre termine a
quello che gli pare un arretramento della civiltà. Pare anche a me, ma non mi risulta che
una comunità abbia il diritto di costringere un'altra a essere civilizzata. Purché le vittime
di una legge iniqua non invochino l'aiuto di altre comunità, non possono ammettere che
persone del tutto estranee intervengano e esigano che si ponga fine a una situazione, di cui
tutti i diretti interessati sembrano soddisfatti, perché dà scandalo a gente lontana migliaia
di miglia e senza alcun titolo o motivo per interferire. Mandino dei missionari, se ne hanno
voglia; e si oppongano con ogni mezzo leale (tra cui non è compreso ridurre al silenzio i
predicatori) al progresso di simili dottrine nel loro paese. Se la civiltà ha sconfitto la
barbarie che dominava il mondo, non è lecito professare il timore che la barbarie, dopo
essere stata largamente debellata, risorga e sconfigga la civiltà. Una civiltà che può
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soccombere in questo modo al nemico che ha già battuto in precedenza deve essere prima
arrivata a un tale punto di degenerazione, che né i suoi sacerdoti e maestri designati né
chiunque altro hanno la capacità, o la voglia, di difenderla. Se le cose stanno così, prima
una tale civiltà riceve l'ordine di andarsene meglio è: può solo continuare a peggiorare
finché (come accadde all'Impero d'Occidente) dei barbari vigorosi non la distruggano e la
rigenerino.

V - APPLICAZIONI

I principî enunciati nelle pagine precedenti devono costituire la base generale di una
discussione più particolareggiata, prima che si possa tentarne una coerente applicazione a
tutti i vari settori della politica e della morale con buone probabilità di successo. Le poche
osservazioni che mi accingo a fare su alcune questioni particolari hanno lo scopo di
illustrare i principî piuttosto che di svilupparne le conseguenze. Non presento tanto delle
applicazioni quanto degli esempi di applicazione, che possono servire a chiarire meglio
significato e limiti delle due proposizioni che insieme costituiscono l'intera dottrina
esposta in questo saggio, e a fornire dei criteri decisionali per i casi in cui si sia in dubbio
se applicare l'una o l'altra. Le proposizioni sono, in primo luogo, che l'individuo non deve
rendere conto alla società delle proprie azioni nella misura in cui esse non riguardano gli
interessi di altri che lui stesso. Se lo ritengono necessario per il bene proprio, gli altri
possono consigliare, istruire, persuadere o evitare l'individuo in questione; queste sono le
sole misure mediante le quali la società può giustificatamente esprimere la propria
avversione o disapprovazione. In secondo luogo, l'individuo deve rendere conto delle
azioni che possano pregiudicare gli interessi altrui, e può essere sottoposto a punizioni
sociali o legali se la società ritiene le une o le altre necessarie per proteggersi. Innanzitutto,
non si deve in alcun modo presumere che poiché soltanto il danno, o la probabilità di
danno, agli altrui interessi può giustificare l'interferenza della società, esso la giustifichi
sempre. In molti casi un individuo cercando di conseguire un fine legittimo, causa per
necessità, e quindi legittimamente, sofferenza o perdite ad altri, oppure si impadronisce di
un bene che altri speravano ragionevolmente di ottenere. Queste contrapposizioni tra
interessi individuali sono spesso dovute a istituzioni sociali insoddisfacenti, ma sono
inevitabili finché esistono queste ultime; e alcune sarebbero inevitabili con qualsiasi
istituzione. Chiunque abbia successo in una professione sovraffollata o in un esame
competitivo, chiunque sia preferito a un altro in una competizione per un oggetto che
entrambi desiderano, trae vantaggio dall'insuccesso di altri, dalle loro fatiche sprecate e
dalla loro delusione. Ma, per ammissione comune, è meglio per gli interessi generali
dell'umanità che gli uomini perseguano i loro scopi senza darsi pensiero di questo genere
di conseguenze. In altre parole, la società non concede ai contendenti sconfitti alcun
diritto, legale o morale, all'immunità da questo tipo di sofferenze, e si ritiene in dovere di
interferire solo quando il successo è stato conseguito con mezzi non ammissibili
dall'interesse generale cioè l'inganno, la slealtà, o la forza. Ancora, il commercio è un atto
sociale. Chiunque venda un genere di beni al pubblico compie un atto che coinvolge gli
interessi di altri e della società in generale; e quindi la sua condotta rientra in linea di
principio sotto la giurisdizione sociale; di conseguenza, un tempo era considerato dovere
dei governi fissare i prezzi e regolamentare i processi di fabbricazione in tutti i casi ritenuti
di una certa rilevanza. Ma ora si è giunti a riconoscere, anche se solo dopo una lunga lotta,
che sia il prezzo sia la qualità delle merci sono garantiti più efficacemente lasciando
perfettamente liberi produttori e venditori, con il solo vincolo della uguale libertà per gli
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acquirenti di rifornirsi dove preferiscano. Questa è la cosiddetta dottrina del "libero
scambio" che ha fondamenti diversi da quelli del principio della libertà individuale
enunciato in questo saggio, anche se con essi coerenti. Le restrizioni al commercio, o alla
produzione a fini commerciali, sono in effetti dei vincoli; e ogni vincolo, in quanto tale, è
un male; ma i vincoli in questione riguardano solo quella parte del comportamento il cui
controllo rientra nella competenza della società, e sono erronei solo perché non producono
effettivamente i risultati che da essi si intende ottenere. Poiché il principio della libertà
individuale non è coinvolto nella dottrina del libero scambio, non lo è neppure nella
maggior parte delle questioni che ne riguardano i limiti, come per esempio il grado di
controllo pubblico ammissibile per prevenire le frodi e le adulterazioni; o quali
precauzioni igieniche o misure per proteggere chi svolga lavori pericolosi debbano essere
imposte ai datori di lavoro. Questi problemi implicano considerazioni concernenti la
libertà solo nella misura in cui lasciare gli uomini a se stessi è sempre meglio, caeteris
paribus, che controllarli; ma in linea di principio è innegabile che li si possa
legittimamente controllare a questi fini. D'altro canto, vi sono questioni riguardanti
l'interferenza nel commercio che sono essenzialmente questioni di libertà, come la legge
del Maine, cui si è già accennato; il divieto di importazione dell'oppio in Cina; le
limitazioni alla vendita di sostanze tossiche – in breve, tutti i casi in cui scopo
dell'interferenza è rendere difficile o impossibile procurarsi una data merce. Questi
interventi sono opinabili non in quanto violazioni della libertà del produttore o del
venditore, ma dell'acquirente. Uno di questi esempi, la vendita di sostanze tossiche, pone
un nuovo problema: i giusti limiti di quelle che possono essere chiamate le funzioni di
