Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

mercoledì 6 novembre 2013

Le Donne Filosofe - Ernesto Riva

Da "http://www.linguaggioglobale.com/filosofia/donne/DONNE.htm" :

Nella foto Hannah Arendt
LE DONNE FILOSOFE

Secondo quanto ci viene tramandato, è nell'ambito della scuola pitagorica (VI sec. A.C.) che le donne fecero la loro prima apparizione come seguaci e praticanti di filosofia. Giamblico (251-325 d.C.), nella sua Vita pitagorica, parla di ben 17 discepole di Pitagora!

Intorno al 440 a.C., si distinse Aspasia di Mileto, che fu l'amante di Pericle e la sua casa fu il centro della vita letteraria e filosofica dell'Atene del V secolo.

Tra le donne che fecero professione di filosofia incontriamo Diotima, sacerdotessa di Mantinea. E' famosa perché viene soprattutto ricordata in un dialogo platonico, il Simposio (201 d - 212 c), in cui Socrate dice di aver appreso da lei la teoria dell'amore.

Diogene Laerzio ci parla di Ipparchia, che aderì alle teorie dei Cinici. Di lei viene esaltata la grande cultura filosofica e l'eleganza del ragionamento, paragonandola addirittura a Platone.
Piuttosto discussa è la figura di Leonzia (Leonzio o Leontina), forse cortigiana di Epicuro, si dice abbia scritto un'invettiva contro un altro celebre filosofo, Teofrasto.

Comunque, la più rilevante figura di filosofa che viene tramandata dall'antichità greca è quella di Ipazia, di tendenze neoplatoniche, morta verso il 415 d.C. Fu figlia del matematico e astronomo Teone di Alessandria e si interessò lei stessa di scienze. Si recò ad Atene ed ebbe una notevole influenza negli ambienti filosofici unificando il pensiero matematico col neoplatonismo. Di religione pagana, ma fautrice della distinzione e autonomia fra filosofia e religione, acquistò prestigio anche negli ambienti politici, frequentando il prefetto romano Oreste. Ciò le attirò il rancore degli ambienti cristiani e un giorno Ipazia fu aggredita per strada e uccisa da un gruppo di fanatici. L'episodio della drammatica morte della donna ha colpito scrittori di diverse epoche: il più recente è stato Charles Péguy (1873-1814),che l'ha immortalata come l'ultima e pura erede del pensiero greco.


Nel mondo romano vi fu ad esempio Plotina, consorte dell'imperatore Traiano (53-117 d.C.), che fu seguace della scuola epicurea e ne favorì il rilancio a Roma.

Dopo il Medioevo, in cui ci furono alcune figure notevolissime che però sarebbe il caso di considerare tra le donne scienziate (per adesso le citerò soltanto: Trotula de Ruggiero, Ildegarda di Bingen, Rebecca Guarna), arriviamo al Cinquecento e al Seicento con Cristina di Lorena (1565-1636) e Elisabetta di Boemia (1618-1680). La prima fu famosa, tra l'altro, per essere stata la destinataria delle lettere di Galilei, denominate in seguito Lettere copernicane: in esse Galilei voleva mostrare a Cristina come le sue idee non fossero in contrasto con la Bibbia.
Molto più rilevante, dal punto di vista filosofico, fu lo scambio epistolare fra la bellissima principessa del Palatinato, Elisabetta, e il filosofo francese Cartesio. I due si scrissero dal 1643 al 1649: il carteggio a noi pervenuto comprende 26 lettere della principessa e 33 del filosofo. In genere il contenuto degli scritti di Elisabetta viene sottostimato, a vantaggio delle idee del filosofo, mentre in realtà Elisabetta pone delle questioni che mettono in difficoltà il celebre pensatore. Elisabetta era ad esempio poco persuasa della soluzione data da Cartesio al rapporto fra l'anima e il corpo:
"Io confesso che mi sarebbe molto più facile concedere all'anima la materia e l'estensione, piuttosto che dare a un essere immateriale la capacità di muovere un corpo o di esserne mosso."
In un'altra lettera, Elisabetta pone acutamente in dubbio la possibilità che l'anima , in quanto separata dal corpo, possa con l'esercizio della sola volontà raggiungere la "beatitudine". Insomma, nel complesso delle lettere della principessa emerge un vigile ed acuto senso critico che non si lasciava facilmente convincere dalle opinioni di un filosofo celebre e rispettato da tutti.

