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venerdì 11 ottobre 2013

“L’Art pour l’Art”: considerazioni sul concetto di autoreferenza della creazione artistica

Da "http://marteau7927.wordpress.com/2011/06/19/lart-pour-lart-considerazioni-sul-concetto-di-autoreferenza-della-creazione-artistica/" :


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(articolo apparso sul quarto numero, ottobre-dicembre 1992, del Bollettino dell’Accademia Lucchese di Scienze Lettere e Arti)
 
   Dobbiamo molto alla letteratura del XIX secolo, in particolare quella francese, non solamente per le sorti gloriose che assume allora la forma del romanzo, ma soprattutto per l’accento fantasmagorico, libertario suggerito ad ogni genere artistico che sappia accogliere internamente il fine della propria creatività.
   Tutto l’800 è animato dalla querelle tra ciò che è Arte e ciò che è Vita, Natura, la produzione letteraria del periodo esprime in modo esemplare questa contrapposizione, in essa le tendenze al realismo sono strettamente bilanciate da un forte impulso poetico che predica il distacco dal reale.
   L’espressione “ l’art pour l’art ” compie così il suo percorso accusata di essere volta per volta una bandiera che copre una merce senza nome[1], oppure un potenziale “faticoso artifizio”[2] in cui le singole immagini stanno “come idoli, che l’artista plasma e adora”[3]. Raramente però si rammenta l’origine di tale orientamento estetico: “ l’art pour l’art ” vede la luce come richiesta di atemporalità, indipendenza morale e sociale per l’attività artistica, troviamo il suo conio e la sua prima teorizzazione nell’opera del filosofo francese Victor Cousin (1792-1865) dal titolo Du Vrai du Bien et du Beau (1853). Da Cousin in poi il comune spirito di fraintendimento s’è adagiato sulla presunta aridità della formula, madre d’una devozione cieca che gioca ad annientare la stessa prassi dell’atto artistico.
   Vorrei sottolineare il fatto facilmente appurabile che l’intento dichiarato degli artisti da prendere in considerazione è attivamente mirato al debellamento del pregiudizio, secondo cui l’arte deve essere schiava del luogo e degli anni in cui si trova malauguratamente ad agire. In fondo è la cosiddetta crisi che partorì la décadence a impartirci una lezione: vi sono materiali da trattare artisticamente e materiali che non consentono all’artefice di venirne fuori con una bella pagina scritta. Di più, la biasimata fuga dalla realtà non può essere un disonore se vi sono scrittori capaci d’inventare una trama che sia originale e contemporaneamente possieda un bello stile. Sarebbe come attaccare Dante perché si è immaginato ciò che non ha vissuto realmente! Dante però se ne esce ingigantito dall’uso delle allegorie atte a perseguire un fine morale, mentre la produzione del décadent elargirebbe motivi inattendibili e fuorvianti, si insinuerebbe tramite la seduzione per far perdere al lettore la nozione della realtà, della natura!
   Siamo quindi arrivati al punto: il disturbo che gli autori dediti al culto de “ l’art pour l’art ” hanno causato con il loro aristocratico distacco, in primis il sospetto che ditero questo trobar clus si celi il nulla. Affrontiamo dunque questi famigerati autori del decadentismo.
   Théophile Gautier (1811-1872) pubblica il romanzo Mademoiselle de Maupin nel 1836, facendolo precedere da una Préface, celebratissimo manifesta dell’arte non realista, la cui tesi portante rivendica il pieno dominio dell’artista sulle sue facoltà creative e l’indipendenza da qualunque interpretazione di carattere morale:
   “ Il est aussi absurde de dire qu’un homme est un ivrogne parce qu’il décrit une orgie, un debauché parce qu’il raconte un debauche, que de prétendre qu’un homme est vertueux parce qu’il a fait un livre de moral, tous les jours on voit le contraire. – C’est le personnage qui parle et non l’auteur. ”
   (È tanto assurdo dire che un uomo è un ubriacone perché descrive un’orgia, un debosciato perché narra di una dissolutezza, quanto il pretendere che un uomo sia virtuoso perché ha scritto un libro moraleggiante; vediamo quotidianamente il contrario. – È il personaggio a parlare, non l’autore.)[4]
   A questo si aggiunga l’ostentato disprezzo di Gautier per una concezione d’utilità sociale dell’arte:
   “ Il n’y a de vraiment beau que ce qui ne peut servirà rien, tout ce qui est utile est laid, car c’est l’expression de quelque besoin, et ceux de l’homme sont ignobles et degoûtants, comme sa pauvre et infirme nature. ”
   (Di veramente bello c’è soltanto quel che non può servire e niente; tutto ciò che è utile è brutto, perché è espressione di qualche bisogno, e i bisogni dell’uomo sono ignobili e disgustosi come la sua povera e inferma natura.)[5]
   Oltre ai temi espressi dalla Préface di Mademoiselle de Maupin, la polemica contro il realismo è determinata nel rifiuto del ruolo primario della Natura, dell’oggettità presa a modello per la creazione artistica. Una testimonianza a questo proposito ci viene da un grande ammiratore e amico di Gautier, Charles Baudelaire (1821-1867), il quale si impegna a screditare i sostenitori della dottrina naturalistica in una recensione al Salon parigino del 1859:
