Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

martedì 8 ottobre 2013

Protagora 2, Gorgia e Prodico

Da WikiPedia:

Protagora (in greco Πρωταγόρας; Abdera, 486 a.C. – mar Ionio, 411 a.C.) è stato un retore e filosofo greco antico, considerato il padre della sofistica.

Biografia

Nasce ad Abdera, in Tracia, negli anni ottanta del V secolo a.C. Le fonti raccontano che a trent'anni cominciò a dedicarsi all'insegnamento sofistico, il che lo portò a viaggiare per tutta la Grecia e a soggiornare più volte ad Atene. Qui entrò in contatto con personalità importanti sia dell'ambito culturale (come Euripide) sia di quello politico, come Pericle, che lo scelse per redigere la costituzione di Thurii, nuova colonia panellenica fondata nel 444 a.C.
Probabilmente la vicinanza a Pericle, nonché le posizioni agnostiche in ambito teologico in un momento di crisi per la polis di Atene (erano gli anni dello scandalo delle Erme), gli procurano un'accusa per empietà e la condanna all'esilio (per altri, fu Protagora a fuggire, dopo la morte del protettore Pericle, per evitare pene peggiori), che lo portò infine a morire lontano da Atene, durante un naufragio (a seguito della condanna, pare che i suoi libri siano stati addirittura bruciati pubblicamente, Cfr. Diogene Laerzio, IX, 52).


Opere

Fra le opere che quasi certamente appartengono a Protagora, ricordiamo:
  • Ragionamenti demolitori (citati anche Sulla verità);
  • Le antilogie.
Protagora compose anche scritti sulla religione e sullo Stato, ma di questi ci sono rimasti solo dei frammenti.

Il pensiero

L'uomo misura delle cose

La filosofia di Protagora è riassumibile in una sua famosa asserzione:
« L'uomo è la misura di tutte le cose di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono »
(Protagora, fr.1, in Platone, Teeteto, 152a)
Con "uomo" (secondo l'interpretazione dell'asserzione fatta da Platone) Protagora intese il singolo individuo e con "cose" gli oggetti percepiti attraverso i sensi. Quindi, molto semplicemente, il sofista voleva dire che la realtà oggettiva appare differente in base agli individui che la interpretano: «quali le singole cose appaiono a me, tali sono per me e quali appaiono a te, tali sono per te: giacché uomo sei tu e uomo sono io».
La filosofia del Novecento ha però interpretato la parola "uomo" con "comunità" (o civiltà) e con "cose" i valori, o gli ideali, che ne sono fondamento: ognuno, quindi, giudicherebbe ciò che lo circonda in base alla mentalità della comunità a cui appartiene.
Una terza interpretazione vede nella parola "uomo" l'umanità, e nella parola "cose" la realtà in generale. Quindi secondo questa tesi gli Uomini giudicherebbero «la realtà secondo parametri comuni tipici della specie razionale cui appartengono, cioè l'Umanità» (Abbagnano-Fornero).
Questa interpretazione del pensiero protagoreo ha portato alcuni ad accostare il sofista di Abdera a Immanuel Kant.
Forse tutte e tre le interpretazioni sono valide, in quanto cosa volesse intendere Protagora con le parole "uomo" e "cosa" è difficile stabilirlo. Molto probabilmente egli intendeva tutte e tre le opzioni mutando il senso delle due parole a seconda del contesto. Ad esempio: parlando dei gusti gastronomici Protagora si riferiva al singolo individuo; parlando della civiltà greca contrapposta a quella orientale, egli intendeva l'"uomo-misura" come civiltà; mentre se si riferiva agli Uomini in relazione alla natura (o, ancora, agli dei) è possibile che intendesse l"uomo" come specie. In generale Protagora sosteneva infatti che non era necessario scegliere una determinata interpretazione, in quanto non c'è contraddizione tra esse essendo tale mutevolezza di lettura essenza dell' asserzione stessa.

Antilogie

In generale si può dire che la posizione protagorea sia “umanista” o “antropocentrica” (in quanto è posto l'uomo come metro di giudizio e di valutazione delle "cose") e “fenomenista” (la realtà ci appare ai nostri occhi secondo il nostro metro di giudizio).
Dal relativismo derivano il relativismo conoscitivo, per cui non esiste un principio assoluto, e il relativismo etico, secondo cui non esiste un bene o un modello di comportamento assoluto, ma ciò varia da uomo a uomo. In mancanza di una verità e un bene assoluti, la parola logos è dominatrice, e la retorica ha quindi un ruolo fondamentale al fine di persuadere l'interlocutore. Per dimostrare ciò Protagora elabora le cosiddette antilogie: discorsi contraddittori che evidenziano la relatività di valori e norme, mostrando che è possibile sostenere su un medesimo argomento due discorsi (logoi) in contraddizione tra di loro.
L'antilogica avrà grande fortuna nei decenni successivi, e sarà alla base dell'eristica, corrente della seconda generazione sofistica secondo la quale non è possibile giungere ad una verità ultima, poiché essa non esiste, ma è possibile solo battagliare con i discorsi. L'eristica è, sotto certi aspetti, una involuzione dell'antilogica: diversamente dall'eristica, questa però non si limita a battagliare, ma consiste in una tecnica retorica che ha lo scopo di mettere in difficoltà l'avversario, rilevando le contraddizioni del discorso di partenza. Sotto questo aspetto, l'antilogica è quindi una tecnica di discussione, l'eristica no.
Non possediamo esempi di discorsi antilogici risalenti direttamente a Protagora; possediamo però altre testimonianze, spesso parodie oppure opere di allievi del sofista. È questo il caso, ad esempio, del dialogo tra Discorso Migliore e Discorso Peggiore nelle Nuvole di Aristofane, oppure dei cosiddetti Dissoi logoi, trattato anonimo in cui è riconoscibile l'influenza protagorea. Ecco dunque un esempio tratto da quest'opera, relativamente al dibattito tra ciò che si ritiene bello o turpe:

« Presso i Macedoni si ritiene bello che le fanciulle prima di sposarsi amino e si congiungano con un uomo, e dopo le nozze, brutto; presso i Greci, è brutta l'una e l'altra cosa. Gli Sciti ritengono bello che uno, dopo aver ammazzato un uomo e averne scuoiata la testa, ne porti in giro la chioma posta dinanzi al cavallo, e dopo averne indorato il cranio, con esso beva e faccia libagioni agli dei; invece, presso i Greci neppure si vorrebbe entrare nella casa di uno che avesse compiuto tali cose. I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l'esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili. I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come donne, e si congiungano con la figlia, con la madre, con la sorella; per i Greci son cose turpi e contro legge. Presso i Lidi, che le fanciulle si sposino dopo essersi prostituite per denaro, sembra bello, presso i Greci, nessuno le vorrebbe sposare. Anche gli Egizi non s'accordan con noi su ciò che è bello; qui è ritenuto bello che sian le donne a tessere e filar la lana; lì invece gli uomini, e che le donne facciano quel che qui fanno gli uomini. Impastare l'argilla con le mani, e la farina coi piedi, lì è bello, ma per noi è tutto il contrario »
(Diels-Kranz 90, 2; trad.: M. Timpanaro Cardini)
Per non entrare nel caos provocato dal relativismo bisogna far riferimento al criterio dell'utile, il quale è un criterio di scelta che giova sia all'individuo sia alla collettività (principio debole dell'utilità).
Pertanto, la verità etica che guida le scelte non è per Protagora un valore assoluto e oggettivo, poiché è impossibile da individuare, ma è il risultato di una lunga esperienza, che dimostra l'utilità di un dato comportamento (per questo si può dire che il sofista avesse una concezione di "verità etica" di carattere umanistico-storicista).
Ma la tradizione critica ha ritenuto tale posizione poco solida, perché anche per presupporre ciò che è realmente utile bisogna stabilire un criterio di verità, altrimenti si risolverebbe in un "pragmatismo amoralistico". A queste obiezioni si può rispondere che il "principio debole d'utilità" non è il rifiuto aprioristico di un principio etico, ma esso è l'accettazione di un principio condiviso non assoluto. Alla seconda obiezione si può rispondere che la posizione di Protagora è un invito all'assunzione da parte del singolo individuo delle sue responsabilità di fronte a sé stesso e alla società. Inoltre, il filosofo di Abdera vuole invitare i singoli individui ad accettare delle regole di comune convivenza e di pubblica utilità.