Nella cultura protestante inglese del Seicento una figura di spicco fu quella di Mary Astell (1666-1731). Dalla sua formazione (grazie ad uno zio che le fece da precettore e le permise di studiare e leggere di tutto) trasse il profondo convincimento della legittimità e della necessità di una evoluzione spirituale e culturale delle donne e decise di adoperarsi per spezzare il circolo vizioso di ignoranza e inferiorità culturale che imprigionava gran parte delle donne del suo tempo. Intorno alla Astell, a Chelsea nei pressi di Londra,si venne formando un Club di donne, per lo più nubili o vedove, mosso da principi di devozione e di carità oltre che da interessi di studio e di discussione. Il Club svolgeva anche una discreta e attenta attività esistenziale verso altre donne bisognose. In Alcune riflessioni sul matrimonio (1700), criticava la costrizione al matrimonio di cui erano vittime le donne del tempo, terrorizzate dall'idea di restare zitelle e quindi pressate dal bisogno comunque di trovare un marito. Per la Astell un'adeguata istruzione era la premessa irrinunciabile della libertà di scelta delle donne. Qui interveniva il progetto di un "monastero protestante femminile" che costituisse una sorta di scuola di donne per le donne, per dare alle allieve la piena padronanza dei propri mezzi intellettuali.

Di grande rilievo è l'opera filosofica e letteraria di Lucrezia Marinelli (1571-16 ), figlia di un medico e filosofo di orientamento aristotelico. Compose diverse opere letterarie ed un poema epico-cavalleresco, ma lo scritto principale che a noi interessa particolarmente è La nobiltà e l'eccellenza delle donne co' difetti et mancamenti degli uomini (1601).
In essa l'autrice parte da una analisi approfondita dei testi antichi (Platone, Aristotele, Plutarco ecc.) e conclude per la sostanziale eguaglianza fisica e metafisica fra uomo e donna postulata dai grandi filosofi. Si sofferma anche sul mito delle Amazzoni porta ulteriori elementi a sostegno della tesi della parità uomo-donna. La parte più suggestiva del testo è quella relativa alle donne protagoniste della storia della letteratura e del pensiero. Il fine del discorso non è mai moraleggiante bensì è quello di argomentare rigorosamente la tesi della parità e dell'eccellenza delle donne anche in campo intellettuale.

Solo un cenno a due altre figure interessantissime: Suor Juana Inés de la Cruz (1648-1695) e Margaret Cavendish, Duchessa di Newcastle (1624-1674). La prima fu, nel Messico del Seicento, una figura eccezionale di poetessa, filosofa, letterata di spicco, che si fece religiosa solo per seguire la sua autentica vocazione, quella della scrittura e dello studio.
La seconda fu, nel suo tempo, un genio incompreso: scrisse versi, pensieri, commedie, orazioni ecc. Amava scrivere sugli argomenti più disparati : si interrogava sul perché i cani felici agitino la coda, sulla storia dei monasteri inglesi, sulle virtù delle fate, e si chiedeva se i pesci sanno che il mare è salato.

Arriviamo infine all'Ottocento e alla figura eccezionale di una italiana, Cristina Trivulzio di Belgioioso (1808-1871). La sua vita ha attraversato la storia italiana dall'età della Restaurazione fino all'unificazione. Ella fu una storica e una filosofa di ottimo livello. Nel 1843 pubblicò in 4 volumi il Saggio sulla formazione del dogma cattolico, nel 1844 scrisse l'Essai sur Vico e tradusse in francese la Scienza Nuova. Fondò inoltre diverse riviste culturali, pubblicò saggi storici e partecipò attivamente alla vita politica risorgimentale. Nella sua opera del 1843 fornisce una interpretazione liberale del cristianesimo in quanto dottrina della progressiva redenzione umana attraverso la storia: si dichiara quindi contraria ad ogni tesi di tipo agostiniano o giansenistico che postuli l'eternità del male e del peccato.
Un discorso a parte merita il saggio Della condizione delle donne e del loro avvenire (1866): la donna italiana è sempre stata - secondo la Belgioioso - una donna attiva e generosa, nella vita domestica come, quando ha potuto farlo, in quella pubblica. Perché allora vige la massima della inferiorità femminile? La Belgioioso si contrappone alle femministe riformatrici in quanto vogliono destrutturare l'ordine sociale senza proporre, a suo avviso, alcuna alternativa. Nell'Italia che ha raggiunto a stento una ancora precaria unità nazionale, riforme troppo radicali sarebbero pericolose e premature. Bisogna piuttosto che le donne rimangano per lo più, nei loro ruoli tradizionali, svolgendoli al meglio e con quello spirito costruttivo che le ha sempre contraddistinte. Su questa base le donne del futuro potranno costruire, forse, una diversa e più piena forma di felicità.