polizia – cioè in che misura si possa legittimamente violare la libertà per prevenire delitti o
incidenti. Una delle funzioni indiscusse dei governi è prendere precauzioni contro il
crimine prima che venga commesso, oltre che scoprirlo e punirlo dopo. Tuttavia, della
funzione preventiva del governo si può abusare a danno della libertà molto più facilmente
che di quella punitiva; poiché non vi è quasi alcun aspetto della legittima libertà d'azione
di un individuo che non potrebbe essere descritto, e in modo plausibile, come creazione di
condizioni favorevoli a qualche forma di azione criminosa. Ciononostante, se un'autorità
pubblica, o anche un privato, constata che qualcuno è chiaramente in procinto di
commettere un reato non è costretto a fare da spettatore passivo fino al compimento del
reato, ma può intervenire per prevenirlo. Se i veleni non fossero mai comprati o usati per
scopi diversi dall'omicidio, sarebbe giusto vietarne la fabbricazione e la vendita. Tuttavia
possono essere usati a scopi innocui e persino utili, e le restrizioni non possono essere
imposte in un caso senza essere operative nell'altro. Ancora, è giusto compito dell'autorità
pubblica prevenire gli incidenti: se un pubblico ufficiale, o chiunque altro, vede una
persona che sta per attraversare un ponte che è stato dichiarato pericolante e non ha il
tempo di avvertirla del pericolo, la può afferrare e bloccare, senza per ciò violarne
realmente la libertà: poiché essa consiste nel fare ciò che si vuole, e la persona in questione
non vuole cadere nel fiume. Tuttavia, quando non vi è certezza ma solo pericolo di danno,
nessuno, salvo il diretto interessato, può giudicare se il motivo che lo induce a correre il
rischio è sufficiente: quindi in questo caso (a meno che si tratti di un bambino, di un
malato mentale, o comunque di una persona in stato di alterazione o distrazione tali da
non permettere il pieno uso dell'intelletto) dovrebbe, a mio parere, soltanto essere
avvertito del pericolo; non impedito con la forza di esporvisi. Considerazioni analoghe,
applicate a questioni come la vendita di sostanze tossiche, ci possono permettere di
decidere quali possibili modalità di controllo siano o meno contrarie al principio. Per
esempio, una precauzione come porre sulla sostanza un'etichetta che ne indichi la
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pericolosità può essere attuata senza violare la libertà; l'acquirente non può non voler
sapere che la merce in suo possesso ha delle proprietà venefiche. Ma esigere in ogni caso
un certificato medico renderebbe talvolta impossibile, e sempre costoso, procurarsi il
prodotto per scopi legittimi. La sola modalità che a mio avviso possa ostacolare l'impiego
di queste sostanze a fini criminosi, senza violazioni rilevanti della libertà di chi le desideri
per altri scopi, consiste nel creare quello che Bentham chiama, con felice terminologia,
"accertamento preventivo": tutti ne conoscono degli esempi, nei contratti. È abituale e
giusto che, quando si stipula un contratto, la legge richieda come condizione della sua
attuazione l'osservanza di certe formalità, come firme, attestazioni di testimoni, e così via,
in modo che in caso di successive controversie vi siano prove che il contratto è stato
realmente stipulato, in circostanze che lo rendono legalmente valido sotto tutti gli aspetti;
ciò impedisce efficacemente i contratti fittizi, o quelli stipulati in circostanze che, se
conosciute, li invaliderebbero. Delle precauzioni di carattere analogo potrebbero essere
applicate alla vendita di merci utilizzabili a fini criminosi. Per esempio, al venditore
potrebbe essere fatto obbligo di registrare il momento esatto della vendita, il nome e
l'indirizzo dell'acquirente, l'esatta qualità e quantità venduta, di chiedere lo scopo
dell'acquisto e di trascrivere la risposta. Quando non vi fosse ricetta medica, potrebbe
essere richiesta la presenza di un terzo per far comprendere all'acquirente l'importanza
dell'atto, nel caso successivamente vi fosse ragione di ritenere che la merce sia stata adibita
a fini criminosi. Questa regolamentazione non costituirebbe generalmente un ostacolo
rilevante all'acquisto, ma diminuirebbe considerevolmente le possibilità di usare
impunemente la sostanza a fini illegali. Il diritto intrinseco della società a evitare i reati
contro di sé, mediante precauzioni preventive, indica ovvi limiti alla proposizione secondo
cui non si può legittimamente interferire in modo preventivo o punitivo in una cattiva
condotta che riguardi solo chi la tiene. Per esempio normalmente l'ubriachezza non
dovrebbe essere oggetto di interferenze legali, ma riterrei perfettamente legittimo che una
persona colpevole di un atto di violenza verso altri commesso in stato d'ebbrezza sia
sottoposta a uno speciale vincolo legale: se viene nuovamente sorpresa in stato di
ubriachezza è punibile, e se, ubriaca, commette un reato, la pena per esso prevista deve
essere inasprita. Per una persona che l'alcool rende aggressiva, ubriacarsi è un reato verso
gli altri. Analogamente, l'ozio, salvo nei casi in cui l'ozioso sia mantenuto a spese
pubbliche o l'inattività costituisca una violazione contrattuale, non può essere oggetto di
provvedimenti legali senza tirannide; ma se, per ozio o per ogni altra causa evitabile, un
individuo non compie i suoi doveri legali verso altri – per esempio, non mantiene i propri
figli –, non è tirannide costringerlo a adempiere ai suoi obblighi mediante il lavoro coatto
se non sono possibili altri mezzi. Inoltre, vi sono molti atti che, poiché danneggiano
direttamente solo chi li compie, non dovrebbero essere vietati dalla legge, ma che compiuti
in pubblico costituiscono un'infrazione delle buone maniere e quindi, rientrando nella
categoria dei reati contro gli altri, possono essere giustamente vietati. Di questo tipo sono i
reati contro la decenza, su cui non è necessario soffermarci, perché hanno solo un legame
indiretto con la questione che ci interessa; e comunque l'obiezione all'essere compiuti in
pubblico è altrettanto fondata nel caso di molti atti di per sé non riprovevoli, né presunti
tali. Vi è un'altra questione cui bisogna trovare una risposta coerente con i principi che
abbiamo enunciato. Si considerino i casi di comportamenti personali considerati
riprovevoli, ma che la società, per rispetto della libertà, non può né prevenire né punire
perché il male che ne risulta direttamente ricade solo su chi li compie; dei terzi sono
ugualmente liberi di consigliare o incoraggiare lo stesso atto che un singolo individuo è
libero di fare? È una questione non priva di difficoltà. Il caso di una persona che inciti
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un'altra a compiere un'azione non è, a stretto rigor di termini, un caso di condotta che
riguarda solo se stessi. Offrire consigli o incentivi a un altro è un atto sociale, e quindi si
può supporre che, come ogni azione che riguardi gli altri, sia sottoposto a controllo sociale.