La retorica

Secondo Protagora il filosofo si presenta come "propagandista dell'utile", ossia colui che, grazie alle sue doti oratorie, indirizza le scelte verso la pubblica utilità. Caso eclatante è il suo invito «di rendere migliore il discorso peggiore», ossia di trasformare l'opinione meno utile in quella più utile. Di conseguenza l'arte della retorica ha una funzione politico-educativa volta a favorire il "bene comune".
Tale posizione è stata vista come il fondamento dell'eristica (ossia l'arte del disputare, al di là della veridicità delle proprie basi concettuali di partenza), accusa spesso rivolta ai Sofisti, ma soprattutto come legittimazione di quell'atteggiamento definibile come "servilismo" verso i potenti. Infatti, i sofisti, potendo vantare delle doti oratorie, erano in grado di convincere la maggioranza dei cittadini (ovviamente bisogna tener conto che ci si riferisce a polis dove vigeva un regime democratico come quello ateniese) su cosa fosse utile e cosa no. Tant'è che gli avversari dei sofisti accusarono questi filosofi di praticare il "mestiere della parola" (o del disputare).
Va detto che il pensiero protagoreo non è una legittimazione al servilismo verso i "potenti", ma è un invito all'assunzione di responsabilità da parte del singolo e della condivisione delle scelte, basandosi sull'esperienza e, quindi, seguendo il principio "debole" d'utilità privata e pubblica.

Antropologia e politica

Come Democrito, anche Protagora vede nel passato degli Uomini la scelta, fondamentale per la propria sopravvivenza, di vivere assieme ad altri Uomini. L'uomo, inoltre, si distingue dagli animali anche perché ha messo in atto quelle tecniche (dal greco τέχνη: abilità, destrezza, mestiere, arte) che gli hanno permesso di modificare e adattare l'ambiente naturale alle sue esigenze. Tuttavia a garantire la sopravvivenza all'Uomo non bastano le "tecniche comuni" (agricoltura, falegnameria, artigianato, ecc...), ma è necessaria una "tecnica superiore" che permetta d'indirizzare le altre verso il "bene comune": la politica. Essa (come viene raccontato nel Protagora di Platone) è un dono che Zeus ha fatto agli Uomini indistintamente, poiché tutti gli Uomini della πόλις (pόlis) sono coinvolti nella "politica". Inoltre, il sofista si rese conto di una necessaria "cultura politica" che ogni cittadino doveva possedere.
La visione della "politica" in Protagora è figlia dell'epoca in cui egli visse; il fatto che ogni cittadino sia coinvolto nella vita politica della sua comunità è il miglior manifesto della democrazia ateniese, vista come esempio e modello da seguire.
Un ottimo esempio del concetto di Uomo in Protagora è dato dal mito di Prometeo riportato da Platone nel Protagora.

Agnosticismo

Protagora può essere considerato uno dei primi pensatori agnostici. La sua opera Sugli dèi (DK 80B4) cominciava infatti con le seguenti parole:
« Intorno agli dèi non ho alcuna possibilità di sapere né che sono né che non sono. Molti sono gli ostacoli che impediscono di sapere, sia l'oscurità dell'argomento sia la brevità della vita umana. »
(citato in Diogene Laerzio)
Secondo Diogene Laerzio, fu proprio a causa di quest'opera che Protagora venne bandito dagli ateniesi. I suoi libri sarebbero stati «bruciati nella piazza del mercato dopo che per mezzo di un araldo erano state requisite tutte le copie a coloro che le possedevano, uno per uno».

« Al primo fra tutti i sofisti
di prima e di poi
d'acuto e mirabile ingegno, o Protagora
in cenere vollero ridurre i tuoi scritti
dacché affermasti di non sapere
gli Dei e la loro natura
massima cura avendo
d'imparziale giudizio
la fuga cercasti e non ti valse
per non bere anche tu
la fredda bevanda di Socrate. »
(Igino - frammenti - c.f.r. Diels-Kranz)


Da WikiQuote:

Citazioni di Protagora

  • Intorno agli dèi non ho alcuna possibilità di sapere né che sono né che non sono. Molti sono gli ostacoli che impediscono di sapere, sia l'oscurità dell'argomento sia la brevità della vita umana. (citato in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, lib. IX, cap. VIII, traduzione di Marcello Gigante, Mondadori 2009)

Frammenti di alcune opere

Sulla verità

  • Di tutte le cose misura è l'uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono. (frammento 1)

Antilogie

  • I Macedoni credono bello che le ragazze siano amate e si uniscano con un uomo prima di sposarsi, ma brutto dopo che si siano sposate; per i Greci è brutta tanto l'una cosa che l'altra... I Massageti fanno a pezzi i genitori e li mangiano e si crede che sia una tomba bellissima venir seppelliti nei propri figli; se invece in Grecia qualcuno facesse questo, sarebbe scacciato e dovrebbe morire coperto di vergogna per aver commesso un'azione brutta e terribile. I Persiani giudicano bello che anche gli uomini si adornino come le donne e che si congiungano con la figlia, la madre e la sorella: i Greci invece giudicano queste azioni brutte e immorali; (frammento 2)
  • Riguardo agli dèi, non so né che sono, né che non sono, né di che natura sono, opponendosi a ciò molte cose: l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana. (frammento 4)
  • Rispetto e giustizia sono, nel mito, la stessa cosa che l'ordine e l'adattamento sono fuori del mito. (frammento 5)
  • Intorno ad ogni oggetto ci sono due ragionamenti contrapposti. (frammento 6a)
  • Render più forte l'argomento più debole. (frammento 6b)
  • Non esiste una tangente che tocchi la circonferenza in un punto solo, come vuole la geometria (frammento 7)
  • Se qualcuno ordinasse a tutti gli uomini di radunare in un sol luogo tutte le leggi che si credono brutte e di scegliere poi quelle che ciascuno crede belle, neppure una ne resterebbe, ma tutti si ripartirebbero tutto. (frammento 18)


Il Protagora (Πρωταγόρας) è un dialogo di Platone dedicato al tema dell’insegnabilità della virtù, teso in particolare a dimostrare l’inconsistenza dalla prassi educativa dei sofisti.
Tra le opere meglio riuscite del filosofo per la sua ricercatezza stilistica, questo dialogo viene sovente accostato al Gorgia, che ha per protagonista l’altro padre della Sofistica: entrambi si collocano infatti nella fase di transizione dai dialoghi aporetici giovanili a quelli della maturità, e la loro data di composizione pertanto dovrebbe essere successiva al 388 a.C.
Per quanto riguarda la struttura, il Protagora si presenta nella forma del dialogo riportato: Socrate, incontrato un amico anonimo (o forse più d’uno, come suggerirebbe 310a2), sfugge alle domande sulla sua relazione con Alcibiade proponendo al suo interlocutore il resoconto del dialogo avuto poco prima con Protagora alla presenza di altri importanti sofisti, oltre a Callia e allo stesso Alcibiade.