E concludiamo con il nostro secolo presentando brevemente alcune famose filosofe del Novecento.

EDITH STEIN (1891-1942).
Nata da una famiglia di commercianti ebrei, studiò filosofia a Gottinga con Husserl (il fondatore della corrente filosofica chiamata "fenomenologia", che anticiperà alcuni temi dell'esistenzialismo) e ne divenne assistente. Dopo aver letto la Vita di S.Teresa d'Avila, si convertì nel 1922 al cattolicesimo e nel 1934 si fece suora carmelitana. Nel 1942 fu deportata ad Auschwitz e qui morì poco dopo. E' stata proclamata "beata" nel 1987. L'originalità del pensiero filosofico di Edith Stein si nota già dalla sua tesi su Il problema dell'empatia (1917): per la Stein l'empatia è "l'esperienza di soggetti altri da noi e del loro vissuto". Essa va distinta sia dalla percezione che dal ricordo. Il cogliere l'esperienza altrui è un atto consustanziale, integrativo e correttivo della mia esperienza di me stesso e del mio mondo. L'esperienza della empatia non si attua solo al livello della coscienza ma anche a quello dello spirito, dove si è in grado di cogliere il mondo ideale ed i valori che sono alla base della vita spirituale di un altro. Nell'esperienza concreta l'empatia avviene mediante il "corpo vissuto" che funge da medium della percezione empatica, mentre nell'esperienza religiosa (e su questo la S. si astiene da ogni ulteriore osservazione), viene invece postulata la possibilità dell'esperienza di un Altro spirituale al di fuori della mediazione corporea.
La Stein si è anche distinta per i suoi molti scritti che trattano il tema della femminilità. Ella ritiene che il movimento femminista tedesco, con la Costituzione di Weimar, abbia raggiunto appieno tutti i suoi obiettivi. Le donne sono state poste su un completo piano di parità con gli uomini. La nuova realtà sociale richiede la difesa dei risultati conseguiti e la trasmissione, alle nuove generazioni, della memoria storica delle lotte femministe, ma anche un rinnovamento che deve coinvolgere anzitutto le donne cristiane. La donna ha una "realtà ontologica" pari e distinta da quella maschile. Una realtà che la donna deve esplorare e conoscere da se stessa in quanto la donna vista dalla donna non è la stessa che la donna vista dall'uomo. In ultimo , nei suoi scritti più chiaramente mistici, la S. ritiene che l'amore sia la forza motrice dello stesso pensiero. L'ardore dell'amore spinge il pensiero ad una penetrazione sempre più profonda dello spirito fino a giungere alla chiarezza della conoscenza. La libertà della persona umana è il grande mistero davanti a cui Dio stesso si arresta: egli desidera che le sue creature gli rispondano sotto forma di un libero dono d'amore.