Ma un'ulteriore riflessione modifica la prima opinione, mostrando che, anche se il caso
non rientra a stretto rigor di termini nella definizione di libertà individuale, tuttavia
valgono per esso le ragioni su cui si fonda il principio della libertà individuale. Se si deve
permettere agli uomini di agire come meglio credono e a proprio rischio in tutto ciò che li
riguarda esclusivamente, allora devono essere ugualmente liberi di consultarsi
reciprocamente su ciò che sia meglio fare, di scambiarsi opinioni, di dare e ricevere
suggerimenti. Deve essere permesso consigliare di fare ciò che è permesso fare. La
questione è dubbia solo quando l'istigatore trae un vantaggio personale dai suoi consigli,
quando la sua occupazione, a fini di sostentamento o di guadagno pecuniario, consiste nel
favorire ciò che la società e lo Stato considerano un male. Allora in effetti si introduce un
nuovo fattore di complicazione – l'esistenza di classi di individui il cui interesse si
contrappone a ciò che viene considerato il bene comune, e il cui modo di vivere si fonda
sulla contrapposizione a esso. In questo caso è o non è legittimo interferire? Per esempio,
la fornicazione deve essere tollerata, e così pure il gioco; ma un individuo deve essere
libero di fare il ruffiano, o di tenere una bisca? È uno di quei casi che si collocano
precisamente sulla linea di demarcazione tra i due principî, e non è immediatamente
palese a quale dei due vada ricondotto. Vi sono argomenti a favore di entrambi. Per la
tolleranza, si può sostenere che il fatto di svolgere qualsiasi attività e di trarre dalla sua
pratica sostentamento o profitto non può rendere criminoso ciò che altrimenti sarebbe
consentito; che lo specifico atto dovrebbe coerentemente essere sempre lecito o sempre
illecito; che se i principî che abbiamo finora difeso sono veri, non è compito della società,
in quanto tale, decidere se qualcosa di competenza esclusivamente individuale sia giusto o
sbagliato; che la società non può andar al di là della dissuasione, e che si deve essere
altrettanto liberi di persuadere che di dissuadere. A ciò si può controbattere che, anche se
lo Stato o il pubblico non hanno diritto di decidere d'autorità, a fini repressivi o punitivi,
che una data condotta riguardante solo gli interessi dell'individuo è buona o cattiva, nel
caso la considerino cattiva sono pienamente giustificati a presumere che si tratta di una
questione quanto meno opinabile: in base a questa presunzione, non possono agire
erroneamente se tentano di neutralizzare l'influsso di incitamenti che non sono
disinteressati, di istigatori che non possono essere imparziali, perché sono direttamente e
personalmente interessati a un tipo di soluzione, che è quella che lo Stato ritiene sbagliata,
e che per loro stessa ammissione favoriscono esclusivamente a fini personali. Si potrebbe
sostenere che non vi è sacrificio del bene, che nulla si perde, se una situazione viene
regolamentata in modo che gli individui compiano la propria scelta, giusta o sbagliata,
autonomamente, il più possibile liberi dalle seduzioni di persone che ne stimolano le
inclinazioni a propri fini interessati. Così (si potrebbe dire), anche se la normativa
riguardante il gioco illegale è del tutto indifendibile – anche se tutti dovrebbero essere
liberi di giocare a casa propria o altrui, o in qualsiasi luogo di ritrovo creato dai loro
contributi finanziari e aperto solo ai membri e ai loro ospiti –, tuttavia le bische pubbliche
non dovrebbero essere consentite. È vero che la loro proibizione non ha mai realmente
efficacia e che, indipendentemente dalla quantità di poteri tirannici concessa alla polizia, le
bische possono sempre continuare a esistere sotto altro nome; ma le si può costringere a
svolgere la loro attività in una certa atmosfera di segretezza e mistero, in modo che solo
chi le cerca attivamente ne conosca l'esistenza; e la società non dovrebbe mirare più che a
questo. Sono argomentazioni di peso considerevole. Non mi arrischierò a decidere se siano
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sufficienti a giustificare l'anomalia morale di punire il complice mentre il colpevole
principale è (e deve essere) lasciato in libertà; di multare o incarcerare il ruffiano ma non il
fornicatore, il tenutario della bisca, ma non il giocatore. Ancor meno si dovrebbe
interferire, per ragioni analoghe, nelle operazioni di compravendita. Di quasi ogni merce
comprata e venduta si può fare uso eccessivo, e i venditori hanno un interesse pecuniario a
incoraggiare l'eccesso; ma non si può fondare su ciò alcuna argomentazione a favore, per
esempio, della legge del Maine, perché i commercianti di alcolici, anche se interessati a che
se ne faccia abuso, sono indispensabili ai fini dell'uso legittimo dell'alcool. Tuttavia,
l'interesse di questi commercianti a favorire l'intemperanza è un male reale, che giustifica
lo Stato a imporre restrizioni e richiedere garanzie che, in assenza di questa
giustificazione, sarebbero violazioni della libertà legittima. Un'ulteriore questione è se lo
Stato, pur permettendola, debba ciononostante scoraggiare una condotta che ritiene
contraria agli interessi di chi la tiene; se per esempio debba prendere misure per rendere
più costosi i mezzi dell'ubriachezza, o rendere più difficile il procurarseli, limitandone il
numero dei punti di vendita. Come molte altre questioni pratiche, anche questa richiede
molte distinzioni. Tassare gli alcolici al solo fine di renderne più difficile l'acquisto
differisce solo per gradi dal proibirli del tutto, e sarebbe giustificabile solo se lo fosse il
divieto. Ogni aumento di prezzo è una proibizione per coloro i cui mezzi non consentono
la nuova spesa; e per coloro che se la possono permettere, è una punizione per la
soddisfazione di quel loro particolare gusto. La loro scelta di piaceri e il loro modo di
spendere il proprio reddito, una volta soddisfatti gli obblighi morali e legali verso lo Stato
e verso i singoli, sono affari loro, che devono dipendere dal loro giudizio. Di primo acchito
si direbbe che queste considerazioni condannino la scelta degli alcolici come speciale
oggetto di tassazione fiscale. Ma va ricordato che la tassazione fiscale è assolutamente
inevitabile; che nella gran parte dei paesi è necessario che essa sia per buona parte
indiretta; che quindi lo Stato non può non imporre penalità, che per alcuni possono
risultare proibitive, sull'uso di alcuni articoli di consumo. È di conseguenza dovere dello
Stato considerare, nella sua politica delle imposte, di quali merci i consumatori possano
più facilmente fare a meno; e, a fortiori, scegliere preferenzialmente quelle di cui ritiene
l'uso, salvo che in quantità molto moderate, effettivamente dannoso. Quindi la tassazione
degli alcolici fino al livello a cui produca il massimo gettito (nell'ipotesi che lo Stato
necessiti di tutte le entrate che ne può derivare) non solo è ammissibile, ma va approvata.