Chi è il sofista?

Non è ancora l’alba, quando Socrate viene svegliato dalla voce del giovane Ippocrate. Il motivo della visita è presto detto: Protagora, il celebre sofista, è giunto ad Atene e Ippocrate vorrebbe diventare suo allievo. Tuttavia, per essere accettato, questi necessita che qualcuno lo presenti al sofista (310b-311a). Ovviamente, Socrate acconsente ad accompagnare il giovane, desideroso di poter discutere con il celebre «maestro di virtù».
È però troppo presto per recarsi alla casa di Callia, il celebre mecenate ateniese che ospita Protagora, e pertanto Socrate propone di spostarsi nel cortile, dove passerà il tempo discutendo con il giovane amico sulle aspettative che ha nei confronti del sofista. Ippocrate spera di poter ricevere una buona formazione, poiché il maestro a cui si sta per rivolgere ha fama di essere «un esperto della sapienza» (312c); tuttavia non sa dire di quale sapienza sia esperto: anche affermando che il sofista insegna a tenere discorsi, resta il problema del loro argomento (312e). Non sapendo più cosa rispondere, Ippocrate può solo ascoltare il monito di Socrate, che lo mette in guardia dall’affidare la propria formazione a persone che, come i sofisti, non danno garanzie sulla validità o meno dei propri insegnamenti. Essi sono infatti paragonabili a dei mercanti che cercano di vendere la propria merce lodandola di fronte all’acquirente; pertanto, se bisogna stare attenti a non farsi raggirare quando si acquistano beni che riguardano il corpo, a maggior ragione si dovrà stare attenti per ciò che riguarda l’anima, poiché è molto facile ricavarne dei danni irreversibili (314a-c).

Protagora: il mito di Prometeo ed Epimeteo

Continuando a discutere, Socrate e Ippocrate giungono infine alla meta: la casa di Callia. Tuttavia, una volta arrivati il portiere che sta di guardia all’ingresso, infastidito dall’andirivieni di sofisti, si rifiuta di lasciarli passare, e solo dopo molte insistenze i due riescono a entrare (314c-e).
Nel cortile interno alla casa scorgono subito Protagora che passeggia discutendo con i suoi seguaci, mentre, più discosti, Socrate individua i sofisti Ippia di Elide e Prodico di Ceo.
Inoltre, poco dopo fanno il loro ingresso Alcibiade e Crizia.
È su questo sfondo che Socrate e Protagora terranno la loro discussione, una vera e propria assemblea a cui parteciperanno anche gli altri eminenti personaggi presenti (316d-317e). Il filosofo non perde tempo, e domanda subito al sofista quale guadagno avrà Ippocrate dalla sua frequentazione: Protagora infatti si propone di insegnare ai propri allievi una condotta assennata, in modo che diventino buoni cittadini (319a).
Ma, domanda Socrate, è veramente possibile insegnare la virtù come si fa con le technai? Mentre per queste ultime si prende per valido solo il consiglio degli esperti, così non è per la virtù, riguardo alla quale si tiene conto dell’opinione di chiunque. Né d’altra parte esistono veri e propri esperti in materia e anzi, capita spesso che chi è virtuoso non sia poi in grado di insegnare ad esserlo ai propri figli. A queste obiezioni, Protagora decide di rispondere con un lungo discorso, a sua volta composto di due parti: un mythos (320d-323a) e un logos (323a-328d).
Il mythos racconta della creazione degli esseri umani a opera dei due titani Prometeo ed Epimeteo. Allorché i due fratelli furono incaricati di dare forma agli esseri che avrebbero popolato la terra, Epimeteo si mise all’opera per plasmare in modo armonioso i vari animali, facendo sì che nessuna specie sopraffacesse o annientasse un’altra: diede dunque velocità, zanne e artigli ai predatori (limitandone però il numero), forza, corna e zoccoli per difendersi agli erbivori, e così via. Tuttavia, quando Prometeo venne a controllare l’operato del fratello, vide che tra tutte le creature solo l’uomo era rimasto privo di difese, nudo e inerme di fronte a qualsiasi pericolo. Mosso a compassione, il titano rubò allora il fuoco a Efesto e la sapienza tecnica ad Atena, per donarli all’uomo. Forniti così di mezzi per sopravvivere, gli uomini rischiavano però di estinguersi a causa della diffidenza reciproca, che impediva la formazione di gruppi stabili e relegava gli individui alla solitudine. Preoccupato dalla sorte dei mortali, Zeus inviò allora Ermes sulla Terra affinché distribuisse pudore (αἴδως) e giustizia (δίκη) a tutti gli uomini, di modo che tutti possiedano queste virtù. Quindi, mentre per le altre technai vi sono pochi esperti a cui gli altri si devono rivolgere in caso di bisogno, per la virtù ciò non accade, poiché tutti ne sono provvisti.
La narrazione mitica permette a Protagora di svolgere alcune considerazioni nel lungo logos che segue. È infatti grazie al dono di Zeus che sono nate le città e i mortali sono potuti uscire dalla condizione ferina; e proprio per mantenere questo status, i genitori educano fin dall'infanzia i figli alla virtù. La virtù umana è dunque insegnabile, e chiunque è in grado di apprenderla.
Certo, qualcuno si dimostrerà meno virtuoso degli altri, ma d'altra parte ciò avviene anche nelle altre technai: tra gli allievi di un citaredo accade che qualcuno superi gli altri, eppure tutti, a loro modo, hanno appreso a suonare la cetra. E così, anche per la virtù, qualsiasi individuo che abbia ricevuto un'educazione sarà senz’altro più virtuoso di un primitivo o di un animale.
Ulteriore dimostrazione che la virtù è insegnabile sono le leggi, che puniscono chi le viola: scopo della pena è infatti quello di evitare che il colpevole reiteri il reato, e ciò le attribuisce un valore correttivo difficilmente sostenibile se si ritiene che la virtù non sia insegnabile.

La virtù e le sue parti

Il discorso di Protagora lascia senza parole Socrate, che solo a fatica riesce a riaversi dalla meraviglia (328d). Ripresosi, interroga il sofista in merito a una lacuna del suo ragionamento: Protagora ha infatti parlato di santità, temperanza e coraggio come di parti di un’unica virtù. Ma queste parti come si articolano all’interno della virtù?
Il sofista accetta il paragone proposto da Socrate tra la virtù e il volto: coraggio, temperanza, santità, giustizia sono come occhi, naso, orecchi e le varie parti di un volto, distinte le une dalle altre ma in stretta relazione tra di loro (329d). Tuttavia, lo stesso filosofo dimostra che non è possibile sostenere una distinzione netta tra le varie virtù, poiché, mentre gli uomini possono essere coraggiosi ma non santi, o giusti ma non temperanti, nel caso delle virtù prese in sé ciò non accade: la giustizia in sé è sempre santa, come la santità è giusta (331a-b). Il bene, poi, ha come contrario il male, il giusto l’ingiusto, la sapienza l’insipienza e, così, ogni cosa ha un solo contrario: non è dunque possibile che l’insipienza sia allo stesso tempo contraria alla sapienza e alla saggezza, a meno che non si ammetta - appunto - che queste ultime siano la stessa cosa (333a-b).
Dal canto suo, però, Protagora non è d’accordo e, irritato dalle domande di Socrate, propone una visione relativista della virtù, coerente con la sua dottrina dell’homo mensura.
Molte cose, afferma, sono buone e utili in certe circostanze, e in altre risultano dannose - così, certi farmaci sono utili all’uomo ma letali per alcuni animali, l’olio è dannoso per le piante ma ottimo per le pelli degli uomini, e via dicendo. Il bene è dunque qualcosa di vario e multiforme, e una stessa cosa può essere consigliabile a taluni e vietata ad altri (334a-c).