SIMONE WEIL (1909-1943). Nacque a Parigi da una famiglia ebrea non praticante. Studiò filosofia e per alcuni anni insegnò al liceo. Poi, spinta dalla sua passione per gli "altri", si dimise e lavorò come operaia. Allo scoppio della guerra civile spagnola (1936) si unì ai militanti anti-franchisti ma, per un incidente, fu costretta a rientrare in Francia. Nel 1938 avvenne la sua conversione religiosa anche se, fino all'ultimo, non volle mai accettare il Battesimo. Morì nel sanatorio di Ashford in Inghilterra.
Nel saggio L'Iliade, poema della forza (1939), esalta il modo in cui l'uomo greco viveva la guerra e il suo terribile gioco senza infingimenti, accordando eguale rispetto al vinto e al vincitore, provando sgomento per la distruzione di una città. Quando gli uomini entravano nel gioco della guerra, diventavano pietre nelle mani degli dèi, ossia cose sotto il giogo della Forza. Alla fine vince solo la Guerra. La Guerra è una prova della miseria umana, dei limiti dell'essere umano, è l'emergere di una Forza che domina l'anima dell'uomo e la incatena al suo destino immodificabile. La visione greca dell'uomo si prolunga, per la Weil, fino al Vangelo. Ciò che unisce Omero agli Evangelisti è il senso del valore della miseria umana, una miseria vissuta dallo stesso Cristo sulla croce. Una miseria a cui i Greci opponevano la virtù e i Vangeli la Grazia.
Nello studio su Dio in Platone (1940), Platone viene da lei considerato il padre della mistica occidentale. In Platone Alla virtù si affianca la possibilità della grazia, cioè della salvezza che viene da Dio. Dio è quindi attivo nei confronti dell'uomo, lo chiama, chiede di essere da lui riconosciuto. La Weil reinterpreta la disputa di Platone contro i Sofisti come anticipazione dei temi e concetti che verranno poi utilizzati dal Cristianesimo. L'Eros in Platone non è solo impulso dell'uomo verso il divino ma è prerogativa del Dio stesso. Sono anticipazioni del concetto di amore legato alla divinità che è tipico del Cristianesimo. Il 1942 fu l'anno della sua più intensa meditazione sul tema religioso. Eppure Weil precisò ulteriormente il suo proposito di voler restare al di fuori della Chiesa. Quella Chiesa che, secondo la Weil, si era fatta impero, inquisizione, persecuzione, interiorizzando la potenza e l'oppressione che sono anche tipici dei regimi totalitari del XX secolo. D'altra parte - diceva - "tante cose sono fuori dalla Chiesa, tante cose che io amo e non voglio abbandonare, tante cose che Dio ama", e qui enumerava: i secoli prima di Cristo e le loro civiltà, i paesi abitati da razze di colore, la vita profana dei paesi di razza bianca, i Manichei, gli Albigesi, tutto ciò che è nato col Rinascimento… evidentemente, la sua strada verso il divino non era quella della adesione ad una delle confessioni storiche. La sua via fu quella della "croce" e della "sofferenza": "Se non potrà essermi concesso di meritare di condividere un giorno la croce di Cristo, spero mi sia data almeno quella del buon ladrone". Come dire: la croce è intesa da Weil oltre la Chiesa, all'intersezione di più destini e di più culture. Nei pensieri raccolti sotto il titolo L'amore di Dio (scritti tra il 1940 e il 1942), Weil svela il suo misticismo: "non tocca all'uomo cercare Dio e credere in lui: egli deve semplicemente rifiutarsi di amare quelle cose che non sono Dio. Un tale rifiuto non presuppone alcuna fede. Si basa semplicemente sulla constatazione di un fatto evidente: che tutti i beni della terra … sono finiti e limitati, radicalmente incapaci di soddisfare quel desiderio di un bene infinito e perfetto che brucia perpetuamente in noi". "Perciò il problema della fede non si pone affatto. Finché un essere umano non è stato conquistato da Dio, non può avere fede, ma solo una semplice credenza; e che egli abbia o no una simile credenza, non ha nessuna importanza: infatti arriverà alla fede anche attraverso l'incredulità. La sola scelta che si pone all'uomo è quella di legare o meno il proprio amore alle cose di quaggiù". "Sono convinta che l'infelicità per un verso e la gioia per l'altro verso, la gioia come adesione totale e pura alla bellezza perfetta, implicano entrambe la perdita dell'esistenza personale e sono quindi le due sole chiavi con cui si possa entrare nel paese puro, nel paese respirabile, nel paese del reale" (trad. it. pp. 111,112,157).