La questione di rendere la vendita di queste merci un privilegio più o meno esclusivo ha
risposte diverse a seconda degli scopi cui intende adempiere la restrizione. Tutti i locali
pubblici necessitano di controllo da parte della polizia, in particolare quelli che spacciano
alcolici perché vi si possono spesso verificare reati contro la società. Quindi è opportuno
limitare la licenza di vendere questi merci (almeno per il consumo immediato) a persone
di rispettabilità nota o garantita; regolamentare gli orari di apertura e chiusura nel modo
più consono alla pubblica sorveglianza, e ritirare la licenza se si verificano ripetutamente
violazioni dell'ordine pubblico per connivenza o incapacità del gestore del locale, o se lo
spaccio diventa un luogo d'ideazione e preparazione di reati. Non ritengo che, in linea di
principio, sia giustificabile qualunque altra restrizione. Per esempio, la limitazione del
numero dei locali di spaccio di alcoolici, espressamente allo scopo di rendervi più difficile
l'accesso e di limitare le occasioni di tentazione, non solo causa un disagio a tutti soltanto
perché alcuni potrebbero abusare dei locali in questione, ma è degna solo di una società in
cui le classi lavoratrici sono dichiaratamente trattate come bambini o selvaggi, e sottoposte
a una educazione repressiva che le prepari a essere ammesse in futuro ai privilegi della
libertà. Non è questo il principio in base al quale si afferma di governare le classi
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lavoratrici in un paese libero; e nessuno che dia alla libertà il suo giusto valore può
approvare questo modo di governarle, a meno che non siano falliti tutti gli sforzi di
educarle e governarle come uomini liberi, e sia stato definitivamente provato che possono
soltanto essere governate come bambini. La semplice enunciazione dell'alternativa mostra
quanto sia assurdo supporre che questi sforzi siano stati compiuti in uno qualsiasi dei casi
che qui ci interessano. È solo perché le istituzioni di questo paese sono una massa di
incoerenze che nella pratica vengono ammessi questi fenomeni di dispotismo, chiamato
anche paternalismo, mentre la libertà generale della nostra costituzione impedisce
l'esercizio del controllo necessario a dare a certe restrizioni un pur minimo valore di
educazione morale. All'inizio di questo saggio si era affermato che la libertà dell'individuo
in questioni che riguardano lui solo implica una corrispondente libertà per qualsiasi
numero di individui di regolare per mutuo consenso questioni che li riguardano nel loro
complesso, e non riguardano altri. Questo problema non presenta difficoltà fino a quando
la volontà di tutti gli interessati resta immutata; ma poiché potrebbe mutare, spesso essi
devono, anche in questioni che riguardano solo loro, contrarre degli impegni reciproci; e
in questo caso è generalmente giusto che questi impegni vengano mantenuti. Tuttavia,
questa regola generale ha delle eccezioni, presenti probabilmente nelle leggi di tutti i
paesi. Non solo gli individui non sono vincolati da impegni che violino i diritti di terzi, ma
talvolta viene considerata ragione sufficiente per esimerli dall'impegno il fatto che sia loro
dannoso. Per esempio, in questo e nella maggior parte degli altri paesi civilizzati un
impegno per cui una persona si venda, o permetta di essere venduta, come schiavo
sarebbe privo di valore legale, e né la legge né l'opinione consentirebbero che fosse
rispettato. La ragione per limitare così il potere dell'individuo di disporre volontariamente
della propria vita è evidente, e questo caso estremo la mostra con chiarezza. Il motivo per
non interferire, salvo quando altri siano coinvolti, negli atti volontari di un individuo è il
rispetto della sua libertà: la sua scelta volontaria prova che ciò che sceglie è per lui
desiderabile, o perlomeno sopportabile, e nel complesso è più opportuno per il suo bene
permettergli di trovare da solo i mezzi di conseguirlo. Ma vendendosi come schiavo,
abdica alla sua libertà: rinuncia a ogni suo uso posteriore all'atto di vendersi. Quindi
contraddice, con la sua stessa azione, proprio lo scopo che giustifica il permesso che ha di
disporre di se stesso. Non è più libero, e appunto per questo si trova in una posizione che
vanifica la presunzione che egli vi possa restare volontariamente. Il principio della libertà
non può ammettere che si sia liberi di non essere liberi: non è libertà potersi privare della
libertà. Queste ragioni, la cui efficacia è così evidente in questo caso particolare, hanno
chiaramente un'applicabilità ben più ampia; tuttavia vengono limitate in ogni campo dalle
esigenze della vita, che continuamente richiedono non certo che rinunciamo alla nostra
libertà ma che consentiamo a una serie di sue limitazioni. Tuttavia, il principio che
richiede l'incondizionata libertà d'azione in tutto ciò che riguarda solo l'agente, implica che
due persone che abbiano preso un impegno reciproco e non riguardante terzi siano libere
di esimersi vicendevolmente dal rispettarlo; e, indipendentemente da questa esenzione
volontaria, probabilmente non esistono contratti o impegni – salvo quelli riguardanti
danaro o suoi equivalenti – di cui si possa sostenere che non vi dovrebbe essere alcuna
libertà di rescinderli. Il barone Wilhelm von Humboldt, nell'eccellente saggio che ho già
citato, afferma che gli impegni riguardanti rapporti o servizi personali non dovrebbero
mai essere legalmente vincolanti oltre un periodo limitato di tempo; e che il più
importante di essi, il matrimonio, avendo la particolarità che i suoi scopi sono negati se i
sentimenti di entrambi i contraenti non sono in armonia, non dovrebbe richiedere altro che
la deliberata volontà di una delle due parti per essere disciolto. Questo argomento è
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troppo importante e complicato per essere discusso in un inciso, e vi accenno soltanto a
fini esemplificativi. Se la concisione e la generalità della sua argomentazione non avessero
costretto il barone Humboldt a enunciare le sue conclusioni in proposito senza poterne
discutere le premesse, avrebbe senza dubbio riconosciuto che la questione non può essere
decisa su basi così semplici come quelle cui egli si limita. Quando qualcuno o con una
promessa esplicita o con la sua condotta, ha incoraggiato un'altra persona a ritenere con
sicurezza che egli continuerà a agire in un certo modo – e quindi l'ha portata a formarsi
delle aspettative, a fare dei piani, e a impegnare una qualsiasi parte del suo progetto di
vita in questa supposizione –, si è creato una serie di nuovi obblighi morali nei confronti
dell'altra, obblighi che possono successivamente venire annullati, ma non ignorati. E
inoltre, se il rapporto tra i due contraenti ha dato origine a conseguenze per altre persone;
se ha posto dei terzi in una posizione particolare, o, come nel caso del matrimonio, li ha
addirittura fatti esistere, vengono a crearsi degli obblighi da entrambe le parti verso queste
terze persone – obblighi il cui adempimento, o comunque le cui modalità di adempimento,