Intermezzo: il carme di Simonide

Le parole di Protagora ottengono l’approvazione dei presenti e l’indignazione di Socrate, che minaccia di lasciare la discussione qualora il sofista non lo accontenti abbandonando i lunghi discorsi e ricorrendo invece alla brachilogia. Socrate dice infatti di essere smemorato, e di faticare a seguire un discorso troppo lungo: meglio allora procedere adagio con domande e risposte brevi.
Inoltre, aggiunge di doversi sbrigare, per via di una commissione che non può rimandare.
Protagora è però sprezzante a una simile proposta, e per calmare gli animi deve intervenire Callia, il padrone di casa, che insiste affinché Socrate non se ne vada. Intervengono così anche Alcibiade e Crizia, e quest’ultimo chiama in causa Prodico e Ippia. Unica via di soluzione è che Protagora interroghi Socrate, ponendogli delle domande. Pur contro voglia, Protagora accetta la proposta e inizia a interrogare Socrate sulla poesia (338e-339b).
L’analisi letteraria dei carmi più importanti e diffusi, in cui venivano trattati temi etici, era infatti una prassi educativa tipica della Sofistica.
Nello specifico, Protagora decide di partire dal carme A Skopas di Simonide di Ceo, in cui il poeta critica un'affermazione di Pittaco secondo cui sarebbe «difficile» mantenersi onesti: ciò sembra agli occhi di Protagora una contraddizione, poiché nello stesso carme Simonide aveva affermato in precedenza che «difficile» era diventare buoni. Socrate, tuttavia, è di avviso contrario e, chiamando in causa Prodico, concittadino di Simonide, ricorre alla sua dottrina della sinonimica per svelare quello che sarebbe il genuino significato del carme (341a).
La parola «difficile», infatti, implica un riferimento al male, per cui Pittaco verrebbe criticato da Simonide per il semplice fatto che sembra ritenere un male il mantenersi buoni e onesti. Tralasciando poi questo tipo di analisi e rivolgendo l’attenzione all’intero carme, Socrate dimostra che anche Simonide era dell'idea che si compie il male non deliberatamente, per propria volontà, ma solo per ignoranza.
Pittaco aveva sbagliato nel dire che mantenersi buoni è difficile: difficile è infatti divenire buoni, ma mantenere se stessi in tale condizione non è difficile, semmai divino! (344e) Solo chi è in piedi può cadere, e allo stesso modo, colto da sventura, potrà divenire malvagio solo chi è buono, e non chi lo è già. Il cattivo medico non è qualcuno che non conosce la medicina (non sarebbe nemmeno un medico), ma piuttosto un medico che ha studiato l’arte e opera male; e così, malvagio può esserlo solo un uomo buono divenuto cattivo per lo sciagurato evento di perderne la scienza (345b).
Simonide, conclude Socrate, sembra dunque dire che nessuno compie il male volontariamente, ma perché costrettovi da eventi contingenti - ovvero, perché sottoposto alla volontà altrui o perché ha perso la conoscenza del bene.

La virtù è insegnabile?

Terminata la sua analisi del carme di Simonide, Socrate decide di tornare a discutere con Protagora sugli argomenti poc'anzi abbandonati, questa volta, però, ricorrendo alla brachilogia. Dopo aver richiamato l’attenzione sui punti lasciati in sospeso, Protagora dichiara che il coraggio è diverso dalle altre quattro virtù citate da Socrate (sapienza, temperanza, giustizia, santità), poiché capita spesso che uomini vili e malvagi abbiano in realtà coraggio da vendere (349d). Protagora sembra intendere il coraggio nel senso di «audacia», la quale, osserva Socrate, nel caso degli insipienti non è una virtù, ma follia: un soldato che non conosce le tecniche di lotta e si butta ugualmente nella battaglia non è coraggioso, semmai è pazzo.
Protagora è però un interlocutore attento, e smaschera la strategia di Socrate: audacia e coraggio non sono la stessa cosa, anche se capita che gli audaci siano coraggiosi, poiché l'audacia è frutto sia di scienza che di follia, mentre il coraggio dipende dalla disposizione dell'animo (350d-351d). Il dialogo si sposta così sul rapporto bene-piacere e sull’opinione diffusa secondo cui è possibile compiere il male perché sopraffatti da piacere o dolore. Capita sovente, afferma Socrate con l’approvazione di Protagora, che ciò che al momento provoca piacere con l'andare del tempo sia causa di dolore, mentre altre cose che provocano dolore (come le cure mediche) in seguito diano effetti piacevoli: ora, se tutti riconoscono che i farmaci sono un bene, pur dando dolore in un primo momento, se ne deve dedurre che i beni e i mali si devono distinguere non per il loro effetto immediato, ma per l'effetto futuro.
Ciò che dà effetti piacevoli è dunque un bene, mentre i mali provocano sofferenza (è la cosiddetta «tesi edonistica» del Protagora).
Pertanto, il bene coincide col piacere, il male con la sofferenza (355b-c), e a chi obietta che il piacere immediato è da preferire a quello futuro si può rispondere che, come le grandezze lontane possono sembrare a uno spettatore più piccole di quanto non siano, allo stesso modo i piaceri futuri possono sembrare inferiori a quelli immediati, pur essendo in realtà superiori.
La «salvezza della vita» sarà dunque raggiungibile con una techne in grado di valutare i piaceri e i dolori in modo equilibrato, detta appunto «arte della misura» (τέχνη μετρητικὴ).
Ma, se di techne si tratta, essa deve essere insegnabile, anche perché, d’altro canto, la sua ignoranza è causa di male - e quindi di dolore.
Da tutto questo Protagora esce di fatto confutato, poiché nello sviluppo della discussione ha negato la sua affermazione iniziale, e cioè che la virtù è una techne (361a-b).
Socrate, al contrario, avendola spuntata sul sofista, può abbandonare la riunione e dedicarsi al suo improrogabile impegno - qualunque esso sia.