   “ A ces doctrinaires si satisfaits de la nature un homme immaginatif aurait certainement eu le droit de répondre: ‘Je trouve inutile et fastidieux de représenter ce qui est, parce que rien de ce qui est ne me satisfait. La nature est laide, et je préfère les monstres de ma fantasie à la trivialité positive.’ ”
   (A questi dottrinari così soddisfatti della natura un uomo immaginario avrebbe certamente avuto il diritto a rispondere: ‘Io trovo inutile e fastidioso rappresentare ciò che è, perché niente di ciò che è mi soddisfa. La natura è brutta, e io alla trivialità positiva preferisco i mostri della mia fantasia.’ ”[6]
   Parole assai più dure nei confronti della Natura, ritenuta ormai superata dall’opera dell’artista, sono quelle che rinveniamo in À rebours, il capolavoro della décadence pubblicato nel 1884 da joris-Karl Huysmans (1848-1907). Il protagonista del romanzo. Des Esseintes, in una serie di considerazioni si convince che all’artificio spetti il primato su tutte le cose, natura inclusa:
   “ Comme il disait, la nature a fait son temps… A n’en pas douter, cette sempiternelle radoteuse a maintenant usé la débonnaire admiration des vrais artistes, et le moment est venu où il s’agit de remplacer, autant que faire se pourra, par l’artifice. ”
   (La natura, diceva, ha fatto il suo tempo… Senza dubbio quell’eterna rimbambita ha ormai esaurito la bonaria ammirazione dei veri artisti, ed è venuto il momento in cui deve essere sostituita per quanto è possibile dall’artificio.)[7]
   Un contributo assai significativo alla querelle in questione, forse il più documentato e apprezzato negli ultimi tempi, è quello offertoci dalla produzione critica di Oscar Wilde (1854-1900), lo scrittore che maggiormente ha sostenuto in prima persona il primato dell’Arte sulla Vita e sulla Natura, sintetizzandolo con la famosa frase “The artist can express everything” (L’artista può esprimere tutto)[8]. Un meraviglioso dialogo di Wilde, The Decay of Lying – An observation, apparso nel gennaio 1889 sulla rivista londinese “The Nineteenth Century”, amplifica il dualismo tra Arte e realtà esterna, il risultato di questa discussione è al limite del parossismo, ma poi non tanto, quando Vivian, protagonista dell’opera, afferma riguardo alla Natura:
   “ For what is Nature? Nature is no great mother who has borne us. She is our creation… At present people see fogs, not because there are fogs, but because poets and painters have taught them the mysterious loveliness of such effects. There may have been fogs for centuries in London. I dare say there were. But no one saw them, and so we do not know anything about them. ”
   (Perché che cosa è la Natura? La Natura non è una grande madre che ci ha partoriti. È la nostra creazione… Oggidì la gente vede le nebbie e non perché ci sono le nebbie, ma perché i poeti e i pittori le hanno insegnato la misteriosa bellezza di tali effetti. Probabilmente ci sono state nebbei per secoli a Londra. Oso dire che ci furono. Ma nessuno le vide, e così non ne sappiamo niente.)[9]
   Così si impone l’idea dell’imitazione dell’Arte da parte della realtà, la stessa idea che Marcel Proust (1871-1922) celebra in una pagina memorabile della sua Recherche:
   “ Des femmes passent dans la rue, différentes de celles d’autrefois puisque ce sont des Renoir, ces Renoir où nous nous refusins jadis à voir des femmes. Les voitures sont aussi des Renoir, et l’eau, et le ciel… ”
   (Passano signore nella via, diverse da quelle di prima, perché ora sono altrettanti Renoir, quei Renoir in cui ci rifiutavamo un tempo di riconoscere delle donne. E anche le carrozze sono dei Renoir, e l’acqua e il cielo…)[10]
   Un approccio simile, e non siamo più nel XIX secolo, lo osserviamo in Martin Heidegger (1899-1976), un filosofo che considera come l’opera artistica muova al riconoscimento degli oggetti della realtà che riproduce, esibendo mediante la rappresentazione la realtà dell’oggetto. Nel saggio Der Ursprung des Kunstwerkes (risultato di alcune conferenze tenute tra il 1935 e il 1936 e raccolto, insieme ad altri saggi, nel volume Holzwege del 1950) Heidegger offre come esempio un paio di scarpe da contadino che, sebbene universalmente note, hanno bisogno della visione sensibile di un quadro di Van Gogh per essere riconosciute come mezzo. Richiamandosi alla parola greca che indica il concetto di verità, ἀλήθεια, Heidegger traduce con non-nascondimento (Unverborgenheit) delle scarpe nel dipinto di Van Gogh l’esibizione dell’essere dell’ente, le scarpe, nella rappresentazione stabile del suo apparire. La pittura, basandosi sul senso della vista, ha aperto al riconoscimento ciò che prima veniva confuso e non aveva un nome[11].
   Con Heidegger credo di poter concludere questa breve rassegna di considerazioni riguardo l’autoreferenza della creazione artistica, è ovvio che il tema richiederebbe un numero inesauribile di fonti, io mi sono semplicemente limitato a citare i casi più considerevoli, gli autori che lungo il XIX secolo hanno sviluppato quest’idea dell’arte che ha in sé il proprio fine. Ciò che importa è liberare un’espressione apparentemente vieta come “ l’art pour l’art ” dalle pastoie in cui molti critici letterari l’hanno confinata. Il dibattito è ancora in svolgimento, ma non v’è dubbio che simili concezioni apparse nell’800 abbiano per sempre determinato un’apertura di senso, una riflessione sul ruolo dell’arte nelle sue manifestazioni.
© Marco Vignolo Gargini