non possono non essere grandemente influenzati dalla continuazione o dalla cessazione
del rapporto tra i due contraenti originari. Non ne segue, né del resto lo posso ammettere,
che questi obblighi si estendano a richiedere l'adempimento a tutti i costi del contratto, a
danno della felicità della parte riluttante: ma costituiscono per necessità un elemento del
problema; e anche se, come sostiene von Humboldt, non dovessero influire sulla libertà
legale dei contraenti di dichiararsi sciolti dall'impegno (e anch'io ritengo che non
dovrebbero influire molto), necessariamente hanno una grande importanza in termini di
libertà morale. Una persona ha l'obbligo di prendere in considerazione tutte queste
circostanze prima di decidersi a un passo che può coinvolgere degli interessi altrui di tale
importanza; e se non dà loro il giusto peso è moralmente responsabile dell'errore. Ho
svolto queste ovvie osservazioni per illustrare meglio il principio generale della libertà, e
non perché siano affatto necessarie nella questione specifica del matrimonio, che anzi
viene normalmente discussa come se gli interessi dei bambini fossero tutto, e quelli degli
adulti non esistessero. Ho già notato che, a causa dell'assenza di principi generalmente
accettati, la libertà viene spesso concessa quando dovrebbe essere negata, e viceversa; e
uno dei casi in cui il sentimento libertario è più forte nell'Europa moderna è, a mio parere,
interpretato in modo del tutto erroneo. Un individuo dovrebbe essere libero di agire come
gli piace in ciò che lo riguarda, ma non di comportarsi come gli piace quando agisce per
conto di un'altra persona, col pretesto che gli affari di quest'ultima sono i suoi. Lo Stato,
rispettando la libertà di ciascuno in ciò che lo riguarda specificamente, deve mantenere un
vigile controllo sull'esercizio del potere che permette che gli individui detengano su altre
persone. Questo obbligo statale è quasi completamente ignorato nel caso dei rapporti
familiari che, data la loro diretta influenza sulla felicità umana, sono più importanti di tutti
gli altri insieme. È inutile dilungarsi in questa sede sul potere quasi dispotico dei mariti
sulle mogli, sia perché per eliminare completamente questo male basta che le mogli
abbiano uguali diritti e vengano protette dalla legge come chiunque altro; sia perché, in
questo campo, i difensori dell'ingiustizia costituita non si appellano alla libertà ma si
proclamano apertamente sostenitori della forza. È nel caso dei bambini che delle malintese
nozioni di libertà ostacolano realmente lo Stato nell'adempimento dei suoi doveri. Si
penserebbe quasi che i figli di un uomo siano ritenuti letteralmente, e non
metaforicamente, una sua parte, tanto l'opinione pubblica è insofferente della pur minima
interferenza legale nell'assoluto e esclusivo controllo paterno sui figli, più insofferente che
di quasi ogni interferenza con la propria libertà d'azione: a tal punto la generalità degli
uomini stima la libertà meno del potere. Consideriamo per esempio il caso
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dell'educazione. Non è quasi ovvio l'assioma che lo Stato dovrebbe esigere e imporre
l'educazione, fino a un certo livello, di ogni essere umano che sia nato suo cittadino? E
tuttavia, chi non ha paura di riconoscere e affermare questa verità? Quasi nessuno
negherà, in effetti, che uno dei doveri più sacri dei genitori (o, secondo la legge e il
costume odierni, del padre) è, avendo fatto venire al mondo un essere umano, dargli un
educazione che lo ponga in grado di svolgere nella vita la sua parte verso se stesso e gli
altri. Ma mentre si dichiara all'unanimità che questo è dovere del padre, quasi nessuno, in
questo paese, tollererà che si dica che il padre va obbligato a compierlo. Invece di essere
tenuto a compiere qualsiasi sforzo o sacrificio per assicurare una educazione a suo figlio,
può scegliere se accettarla o meno quando viene fornita gratis! Non si ammette ancora che
far venire al mondo un bambino senza avere ragionevoli prospettive di potere non solo
procurargli alimentoper il corpo, ma istruzione e esercizio per la mente, e un crimine
morale, sia contro la sfortunata prole che contro la società; né che se non si adempie a
quest'obbligo, dovrebbe adempiervi lo Stato, nella misura del possibile a spese del
genitore. Se venisse finalmente riconosciuto il dovere di attuare l'istruzione universale,
avrebbero fine le controversie su che cosa e come lo Stato dovrebbe insegnare, che
attualmente trasformano la questione in un semplice terreno di scontro tra sette e partiti,
in cui il tempo e gli sforzi che dovrebbero essere impegnati nell'educazione sono sprecati a
litigare su di essa. Se il governo si decidesse a esigere che ogni bambino riceva una buona
istruzione, potrebbe evitarsi il disturbo di fornirla: potrebbe lasciare ai genitori il compito
di trovare l'educazione dove e come preferiscono, e limitarsi a pagare le tasse scolastiche
dei bambini delle classi più povere, e a coprire tutte le spese scolastiche di quelli che sono
completamente privi di mezzi. Le obiezioni che vengono giustamente mosse
all'educazione di Stato non si applicano alla proposta che lo Stato renda obbligatoria
l'istruzione, ma che si prenda carico di dirigerla; che è una questione completamente
diversa. Sono il primo a deplorare che l'intera istruzione, o qualsiasi sua parte, sia affidata
allo Stato: tutto ciò che si è affermato sull'importanza dell'individualità del carattere e
della diversità di opinioni e comportamenti implica, con la stessa incommensurabile
importanza, la diversità di educazione. Un'educazione di Stato generalizzata non è altro
che un sistema per modellare gli uomini tutti uguali; e poiché il modello è quello gradito
al potere dominante – sia esso il monarca, il clero, l'aristocrazia, la maggioranza dei
contemporanei – quanto più è efficace e ha successo, tanto maggiore è il dispotismo che
instaura sulla mente, e che per tendenza naturale porta a quello sul corpo. Un'educazione
istituita e fondata dallo Stato dovrebbe essere, tutt'al più, un esperimento in competizione
con molti altri, condotto come esempio e stimolo che contribuisca a mantenere un certo
livello qualitativo generale. Soltanto quando la società in generale è a uno stadio così
arretrato che non sarebbe in grado di crearsi istituzioni educative adeguate se lo Stato non
se ne assumesse il compito, il governo può, scegliendo tra due mali il minore, incaricarsi
della gestione di scuole e università, come potrebbe fondare delle società per azioni se
l'iniziativa privata del paese non fosse abbastanza sviluppata da intraprendere grandi
attività industriali in generale se un paese contiene un numero sufficiente di persone
qualificate a svolgere la funzione educativa sotto il patrocinio dello Stato, esse sono
disposte e in grado di fornire un'educazione altrettanto buona su basi volontarie, purché
sia loro garantita la remunerazione da una legge che renda obbligatoria l'istruzione,
insieme con sovvenzioni statali agli allievi non in grado di affrontare le spese scolastiche.