Note

In realtà la datazione relativa di Gorgia e Protagora è assai controversa, e non è facile stabilire quale dei due dialoghi sia stato scritto prima. Talvolta viene fatta valere la ricercatezza stilistica per sostenere la posteriorità del Protagora, mentre altri studiosi ritengono che il Gorgia presupponga il Protagora e quindi gli sia successivo. C. Kahn addirittura colloca la composizione del Gorgia ai primi anni dopo la morte di Socrate. Per approfondire si rimanda a: Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, pp. XVIII-XX. Per la datazione del Protagora, si veda anche la cronologia riportata in: Platone, Protagora, a cura di F. Adorno, Bari 1996, p. XXXI.
Il soggiorno ateniese di Protagora a cui si fa riferimento, non è il primo (444 a.C.), ma il secondo, del 433 a.C. circa. Cfr. Platone, Protagora, a cura di F. Adorno, Bari 1996, p. 121, nota 11; Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, p. 64.
Callia era famoso in tutta Atene come protettore di artisti e sofisti. Si vedano ad esempio anche Apologia 20a e Cratilo 391b.
Non è da escludersi che il mito riportato da Platone segua le tesi che Protagora proponeva in una sua opera, intitolata Sulla costituzione originaria (DK 80 A1). Cfr. Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, pp. 78ss.
Protagora è un campione nei discorsi lunghi (macrologia), mentre Socrate preferisce i discorsi brevi (brachilogia). Nei discorsi troppo lunghi, infatti, è possibile che passi di mente l’argomento della discussione, cosa che non accade se il discorso è breve. Ma poi Socrate è realmente così smemorato?
Quale sia l’impegno di Socrate non è dato sapersi. È però probabile che si tratti di un trucco per spuntarla sul riluttante sofista, inducendolo ad accettare la brachilogia e quindi permettere a Socrate di fare uso dell’elenchos. D’altra parte, si tenga presente che all’inizio si dice che l’intero dialogo viene narrato da Socrate ad alcuni amici, incontrati pochi attimi dopo avere lasciato il consesso in casa di Callia.
Cfr. A. Capra, Agon logon: il Protagora di Platone tra eristica e commedia, Milano 2001, pp. 163-165.
La sinonimica di Prodico è la scienza del corretto uso delle parole. Prodico, allievo di Protagora, vantava di saper definire in modo univoco qualsiasi vocabolo, e il Protagora è la principale testimonianza attraverso cui siamo in grado di ricostruire questa dottrina.
Cfr. W. Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze 1959, vol. 1, p. 465.
La tesi edonistica del Protagora ha sollevato non pochi problemi agli studiosi, considerando che l’edonismo viene svalutato in dialoghi come il Gorgia e il Filebo. Per approfondire: Plato, Protagoras, translated with notes by C.C.W. Taylor, Oxford 1991, pp. pp. 161ss.

Gorgia


Il Gorgia (Γοργίας) è un dialogo di Platone risalente al gruppo dei dialoghi giovanili, e scritto probabilmente attorno al 386 a.C., al ritorno del filosofo dal suo primo viaggio in Sicilia.
Esso prende il titolo dal primo e più noto interlocutore che Socrate incontra in questo dialogo, il retore Gorgia di Leontini.

Ambientazione

Il dialogo è ambientato ad Atene, dove Gorgia, ospite in casa di Callicle insieme all'allievo Polo, si è recato per far sfoggio della propria arte oratoria. Non è facile stabilire quando l'opera sia ambientata, perché i riferimenti interni - le allusioni che i vari personaggi fanno ad avvenimenti passati o contemporanei - sono di difficile interpretazione, tanto da far ritenere ad alcuni studiosi, come suggerì Erodico di Babilonia, che non sia possibile dare una datazione coerente con i riferimenti presenti nel testo. In effetti, in 503c2 si menziona la recente morte di Pericle (429 a.C.), in 470d la presa di potere di Archelao I di Macedonia è avvenuta "solo l'altro giorno" (413 a.C.), mentre in 473e c'è un'allusione al processo seguito alla Battaglia delle Arginuse (403 a.C.).

Personaggi

Il dialogo ruota attorno a cinque personaggi, di cui i principali sono Socrate e il giovane ateniese Callicle.
  • Gorgia di Leontini, retore e sofista tra i più celebri;
  • Socrate, filosofo e maestro di Platone;
  • Cherefonte, allievo di Socrate, presente anche in altri dialoghi;
  • Polo di Agrigento, giovane discepolo di Gorgia, autore di un trattato di retorica;
  • Callicle, giovane aristocratico presso la cui casa Gorgia è ospite.
L'intero colloquio si svolge di fronte ad una vasta platea di uditori, che ha appena assistito ad una performance retorica (epídeixis) del maestro siciliano, nella quale sfidava chiunque a porgli una domanda a cui non avrebbe saputo rispondere.

Argomento e struttura

Gli antichi sottotitolavano questo scritto Sulla retorica (Περί ῥητορικῆς), e in effetti il dibattito nella prima parte del dialogo verte proprio sulla natura di questa disciplina, se sia da considerarsi un'arte (téchne) o qualcosa di diverso. In realtà il prosieguo del colloquio muta di molto l'argomento iniziale: alle prese con Polo, Socrate dibatte della giustizia, mentre con Callicle il discorso pare spostarsi su quale tipo di vita valga davvero la pena di vivere.
In sintesi, si può affermare che il Gorgia sia un dialogo che riguarda l'educazione dell'uomo alla giustizia, e che discute le possibilità di riuscita del filosofo e dei suoi concorrenti a questo riguardo.
Per quanto riguarda la struttura, il Gorgia è un dialogo diretto (cioè non riportato da personaggi terzi che hanno assistito o preso parte alla discussione) costruito secondo i canoni del genere drammatico: sono infatti riconoscibili un prologo (447a-449c), tre parti/atti, in cui si svolgono gli scontri tra Socrate e Gorgia, Socrate e Polo, Socrate e Callicle (rispettivamente: 449c-461b; 461b-481b; 481b-522e), e infine un epilogo con la narrazione di un mito escatologico (523a-527e).

Prologo: Cherefonte e Polo (447a-449c)

La scena si apre fuori dal luogo in cui Gorgia sta tenendo un'orazione, forse un ginnasio (Platone non descrive l'ambientazione). Socrate e Cherefonte, arrivando in ritardo, incontrano sull'uscio Callicle (uscito forse perché insofferente ai discorsi del sofista).
Il giovane accoglie i due facendo riferimento a un adagio popolare con un'allusione alla guerra e quindi, probabilmente, al tono veemente che si svilupperà nel corso del dialogo.
Socrate si dice dispiaciuto di essere arrivato tardi e di avere perso la conferenza di Gorgia.
Cherefonte si offre allora, in quanto colpevole del ritardo, di intercedere presso Gorgia, affinché questi ripeta davanti a loro il suo discorso, ma Socrate è di tutt'altro parere: preferirebbe porre al retore alcune domande.
Il cambio di scena è repentino. Dopo le poche battute iniziali ci ritroviamo all'interno del luogo in cui si trovano Polo, Gorgia e il suo pubblico.
Qui Cherefonte, approfittando della nota abilità di Gorgia a rispondere a qualsiasi domanda, lo interroga a nome di Socrate chiedendogli chi sia (tipica domanda socratica, in 447d).
Tuttavia Polo protesta e si offre di sostituire nella disputa il maestro, provato dallo sforzo precedente.
Cherefonte gli propone allora la domanda, ma Polo, con un artificio retorico, svia dalla risposta, affermando che Gorgia «partecipa dell'arte più bella di tutte» (448c9).
Cherefonte dimostra così di non essere in grado di tener testa all'arrembante retore, costringendo Socrate a intervenire nella discussione.
La risposta di Polo, a suo dire, non è soddisfacente, in quanto non risponde alla domanda circa la natura della retorica, ma ne fa al contrario un elogio.
Ottiene così che a rispondere alle sue domande sarà Gorgia in persona.