HANNAH ARENDT (1906-1975). Nata ad Hannover da una famiglia ebrea, studiò filosofia con i più importanti filosofi tedeschi del tempo (Husserl, Heidegger, Jaspers). A causa delle persecuzioni antisemitiche si trasferì in Francia e qui collaborò col Movimento Sionista. Nel 1940 fu arrestata ma riuscì a fuggire e emigrò negli Stati Uniti, dove rimase per tutto il resto della vita.
L'analisi del fenomeno del totalitarismo in tutte le sue forme è alla base del lavoro intellettuale della Arendt. Ne Le origini del totalitarismo (1951) la Arendt vide nel totalitarismo di questo secolo un fenomeno nuovo, che rompe con qualsiasi altra tradizione precedente. Nei regimi totalitari gli individui sono come i granelli di sabbia indistinguibili gli uni dagli altri. Ognuno sta nel proprio isolamento. In tali regimi la violenza è gratuita: è il terrore per il terrore. A questo proposito la Arendt introduce l'idea del "male radicale", cioè del male fine a se stesso, che non serve a nulla e non segue nessuna logica. Il libro venne molto discusso proprio perché sosteneva una trasformazione nella natura umana. Qualcosa che prima non s'era mai visto. L'uomo che si era così perfettamente inserito negli ingranaggi della macchina nazista dello sterminio era l'uomo massa, un uomo senza qualità né coscienza morale che era adattabile ad ogni evenienza, capace di uccidere come di portare a spasso il cane. Per questo il nazismo ha rappresentato l'apparizione del male assoluto nella storia: ci ha dimostrato che in certe circostanze l'uomo è un nulla, un agente passivo, è in grado di compiere qualsiasi atto in quanto nessun valore o principio aprioristico è in grado di indirizzare il suo comportamento.
Anni dopo, in un'altra opera intitolata Eichmann a Gerusalemme. La banalità del male (1963), la Arendt modifica la sua opinione dicendo che il male che ha fatto per esempio l'aguzzino Eichmann è spiegabile nel modo seguente: il male non è più qualcosa di eccezionale ma fa parte di noi e delle persone che ci sono vicine. Di fronte al giudice che lo accusava dello sterminio degli ebrei, Eichmann sostenne che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini. Ad Eichmann mancò quello che lei chiama "lo spazio pubblico", cioè lo spazio per giudicare quello che avviene. Lo spazio pubblico non è un bene garantito per sempre. Non è un bene stabile e acquisito. Mancando di questo, tutta la vita di Eichmann è un esempio di impossibilità di esprimere un giudizio. E' la singolarità, che si mostra come tale, che permette che vi sia uno spazio pubblico. Ora Eichmann è esattamente l'esempio di una vita che non ha mai raggiunto la singolarità. Ed infatti la sua è una esistenza impostata nell'obbedienza agli ingranaggi burocratici di potere, qualsiasi essi siano. Dunque il suo non è un vero agire, ma una ripetizione degli ordini ricevuti. La sua incapacità di arrivare ad una sua singolarità si manifesta anche nel linguaggio adoperato. E' un linguaggio "burocratico", intessuto di luoghi comuni, con frasi fatte. Sono queste le radici del male. Si tratta di un male molto quotidiano. Abituale quanto i nostri luoghi comuni. Le frasi fatte sono infatti modi di sottrarsi alla realtà. Cioè al dire no agli avvenimenti. Il male è l'assenza, il rifiuto del pensiero. Pensare è infatti dialogare con se stessi, cioè porsi di fronte alla scelta fra il giusto e l'ingiusto, il bello e il brutto. Chi pensa, si dissocia, si allontana: anche senza far nulla, dissente e apre lo spazio al giudizio. Il pensiero è l'unico antidoto contro la massificazione e il conformismo che sono le forme moderne della barbarie.
Nel 1958 apparve La condizione umana (Vita activa in italiano), sintesi più filosofica del suo pensiero. Il mondo d'oggi è il mondo della tecnica. Tale situazione non è altro che il compimento di un processo intrapreso dall'uomo occidentale dal XVI secolo. I Greci distinguevano la vita attiva fatta di lavoro, creazione artistica e azione politica, dalla vita contemplativa. Nella prima l'uomo plasmava le cose al fine di renderle utili, durevoli, di conquistarsi quella immortalità dell'operare che poteva renderlo presente ai mortali anche dopo la morte. Nella vita contemplativa l'uomo era messo di fronte all'eternità del divino, che lo portava all'ascesi e al misticismo. Con l'età moderna, la vita attiva e quella contemplativa perdevano la loro ragion d'essere. Il theoréin passava dal filosofo allo scienziato o meglio ai suoi strumenti, diventando così la più astratta delle attività pratiche. Il fare diventava un complemento della tecnica e il pensare si trovava ad avere, come suo unico oggetto, il mondo interiore per il tramite dell'introspezione. Una tale trasformazione influì anche sulla sfera sociale: la sfera dell'agire fu sottomessa a quella del fare e della utilità. Il risultato fu la "spoliticizzazione" del fare e il trasferimento del "gioco politico" nelle mani di pochi. La Arendt critica la società moderna perché ha privilegiato l'economico ed ha dimenticato il vero significato dell'agire. Ogni azione è un inizio. Quando un essere umano nasce è una singolarità assoluta, che apre un imprevisto nel mondo. E' agendo che noi ci mostriamo. Nell'azione c'è anche rischio perché le conseguenze di ogni azione sono senza limiti e non dipendono da noi. Iniziare qualcosa è politico, perché è visto e rilanciato dagli altri. Presuppone dunque una pluralità di esseri umani in rapporto tra loro. Però non è sufficiente agire perché ci sia una vera e propria azione significativa. Occorre che quella azione venga raccontata. Bisogna che ci sia qualcuno che faccia conoscere quella azione a chi non era presente e la tramandi alle generazioni future. E solo così il tempo che viviamo non è semplicemente quello biologico della vita e della morte, ma ha un passato e un futuro significativi.