Gli strumenti per attuare a legge non potrebbero essere altro che esami pubblici, estesi a
tutti i bambini a partire dall'infanzia. Si potrebbe fissare un'età in cui è obbligatorio un
esame che stabilisca se un bambino sa leggere. Se il bambino si rivela analfabeta, il padre,
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a meno che non presenti adeguate giustificazioni, potrebbe essere punito con una lieve
ammenda – pagabile se necessario, con prestazioni d'opera – e il bambino potrebbe essere
mandato a scuola a sue spese. Una volta all'anno l'esame andrebbe ripetuto, su una
gamma di argomenti gradatamente ampliata, in modo da rendere virtualmente
obbligatorio per tutti acquisire e, ciò che è più, mantenere un certo minimo di cultura
generale. Oltre ad esso, dovrebbero esistere esami volontari su tutte le materie, che
conferiscano un certificato a chiunque dia prova di un certo livello di conoscenze. Per
evitare che lo Stato eserciti per questa via un'indebita influenza sull'opinione, le
conoscenze necessarie per superare un esame (a parte quelle puramente strumentali, come
le lingue e il loro impiego) dovrebbero anche ai livelli più elevati, limitarsi esclusivamente
ai fatti e alla scienza positiva. Gli esami riguardanti religione, politica o altri argomenti
controversi non dovrebbero vertere sulla verità o falsità delle varie opinioni, ma sul fatto
che date opinioni sono sostenute, in base a date argomentazioni, da dati autori, scuole o
chiese. Con questo sistema, la nuova generazione si troverebbe in una posizione non
peggiore di quella attuale rispetto a tutte le verità controverse: i giovani crescerebbero
anglicani o dissenzienti come crescono ora, e lo Stato si limiterebbe a renderli anglicani o
dissenzienti istruiti. Nulla impedirebbe loro di studiare la religione, se così desiderano i
loro genitori, nelle medesime scuole in cui imparano altre cose. Tutti i tentativi da parte
dello Stato di influenzare le conclusioni che i cittadini possono raggiungere su argomenti
controversi costituiscono un male; ma lo Stato non commette alcuna interferenza indebita
offrendosi di accertare e certificare che un individuo possiede la cultura necessaria a
rendere degne di attenzione le sue conclusioni su un qualsiasi argomento. Uno studente di
filosofia trarrebbe vantaggio dall'essere in grado di affrontare un esame sia su Locke sia su
Kant, indipendentemente dal fatto che condivida le idee dell'uno, dell'altro o di nessuno
dei due; e non vi è ragione di obiettare al fatto che un ateo venga esaminato sulle prove
dell'esistenza di Dio, purché non si esiga che professi di credervi. Tuttavia ritengo che gli
esami ai livelli più elevati dovrebbero essere completamente volontari: i governi avrebbero
un potere troppo pericoloso se fosse loro permesso di escludere chiunque da una
professione, ivi compreso l'insegnamento, sostenendo che è privo dei requisiti necessari; e
ritengo, con Wilhelm von Humboldt, che le lauree o altri certificati pubblici di qualità
scientifiche o professionali dovrebbero essere conferiti a chiunque si presenti agli esami e
li superi, ma non dovrebbero costituire un vantaggio rispetto a chi ne è privo, salvo per
l'eventuale importanza attribuita dalla pubblica opinione a quanto attestano. Non è solo
nella questione dell'istruzione che delle malintese nozioni di libertà impediscono che
vengano riconosciuti gli obblighi morali dei genitori, e venga loro imposto di rispettare
quelli legali, mentre invece è sempre giusto far rispettare i primi, e in molti casi anche i
secondi. Lo stesso fatto di causare l'esistenza di un essere umano è una delle azioni che
comportano più responsabilità nell'intero arco della vita umana. Assumersi questa
responsabilità – dare una vita che può essere una sciagura o una fortuna –, senza che
l'essere che riceve la vita abbia almeno le normali probabilità di condurre un'esistenza
desiderabile è un delitto contro di lui. E in un paese che è sovrappopolato o minaccia di
diventarlo, produrre bambini in un numero che non sia molto limitato con l'effetto di
diminuire il compenso del lavoro a causa della loro concorrenza, è un grave reato contro
tutti coloro che vivono dei frutti del loro lavoro. Le leggi che in molti paesi del Continente
vietano il matrimonio se le parti contraenti non possono dimostrare di avere i mezzi
sufficienti a mantenere una famiglia, non esulano dai poteri legittimi dello Stato; e,
indipendentemente dalla loro maggiore o minore efficacia (che generalmente varia a
seconda delle condizioni e dei sentimenti del paese) non sono criticabili come violazioni
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della libertà. Sono interferenze statali per vietare un atto nocivo – un atto lesivo di altri,
che dovrebbe essere condannato e bollato dalla società, anche nei casi in cui non si
giudichi opportuno infliggere anche una punizione legale. E tuttavia le comuni concezioni
della libertà, che così spesso accettano supinamente le vere violazioni della libertà
dell'individuo in ciò che è di sua esclusiva competenza, rifiuterebbero ogni tentativo di
controllarne le inclinazioni quando indulgervi può portare a una vita di infelicità e
depravazione per genitori e figli, con molteplici mali per chiunque sia sufficientemente
vicino da subirne le conseguenze. Quando confrontiamo lo strano rispetto che gli uomini
hanno per la libertà con lo strano disprezzo che hanno per essa, potremmo pensare che un
uomo ha un diritto inalienabile a far del male agli altri, e assolutamente nessuno a far quel
che gli piace senza dar dolori a nessuno. Ho lasciato per ultimo un vasto gruppo di
questioni riguardanti le interferenze da parte del governo, che, anche se strettamente
collegate all'argomento di questo saggio, a rigor di termini non ne fanno parte. Sono dei
casi in cui le ragioni contrarie all'interferenza non si fondano sul principio di libertà: la
questione non è di porre delle restrizioni alle azioni degli individui, ma di aiutarli; ci si
chiede se il governo debba compiere, o far compiere, degli atti a loro beneficio invece di
lasciarli fare ai cittadini stessi, individualmente o in associazioni volontarie. Le obiezioni
all'interferenza governativa, che non costituisca violazione della libertà, possono essere di
tre tipi: Il primo è quando l'azione da compiere ha probabilità di essere compiuta meglio
da singoli individui che dal governo. In generale, nessuno è tanto adatto a condurre degli
affari, o a decidere come o da chi vadano condotti, quanto coloro che vi hanno un interesse
personale. Questo principio condanna le interferenze, un tempo tanto comuni, del potere
legislativo o di funzionari governativi nelle normali attività dell'industria e del commercio.