I Atto: Socrate contro Gorgia (449c-461b)

Alla domanda «la retorica di quale oggetto si occupa?», Gorgia risponde che essa si occupa dei discorsi, e che insegna a pensare sugli argomenti di cui essi trattano (449d-e).
Tuttavia Socrate fa notare che anche le altre arti hanno a che fare con dei discorsi che concernono il loro contenuto: qual è allora la peculiarità della retorica?
La risposta di Gorgia tenta di farsi più precisa, giungendo alla fine ad affermare che essa si occupa delle «cose più importanti e più grandi per l'uomo» (451d): in questo modo però Gorgia cade nell'ambiguità.
Socrate, riprendendo un adagio popolare, immagina le ipotetiche obiezioni che potrebbero essere mosse al sofista da un medico, un maestro di ginnastica e un uomo d'affari: chi potrebbe dire che la salute, il vigore del corpo e la ricchezza non sono cose grandi e importanti per gli uomini?
E poi, qual è questo bene così grande di cui si occupa la retorica?
Gorgia risponde che la retorica ha per oggetto «ciò che dà la libertà» agli uomini, in quanto la retorica è la «capacità di convincere gli altri con le proprie parole» (452a-d).
L'oggetto della retorica è dunque la persuasione, quella che si produce nei tribunali e nelle assemblee pubbliche, e riguarda il giusto e l'ingiusto.
Una simile affermazione fa però spostare l'attenzione di Socrate sull'atto stesso di imparare.
Se infatti vi è differenza tra pístis (credenza) e máthesis (conoscenza), se la prima può essere vera o falsa, mentre la seconda deve essere sempre vera, si deduce che devono esserci due persuasioni, l'una che produce credenza senza conoscenza, l'altra che produce epistéme (scienza).
Stando così le cose, la persuasione della retorica non può essere che quella che dà credenza.
Il retore dunque non sa insegnare cosa è giusto e cosa no, ma solo persuadere (455a).
Socrate procede ora sviluppando la contraddizione in cui si è venuto a trovare Gorgia.
Ad un'assemblea, che cosa potrà mai consigliare un retore? Solo riguardo alla giustizia e all'ingiustizia, oppure c'è dell'altro?
Gorgia inizia a rispondere, portando l'esempio delle mura di Atene, costruite secondo il parere di Temistocle e Pericle, che non erano affatto dei tecnici.
Da qui, Gorgia svolge una lunga rhesis (456a-457c), in cui afferma che la retorica «è in grado di controllare tutte le capacità umane», riferendo poi l'esperienza personale di quando, al seguito del fratello medico Erodico, convinceva a parole i malati più restii a farsi curare - anzi, aggiunge, se si presentassero un retore e un medico davanti all'assemblea per un posto di medico pubblico, sarebbe il retore a spuntarla!
La retorica ha dunque potere su tutte le altre technai, ma, appunto per questo, come accade anche per le arti marziali, non deve essere usata indiscriminatamente.
D'altra parte, però, se càpitano casi di abuso, la colpa non può ricadere sul maestro - come non può essere responsabile il maestro di ginnastica se un allievo aggredisce un indifeso con le tecniche di lotta.
Tali affermazioni non sono però esenti da obiezioni, come Socrate non tarda a dimostrare.
Gorgia aveva detto che la retorica si occupa della persuasione che si ottiene davanti a una folla.
Ma, “davanti a una folla” è come dire “davanti a chi non sa”, poiché davanti a degli esperti un medico sarà di sicuro più persuasivo di un retore.
Le parole di Gorgia portano dunque a ritenere che non importa che il retore conosca o meno l'argomento di cui parla, poiché per essere persuasivo gli bastano degli argomenti convincenti.
Ma allora, domanda Socrate, se un retore tiene un discorso sul bene e il male, sul giusto e l'ingiusto, sul bello e il brutto, conoscerà ciò di cui sta parlando? E se lo conosce, lo deve avere imparato prima di ricevere lezioni di retorica, oppure gli è stato insegnato dal suo maestro?
Gorgia risponde che, se l'allievo non ne sa niente, dovrà impararlo per forza da lui (460a).
Socrate comincia quindi a incalzarlo: chi vuole essere retore deve sapere cos'è il giusto e cosa l'ingiusto; e chi conosce la giustizia è giusto, e fa cose giuste.
Asserendo ciò, però, si entra in contraddizione con quanto detto in precedenza da Gorgia, ovvero che un retore può usare male la propria arte, e che la colpa di ciò non deve essere imputata al maestro.
Socrate riesce così a ribaltare la posizione dell'avversario.

II Atto: Socrate contro Polo (461b-481b)

Confutate le tesi di Gorgia, entra in scena Polo, che prende il posto del maestro sconfitto.
Egli protesta contro Socrate: il filosofo ha indotto Gorgia in contraddizione, costringendolo ad ammettere di dover insegnare insieme alla retorica anche la differenza tra bene e male, facendo leva sulla vergogna che questi provava di fronte al proprio pubblico nell'affermare il contrario (461b-c).
Socrate invita così Polo a porgli delle domande, a cui il filosofo risponderà brevemente e per amore della conversazione.
La prima domanda di Polo riguarda la definizione che Socrate darebbe di retorica (462b).
Nelle sue parole, la retorica non è una techne, ma una empeiría, un'abilità «nel produrre un certo piacere e un certo diletto» (462c), al pari della gastronomia.
La retorica non è infatti una techne, poiché non sa dare ragione del suo oggetto e dei suoi strumenti, ma è un'attività irrazionale (464e-465a).
Essa è descritta come una delle quattro parti in cui è divisa l'adulazione (kolakeia, in 463b).
Attraverso una breve diairesis delle arti, Socrate infatti parla di quattro technai buone, ovvero: ginnastica e medicina (che riguardano il corpo), legislazione e giustizia (che riguardano l'anima).
A queste corrispondono specularmente quattro forme di adulazione: gastronomia e cosmesi, retorica e sofistica. Esse, diversamente dalle technai, non hanno di mira il bene delle persone, ma solo il loro piacere, e sono per questo cattive.
Come se non bastasse, Socrate afferma che retorica e sofistica si confondono (a Callicle dirà addirittura che sono tutt'uno), e per tale motivo i retori non sono tenuti in nessuna considerazione nelle poleis.
Evidentemente Polo non può essere d'accordo con le ultime parole di Socrate, e risponde provocatoriamente che il retore nelle città è come un tiranno, che può tutto ciò che gli pare (466c).
Ma, obbietta Socrate, è davvero così? Il filosofo propone un paradosso (466d-467c), secondo cui i retori e i tiranni fanno sì ciò che meglio gli pare, ma non ciò che vogliono.
La risoluzione del paradosso (467c-468e) viene così riassunta da Dodds:
  • Primo passo: vengono differenziate le attività che vengono compiute perché in sé buone da quelle che vengono compiute in vista di qualcos'altro. Chi fa qualcosa in vista di uno scopo, lo fa per lo scopo, non per fare ciò che fa (per esempio prendere un farmaco è bene per chi è malato, non per chi è sano). Invece le virtù (sapienza, salute, ricchezza) sono beni in sé (467c5-467e8).
  • Secondo passo: tra le varie cose vi sono dunque quelle che non sono in sé né buone né cattive, ma che possono essere talvolta l'uno, talvolta l'altro (metaxú). Tali cose vengono scelte dalle persone in vista di uno scopo, ovvero in vista del proprio bene (467e9-468c8).
  • Terzo passo: poiché ognuno desidera per sé la propria felicità, e la felicità è data solo dal bene, se ne deduce che chi fa del male pensando di fare del bene non fa ciò che vuole (ha bouletai), ma fa quel che gli pare (ha dokei autò). Se il tiranno esilia o uccide qualcuno, compiendo del male fa un danno, non del bene a se stesso (468d-e10).
Socrate ribadisce così il proprio motto secondo cui nessuno compie il male volontariamente.
Il tiranno non è invidiabile da nessuno e in nessuna circostanza. Egli uccide ingiustamente, e compiere un'ingiustizia è il male peggiore che possa capitare.
A nulla vale l'esempio, citato da Polo, del re macedone Archelao, il quale aveva ottenuto il potere a seguito di una serie di omicidi all'interno della propria famiglia
Il filosofo, anzi, ribadisce con maggior vigore che chi compie un'ingiustizia deve essere assolutamente punito: solo così gli si farà del bene e, scontata la pena, potrà un giorno tornare ad essere felice.