[1] Walter Benjamin, Der Sürrealismus, Literarische Welt, 8 febbraio 1929.
[2] Benedetto Croce, La Poesia, Laterza, Bari 1980, p. 51.
[3] Op. cit. p. 49.
[4] Théophile Gautier, Mademoiselle de Maupin, Bibliothèque Charpentier, Eugène Fasquelle Editeur, Paris 1924, p. 17. Traduzione di Marco Vignolo Gargini.
[5] Op. cit. p. 22.
[6] Charles Baudelaire, Curiosités esthétiques, Calman-Levy, Paris 1921, p. 263. Traduzione di Marco Vignolo Gargini.
[7] Joris-Karl Huysmans, À rebours, Etienne Fasquelle, Paris 1955, pp. 51, 52, traduzione italiana di Ugo Dèttore in A ritroso, Rizzoli, Milano 1982, p. 52.
[8] Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray, Penguin Books, London 1985, p. 21. Traduzione di Marco Vignolo Gargini.
[9] Oscar Wilde, The Decay of Lying- An observation, from Selected Writings, Oxford University Press, London 1961, p. 27. Traduzione di Marco Vignolo Gargini.
[10] Marcel Proust, Le Coté de Guermantes II, Gallimard, Paris 1954, p. 25, traduzione di Mario Bonfantini in I Guermantes, Einaudi, Torino 1978, p. 354.
[11] Martin Heidegger, Sentieri interrotti, traduzione di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 21.

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