Ma questo aspetto della questione è già stato sufficientemente approfondito dagli studiosi
di economia politica, e non è particolarmente collegato ai principi di questo saggio. La
seconda obiezione è più strettamente connessa al nostro problema. In molti casi, anche se i
singoli individui non sono mediamente in grado di svolgere una data attività altrettanto
bene che dei funzionari governativi, è tuttavia auspicabile che essa sia svolta da loro
invece che dal governo, come mezzo di educazione intellettuale come un modo di
rafforzare le proprie facoltà attive, esercitare il proprio giudizio, e acquisire una certa
conoscenza e familiarità con le questioni di cui si devono così occupare. Questo è il
principale, anche se non l'unico, argomento a favore delle giurie popolari (salvo che nei
processi politici); di istituzioni locali e municipali libere e popolari; della gestione di
iniziative industriali e filantropiche da parte di associazioni volontarie. Non sono delle
questioni di libertà – problema cui sono collegate solo da remote tendenze – ma di
sviluppo. Non è questa la sede per trattare di queste attività in quanto componenti
dell'educazione nazionale, anzi in quanto addestramento specifico dei singoli cittadini,
aspetto pratico della loro educazione politica di uomini liberi, che li fa uscire dalla ristretta
cerchia dell'individualismo personale e familiare e li abitua a comprendere gli interessi
comuni e a organizzare iniziative comuni – a agire per motivi pubblici e semipubblici, e
ispirare la propria condotta a fini che li unificano invece di isolarli l'uno dall'altro. Senza
queste abitudini e questi poteri, una libera costituzione non può essere attuata né
conservata, come mostra fin troppo spesso la natura transitoria della libertà politica nei
paesi in cui essa non si fonda su una base sufficiente di libertà locali. La gestione delle
questioni puramente locali da parte degli abitanti, e delle grandi iniziative industriali da
parte dell'insieme di coloro che volontariamente ne forniscono il supporto finanziario, è
inoltre auspicabile per tutti i vantaggi che questo saggio ha indicato come propri
dell'individualità dello sviluppo e della varietà dei modi di agire. Le attività governative
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tendono ad essere uguali dappertutto; i singoli e le associazioni volontarie invece danno
origine a una varietà di esperimenti e a un'infinita diversità di esperienze. Lo Stato può
rendersi utile trasformandosi in deposito centrale, e in attivo diffusore, delle esperienze
risultanti da molti tentativi diversi: suo compito è far sì che ogni sperimentatore tragga
profitto dagli esperimenti altrui, invece di tollerare soltanto i propri. La terza e più valida
ragione per limitare l'interferenza dello Stato è la grande sciagura costituita da un'inutile
estensione del suo potere. Ciascuna funzione che viene ad aggiungersi a quelle che il
governo già svolge, amplia il suo campo di influenza sulla speranza e sul timore umani, e
trasforma sempre più gli individui più attivi e ambiziosi in parassiti del governo, o di
qualche partito che aspiri a diventarlo. Se strade, ferrovie, banche, assicurazioni, grandi
società per azioni, università e opere benefiche fossero tutte delle branche del governo; se
inoltre le amministrazioni municipali e locali, con tutte le loro attuali competenze,
diventassero dipartimenti dell'amministrazione centrale; se i dipendenti di tutte queste
aziende e istituzioni fossero nominati e pagati dal governo e si rivolgessero a esso per ogni
miglioramento della loro qualità di vita, tutta la libertà di stampa e tutta la democraticità
del potere legislativo non renderebbero questo o alcun altro paese libero se non di nome. E
il male sarebbe tanto maggiore quanto più efficientemente e scientificamente fosse
costruita la macchina amministrativa – quanto più abili e raffinati fossero i metodi di
ottenere che vi lavorino le persone più qualificate ed esperte. In Inghilterra è stato
recentemente proposto che tutti i funzionari civili dello Stato vengano scelti mediante
esami pubblici, in modo da selezionare per questi impieghi le persone più intelligenti e
colte che il paese offra: e molto è stato detto e scritto a favore e contro questa proposta.
Uno degli argomenti su cui hanno più insistito i suoi oppositori è che l'impiego
permanente di funzionario statale non offre prospettive di reddito e carriera sufficienti da
attrarre i talenti migliori, che saranno sempre in grado di trovare carriere più allettanti
nelle libere professioni o al servizio di compagnie o di altri enti pubblici. Non sarebbe stato
sorprendente se questa argomentazione fosse stata usata dai fautori della proposta per
controbattere l'obiezione principale da essa suscitata: sorprende invece che la usino gli
oppositori. Quella che viene avanzata vigorosamente come critica è la valvola di sicurezza
del sistema. Se tutti i migliori talenti del paese potessero effettivamente essere convinti a
servire lo Stato, la proposta in questione potrebbe a buon diritto suscitare un senso di
disagio. Se ogni aspetto delle attività sociali che richiede capacità organizzative, o di ampia
comprensione e sintesi, fosse nelle mani del governo, e se gli incarichi governativi fossero
tutti ricoperti dalle persone più capaci, tutta la cultura più approfondita e l'intelligenza più
sperimentata del paese – eccezion fatta per gli intelletti puramente speculativi – sarebbe
concentrata in una folta burocrazia, che diventerebbe l'unico punto di riferimento del resto
della comunità per qualsiasi questione. Le masse si rivolgerebbero a essa per essere dirette
e guidate in ogni loro attività e i più capaci e ambiziosi per ottenere avanzamento
personale. Essere ammessi nelle fila di questa burocrazia, e successivamente farvi carriera,
diventerebbero le due uniche ambizioni. In un regime del genere, non solo il pubblico
esterno alla burocrazia non sarebbe in grado, per mancanza di esperienza pratica diretta,
di criticarne o controllarne l'attività, ma anche se, per accidenti del dispotismo o
funzionamento naturale delle istituzioni popolari, salissero al potere dei governanti o un
governante con intenzioni riformatrici, non si potrebbe effettuare alcuna riforma che
andasse contro gli interessi della burocrazia. Questa è la malinconica condizione
dell'Impero russo, stando alle descrizioni di coloro che hanno avuto sufficienti opportunità
di osservarlo. Lo stesso zar è impotente contro la burocrazia: può mandare qualsiasi
burocrate in Siberia, ma non può governare senza di loro, o contro la loro volontà; hanno il
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tacito veto su ogni suo ordine, semplicemente perché possono rifiutarsi di eseguirlo. In
paesi di civiltà più avanzata e di spirito più insurrezionale, i cittadini, abituati a che lo
Stato faccia tutto in vece loro, o almeno a chiedere sempre allo Stato non solo il permesso
di far qualcosa ma anche come farla, naturalmente lo giudicano responsabile di qualsiasi
disgrazia loro accada, e quando i mali superano i limiti della loro pazienza si ribellano al
governo facendo la cosiddetta rivoluzione; con la quale qualcun altro, investito o no della
legittima autorità dalla nazione, balza al posto di comando, impartisce i suoi ordini alla
burocrazia, e tutto continua quasi come prima: la burocrazia resta immutata, e nessuno è
capace di prenderne il posto. Un popolo abituato a gestire direttamente i propri affari offre
uno spettacolo ben diverso. In Francia, dove gran parte della popolazione ha fatto il
servizio militare e molti hanno avuto il grado almeno di sottufficiali, ogni insurrezione
popolare comprende diverse persone in grado di assumerne la guida e di improvvisare un
piano ragionevole d'azione. Ciò che i francesi sono nelle questioni militari, lo sono gli
americani in ogni genere di affari civili; se privato del governo, qualsiasi gruppo di
americani è in grado di improvvisarne uno e di svolgerne i compiti, come del resto
qualsiasi altra attività, con un sufficiente grado di intelligenza, ordine e decisione. Questo
è ciò che dovrebbe essere ogni popolo libero; e un popolo capace di questo è certo di