III Atto: Socrate contro Callicle (481b-522e)

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi Callicle.
Fa a questo punto il suo ingresso nella discussione il giovane Callicle, il quale in una lunga rhesis (482c-486d) accusa Socrate di agroikia (rozzezza) e anandria (viltà, lett.: non essere uomo).
Egli infatti afferma che la filosofia è un utile studio solo per i ragazzini, mentre gli uomini dovrebbero dedicarsi alla vita attiva della polis - ricalcando il tema del confronto vita attiva/vita contemplativa presentato nell'Antiope di Euripide (485e-486d).
Inoltre, i discorsi di Socrate sul bene e la virtù sono discorsi validi per legge (nomos), non secondo natura (physis).
Le leggi altro non sono per Callicle che uno strumento con cui i deboli, la massa, si difendono dalle angherie dei più forti, i migliori, i quali per natura dovrebbero invece comandare.
Secondo la legge di natura, che è ben diversa dalla legge convenzionale degli uomini, i migliori hanno maggiori diritti di chi è loro inferiore, e così avviene sia in natura sia in politica: le nazioni più potenti assoggettano le più deboli, e gli animali più forti vincono sui più deboli (481b-486d).
La morale comune, dunque, è una morale da deboli.
Callicle continua su questa strada, giungendo infine, in 492c, alla nota affermazione di edonismo: la virtù e la felicità consistono nell'avere molti desideri e nell'assecondarli tutti.
Ciò che conta nella vita sono il potere e la ricchezza: per ottenerli bisogna lasciare da parte le vuote chiacchiere dei filosofi, che non sanno niente della polis, e dedicarsi invece alla vita attiva, alla politica.


Pericle governò Atene tra il 361 e il 331 a.C. Intimo amico di molti sofisti, viene criticato da Socrate nel Gorgia
 
Socrate, ovviamente, non può essere d'accordo con queste posizioni. L'anima dei dissoluti, dice, è simile a un vaso bucato: dovendo assecondare ogni proprio desiderio, essa non sarà mai sazia.
Meglio allora una vita morigerata, la quale garantisce tranquillità e serenità. Tale condizione è però paragonata da Callicle a quella di un sasso poiché, una volta saziati quei pochi desideri, le anime dei temperanti non posso più desiderare altro e dunque provare piacere (493a-494b).
Socrate tuttavia continua con la propria tesi, sostenendo che il bene non coincide col piacere.
I piaceri possono infatti essere buoni o cattivi, e solo un’attenta preparazione e un attento studio permettono di discernere la condotta di vita migliore (496c).
La vita proposta da Callicle, Gorgia e dalla sofistica in generale mira al successo personale e alla vittoria sul proprio interlocutore, e per questo motivo la retorica non può portare al bene del proprio fruitore, ma solo alla sua persuasione.
Anche importanti e stimati politici come Milziade, Pericle, Temistocle e Cimone, citati da Callicle, ad un'attenta analisi dimostrano di essersi impegnati unicamente ad assecondare i voleri del demo e non per il suo bene: ne è dimostrazione il fatto che gli Ateniesi sotto il loro governo non sono migliorati (503c).
Callicle si dimostra però riluttante nel rispondere a Socrate, e per due volte dice di voler abbandonare la discussione. La prima volta è costretto ad intervenire Gorgia, per calmare gli animi e invitare il giovane a proseguire, nell'interesse della discussione e del pubblico astante (497b-c).
Callicle prosegue per alcune battute, finché in 505c-506c abbandona completamente il dialogo, invitando il filosofo a concludere da sé il proprio ragionamento.
Socrate è così indotto a tenere un lungo monologo (506c-522e), interrotto solo di tanto in tanto dal giovane, troppo orgoglioso per lasciare completamente la parola all'avversario.
In estrema sintesi, dopo aver fatto il punto sui risultati prodotti fin lì dalla discussione, il filosofo giunge alla conclusione che l'importante non è vivere, ma vivere bene, cioè secondo moderatezza e perseguendo il bene.
Chi vuole essere un uomo politico, non deve seguire l'esempio dei politici (democratici) a lui precedenti, che mirando al compiacimento del popolo si sono rivelati dei corruttori.
Questi deve piuttosto impegnarsi - come Socrate dice di aver fatto - a ricercare il bene per sé e per il prossimo.
Solo il filosofo in questo senso è il vero politico (512b-522e).

Epilogo: il giudizio delle anime dopo la morte (523a-527e)

Socrate termina la discussione con un mito escatologico, che riguarda il giudizio delle anime dopo la morte. Narra il filosofo che al tempo di Crono gli uomini venivano avvisati in anticipo della data in cui sarebbero morti, e che una volta trapassati avrebbero dovuto sostenere un processo davanti ad altri uomini, che li avrebbero giudicati per la loro vita trascorsa. I giudici, tuttavia, essendo anch'essi uomini, venivano sovente imbrogliati dagli imputati, i quali facevano uso di tecniche retoriche e addirittura di falsi testimoni.
Con l'avvento al potere di Zeus, il dio decise di modificare tale pratica. Venne anzitutto impedito ai mortali di conoscere in anticipo il giorno della propria fine, e furono istituiti tre giudici, scelti tra gli uomini più saggi al mondo, per giudicare le anime.
Furono così designati Radamanto per giudicare quanti provengono dall'Asia, Eaco quelli dell'Europa, e infine Minosse fu scelto quale “giudice d'appello”, nel caso vi fossero dubbi. In questo modo, ogni individuo va incontro a un trattamento giusto e adeguato alla propria condotta durante vita.
Osservando infatti direttamente le anime, i giudici vedono ben chiare le cicatrici e i segni delle azioni ingiuste e spregiudicate compiute in passato, senza che il loro giudizio sia fuorviato da chiacchiere. Per passare indenni è dunque necessario perseguire la virtù e praticare la filosofia, in quanto conduce al bene.