restare libero; non si lascerà mai rendere schiavo da un uomo o da un gruppo di uomini
perché sono in grado di impadronirsi delle redini dell'amministrazione centrale e di
usarle. Nessuna burocrazia può sperare di costringere un popolo come questo a
sottomettersi o a fare ciò che non desidera. Ma nei paesi in cui tutto è svolto tramite la
burocrazia, non è possibile fare assolutamente nulla cui essa sia realmente contraria. La
costituzione di paesi di quest'ultimo tipo è l'organizzazione delle esperienze e delle
capacità pratiche della nazione in un'entità disciplinata la cui funzione è governare il resto
del paese. Quanto più perfetta è l'organizzazione, quanto più riesce a attrarre e a educare
ai propri fini le persone più capaci provenienti da ogni strato della comunità, tanto più
completa è la schiavitù per tutti, compresi i membri della burocrazia; poiché i governanti
sono altrettanto schiavi della loro disciplina e organizzazione quanto sono schiavi i
governati. Un mandarino cinese è strumento e creatura del dispotismo tanto quanto il più
umile contadino. Un singolo gesuita è schiavo del suo ordine fino all'abiezione, anche se I
ordine stesso esiste in virtù del potere collettivo e dell'importanza dei suoi membri. Non
va inoltre dimenticato che l'assorbimento di tutte le maggiori capacità di un paese
nell'entità che lo governa e presto o tardi fatale per l'attività mentale e l'evoluzione
dell'entità stessa. Strettamente interdipendenti operanti un sistema che, come tutti i
sistemi, funziona necessariamente in larga misura grazie a regole fisse –, i funzionari sono
costantemente tentati di cedere all'indolenza della routine o, se talvolta abbandonano la
monotonia del loro lavoro, di lanciarsi in qualche iniziativa informe e poco meditata che
ha colpito la fantasia di un membro importante della gerarchia; e il solo ostacolo a queste
tendenze strettamente connesse anche se apparentemente opposte, il solo stimolo che può
mantenere ad alti livelli le capacità dell'entità complessiva, è l'essere sottoposti all'attento
vaglio critico di gruppi ad essa esterni e di uguale capacità. È quindi indispensabile che,
indipendentemente dal governo, esistano le possibilità e i mezzi di formare queste
capacità e di fornire loro le opportunità e l'esperienza necessarie per giudicare
correttamente i grandi problemi pratici. Se vogliamo avere dei funzionari abili e efficienti –
soprattutto capaci di generare innovazioni e disposti a accettarle –, se non vogliamo che la
nostra burocrazia degeneri in una pedantocrazia, l'entità burocratica non deve inglobare
tutte le occupazioni che formano e sviluppano le facoltà necessarie al governo degli
uomini. Determinare il punto in cui il danno, così grave per la libertà e il progresso umani,
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comincia, o meglio comincia a prevalere sui benefici derivanti dall'applicazione collettiva
della forza della società, guidata dai suoi capi riconosciuti, al fine di eliminare gli ostacoli
che si frappongono al raggiungimento del bene comune; ottenere tutti i possibili vantaggi
della centralizzazione del potere e dell'intelligenza senza incanalare una parte troppo
grande delle attività complessive nell'ambito governativo; questo è uno dei problemi più
difficili e complessi posti dall'arte del governare. È in larga misura una questione di
particolari, in cui vanno tenute presenti molte e diverse considerazioni e non si possono
stabilire regole assolute. Ma ritengo che il principio pratico che garantisce la sicurezza,
l'ideale da non perdere di vista, il criterio su cui valutare tutti i sistemi per superare queste
difficoltà, può essere espresso in questi termini: la massima disseminazione di potere che
non vada a scapito dell'efficienza, e la massima centralizzazione, e diffusione dal centro,
dell'informazione. Per esempio, nell'amministrazione municipale vi sarebbe – come negli
stati della Nuova Inghilterra – una distribuzione molto dettagliata tra funzionari diversi,
scelti dagli abitanti locali, di tutte le questioni che non possono essere risolte per il meglio
da chi vi è direttamente interessato; ma inoltre in ogni dipartimento dell'amministrazione
locale vi sarebbe una sovrintendenza centrale, che costituisce come una branca del
governo nazionale. Essa concentrerebbe, come un punto focale, tutta la varietà di
informazioni e esperienze tratte dall'operato di quella specifica branca amministrativa in
tutto il paese, da qualunque analoga esperienza di paesi stranieri, e dai principi generali
della scienza della politica. Questo organo centrale dovrebbe aver diritto a conoscere ogni
aspetto di tutte le attività, e suo compito specifico sarebbe porre le conoscenze acquisite
dall'esperienza di una località a disposizione delle altre. Esente dai piccoli pregiudizi e
dalla ristrettezza di vedute locali, grazie alla sua posizione superiore e all'ampiezza della
sua sfera di osservazione, il suo parere sarebbe naturalmente molto autorevole; ma il suo
potere reale, in quanto istituzione permanente, dovrebbe a mio parere essere limitato,
obbligando i suoi funzionari locali ad attenersi alle disposizioni di legge. In tutte le
questioni non previste dalla normativa generale, essi sarebbero liberi di agire secondo il
loro giudizio, e ne risponderebbero agli elettori. Sarebbero legalmente responsabili delle
infrazioni alle norme stabilite dal potere legislativo. L'autorità amministrativa centrale si
limiterebbe a vegliare sulla loro attuazione, e se non venissero applicate adeguatamente
potrebbe appellarsi, a seconda dei casi, ai tribunali per far rispettare la legge, o agli elettori
per allontanare i funzionari che ne avessero tradito lo spirito. Di questo tipo è, nella sua
impostazione generale, la sovrintendenza centrale che la commissione per la legge di
assistenza ai poveri dovrebbe esercitare sugli amministratori della tassa assistenziale in
tutto il paese. Tutti i poteri che la commissione ha esercitato oltre questo limite erano
giusti, e necessari nei casi specifici per combattere radicate consuetudini di cattiva
amministrazione in questioni che interessano profondamente non solo le località
specifiche ma l'intera comunità. Nessuna località ha infatti il diritto morale di rendersi, per
incapacità amministrativa, un covo di pauperismo, che necessariamente si estende ad altre
e danneggia le condizioni morali e fisiche dell'intera comunità lavoratrice. I poteri di
costrizione amministrativa e di legislazione ad essa subordinata conferiti alla commissione
per la legge assistenziale (che purtroppo, a causa dell'atteggiamento dell'opinione
pubblica, sono pochissimo esercitati), anche se perfettamente giustificati in un caso di
primario interesse nazionale, sarebbero totalmente sproporzionati per la sovrintendenza
di interessi puramente locali. Ma un organo centrale di informazione e istruzione ad uso di
tutte le località sarebbe altrettanto utile in tutti i dipartimenti dell'amministrazione
pubblica. Un governo non svolgerà mai abbastanza attività di questo genere, che non
ostacolano, ma aiutano e stimolano le iniziative e lo sviluppo individuali. I mali
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cominciano quando il governo, invece di fare appello alle attività e ai poteri di singoli e di
associazioni, si sostituisce a essi; quando, invece di informare, consigliare, e talvolta
denunciare, impone dei vincoli, o ordina loro di tenersi in disparte e agisce in loro vece. A
lungo termine, il valore di uno Stato è il valore degli individui che lo compongono; e uno
Stato che agli interessi del loro sviluppo e miglioramento intellettuale antepone una
capacità amministrativa lievemente maggiore, o quella sua parvenza conferita dalla
pratica minuta; uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti
più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si
possono compiere cose veramente grandi; e che la perfezione meccanica cui ha tutto
sacrificato alla fine non gli servirà a nulla, perché mancherà la forza vitale che, per far
funzionare meglio la macchina, ha preferito bandire.

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