La ricerca di una definizione della retorica

Si è visto che il Gorgia prende il via dalla domanda di Socrate sulla natura della retorica, e proprio sulla ricerca di una sua definizione si fonda la prima parte del dialogo.
In particolare, tale ricerca si articola in due momenti: un primo momento, negativo, corrispondente al dialogo con Gorgia (449c-461b), vede Socrate fare uso dell'elenchos per confutare le posizioni dell'avversario; vi è poi un secondo momento, questa volta positivo, in cui Socrate, rispondendo alle domande di Polo (461b-466b), dà una propria definizione di retorica, ovvero quale abilità finalizzata all'adulazione.
È da notare che in questo frangente, per la prima volta, Socrate abbandona il proprio ruolo confutatorio (tipico dei dialoghi aporetici giovanili) per cercare in prima persona una definizione; e lo fa ricorrendo al metodo diairetico, metodo che verrà poi teorizzato e approfondito nei dialoghi successivi, soprattutto nel Sofista.
Distinguendo infatti tra technai che riguardano l'anima e technai che interessano il corpo, Socrate trova, dal lato opposto alle technai, le kolakeiai, ovvero le forme di adulazione, di cui la retorica è parte.
Essa può così essere definita come un'abilità (empeiria) incapace di dare ragione del proprio operato, e per di più malvagia perché finalizzata all'adulazione.
Tale sensibilità teorica rende il Gorgia un dialogo di passaggio tra la stagione dei dialoghi aporetici a quella dei grandi dialoghi della maturità, in cui, al pari del Protagora, del Menone e del Libro Primo della Repubblica (il cosiddetto Trasimaco), Platone inizia a mettere in campo alcuni degli argomenti che occuperanno la sua indagine negli anni successivi.

La critica a Isocrate

Nelle discussioni con Polo e soprattutto Callicle, Socrate ribadisce a più riprese il valore e l'importanza politica del filosofo nelle poleis, di contro alla spregiudicata attività dei sofisti che mirano unicamente al proprio utile.
Ciò acquista ancora più significato se si considera che Platone usa il Gorgia per sferrare un affondo al retore Isocrate, suo avversario. Attaccando e mettendo alla berlina le tesi di Gorgia, riducendo la retorica al rango di semplice abilità irrazionale e incapace di insegnare il bene e la virtù, Platone mira a screditare le tesi avanzate da Isocrate, principale allievo di Gorgia.
La paideia isocratea, ad un'attenta analisi, risulta infatti debitrice delle posizioni del maestro: negando le tesi gorgiane di fatto viene negata la validità teorica della posizione isocratea.
Inoltre, affermando che la retorica può solo formare individui corrotti, si mette in crisi il programma educativo di Isocrate, che invece si basava sull'equazione secondo cui un buon retore corrisponde a un cittadino virtuoso (ovvero, quella figura che da Cicerone e Quintiliano sino al Rinascimento verrà definita vir bonus dicendi peritus).

Nell'ottica dell'eudemonismo socratico, chi conosce il bene e il giusto non può che comportarsi in modo giusto. Cfr. Plato, Gorgias, a revised text with introduction and commentary by E.R. Dodds, Oxford 1959, pp. 218ss.

Prodico


Prodico (in greco Πρόδικος; Ceo, circa 460 a.C. – Atene, forse 380 a.C.) è stato un filosofo e retore greco antico.
Sofista tra i più celebri, viaggiò a lungo per la Grecia riscuotendo un largo successo soprattutto ad Atene, ove si recò come ambasciatore, e a Sparta.

La vita

Prodico nacque nella città di Iulide, sull'isola di Ceo, attorno al 460 a.C.
Allievo di Protagora di Abdera, conobbe la fama in seguito a una ambasceria ad Atene, in cui fu ammirato da importanti cittadini ateniesi, come Socrate e Senofonte.
Pare infatti che in quell'occasione Prodico si distinse per eloquenza e capacità oratoria, nonostante il suo tono basso di voce rendesse difficile al suo pubblico seguirlo.
Grazie a questa fama, divenne in breve uno dei sofisti più quotati, ed ebbe vari discepoli in tutta la Grecia, tra cui il retore Isocrate, il tragediografo Euripide, e Teramene detto Coturno, politico ateniese e membro dei Quattrocento, che fu condannato a morte all'epoca dei Trenta Tiranni con l'accusa di essere un democratico.
Una tradizione tarda vuole che Prodico sia morto per aver bevuto la cicuta, condannato dalla polis ateniese con l'accusa di corrompere i giovani.
Oggi questa notizia è ritenuta falsa dagli studiosi, anche se, stando a quanto testimoniato nell'Erissia, dialogo spurio talvolta attribuito a Platone, almeno in un'occasione Prodico fu realmente accusato di ciò, e per questo fu cacciato da un ginnasio.

Il pensiero

Il pensiero di Prodico spazia dall'etica alla filosofia naturale.
Di notevole interesse è però la sua teoria del linguaggio e la sua abilità nel distinguere nettamente i significati dei termini, fin nelle minime sfumature (la cosiddetta sinonimica): tale attenzione pare fu imitata anche dallo storico Tucidide.

L'etica: Eracle al bivio

L'etica ricoprì un ruolo importante nel pensiero di Prodico, tanto da essere apprezzato e citato da Senofonte, Platone e Socrate (di cui talvolta viene riportato addirittura allievo).
Questa sua attenzione alla sfera della morale e dell'etica mette infatti in crisi il pregiudizio che vede i sofisti come individui spregiudicati e avidi, strenui sostenitori del relativismo etico.
A dimostrazione di ciò Senofonte riporta, parafrasandola, la cosiddetta favola di Eracle al bivio, probabilmente contenuta nell'opera più famosa del sofista, intitolata Ὧραι (Stagioni).
Eracle, divenuto adolescente e giunto quindi all'età in cui deve scegliere cosa fare della propria vita, se essere virtuosi o votarsi al vizio, incontra ad un bivio due donne, personificazioni della Virtù (Areté) e del Vizio (Kakía).
Entrambe tengono un discorso al giovane, per indurlo a scegliere una delle due: la volontà di Eracle di seguire la Virtù è un'immagine del passaggio dell'uomo dalla sua natura originaria (physis) alla virtù «divina» (nomos), acquisibile per mezzo dell'educazione.

La religione

Prodico è anche celebre come "anticipatore" dell'evemerismo.
Già il suo maestro Protagora era stato accusato di empietà, avendo assunto una posizione agnostica sugli dèi, sostenendo che di questi non si può sapere niente, né se esistano né se non esistano.
Prodico invece spiegava la religione popolare sulla base della divinizzazione prima delle cose utili all'uomo e poi dei loro scopritori: in questo modo sono stati divinizzati dapprima il sole, la luna, i fiumi, e in seguito sono nate divinità come Demetra (il pane), Dioniso (il vino) ed Efesto (il fuoco e le sue potenzialità tecniche).
In questo modo, a quanto affermano le testimonianze, Prodico ricollegava anche i riti misterici ai frutti dell'agricoltura.

Il linguaggio

Tuttavia, la fama di Prodico è dovuta soprattutto alla sua dottrina della sinonimica o dell'esatto significato dei nomi: tale dottrina consiste essenzialmente nell'analisi semantica dei termini sinonimi e nella determinazione del loro significato preciso e univoco.
Da qui l'inesattezza della notizia antica, accettata anche da molti moderni, secondo cui Prodico sarebbe stato maestro di Socrate: ciò che a Socrate interessa, infatti, non è tanto il significato dei termini, quanto ciò che ciascuno vuole significare quando usa un determinato termine.
Sotto questa luce Prodico può essere considerato piuttosto come il predecessore della moderna filosofia analitica del linguaggio.

In Protagora 341a e Menone 96d Socrate afferma di essere stato allievo di Prodico.
Nel Teeteto, al contrario, lo stesso filosofo dice addirittura di aver consigliato ad alcuni suoi scolari, giudicati incapaci, di rivolgersi agli insegnamenti di Prodico (Teeteto 151b).
Sul rapporto Socrate-Prodico: M. Untersteiner, I sofisti, Milano 1996, p. 323.

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