SIMONE DE BEAUVOIR (1908-1986). Nata a Parigi da una giovane e agiata coppia borghese, Simone visse una fanciullezza serena. Si iscrisse alla Sorbona per studiare filosofia e qui nel 1929 conobbe Sartre, con cui condivise tutto il resto della vita: il loro fu un rapporto "aperto", mai formalizzato col matrimonio, ma molto duraturo e fecondo di amicizia ed affetto. Dopo l'università, Simone si mise ad insegnare fino al 1943, quando decise di dedicarsi interamente all'attività letteraria. Morì sei anni dopo la scomparsa di J.-P.Sartre.
Dal punto di vista filosofico, le sue opere più importanti furono Pirro e Cinea (1944), Per una morale dell'ambiguità (1947) e anche Il secondo sesso (1949), il suo scritto forse più famoso, opera composita tra saggio e trattato. Scrisse anche molte opere di narrativa,tra cui ricordiamo: Memorie di una ragazza per bene, I Mandarini, Una morte dolcissima, La terza età (che è un acuto saggio sulla vecchiaia) ecc.
Per la pensatrice francese, teoresi e racconto non possono e non devono essere divisi. A spingere la de Beauvoir verso il suo peculiare stile di pensiero fu, da una parte, l'influsso dell'esistenzialismo, dall'altra la sua condizione di donna le suggeriva questa come la via più giusta per inserirsi nella cittadella dei filosofi senza smarrire la propria identità di donna e di persona. La sua prima importante opera filosofica fu Per una morale della ambiguità ,in cui dava la sua versione dell'esistenzialismo. Per lei l'esistenzialismo è una filosofia della libertà, come il portatore di una nuova etica tanto nella sfera pubblica che in quella individuale. E' una filosofia dell'impegno, che vede uniti mondo e individuo e che postula che la liberazione dell'uomo non può essere trovata nel solipsismo o nell'egoismo, per non essere illusoria, ma solo affrontando e sciogliendo il nodo del rapporto Io-mondo, Io-altri. Oggi noi "siamo liberi e oggi dobbiamo salvare la nostra esistenza… non rinviare la soluzione dei problemi e dei conflitti dell'umanità a un Paradiso di là da venire… in cui tutti sarebbero riconciliati nella morte". L'esistenza è ambigua non assurda , come sosteneva Albert Camus (cfr. i saggi Il mito di Sisifo, L'uomo in rivolta , e il racconto Lo straniero). Il senso non manca, il senso va continuamente riconquistato. L'uomo muove da una situazione di "insicurezza ontologica" che lo pone in una relazione strutturale ma ambigua col mondo e con gli altri. "Per conseguire la verità del suo essere, l'uomo non deve tentare di dissipare l'ambiguità del suo essere, ma viceversa accettare di realizzarla: egli si congiunge a se stesso solo nella misura in cui acconsente a rimanere a distanza da se stesso". Se un uomo vive, al di là di ciò che afferma, vuol dire che c'è qualcosa che lo tiene legato all'esistenza: ebbene, questo qualcosa gli impone di giustificare autenticamente sé e il mondo. Problema etico e problema politico sono due facce della stessa medaglia. La morale non fornisce ricette, può proporre soltanto dei metodi. Il Bene non è qualcosa che possa essere deciso a priori. L'esistenza concreta sfugge alla categorizzazione. Per l'ambiguità ontologica, il rapporto fra contenuto e senso di una azione va verificato caso per caso: la situazione decide la sorte di ogni valore. La verità, il benessere sono relativi alle situazioni, non può darsi una morale astratta come quella degli Stoici. Ciò non significa affatto che "poiché Dio è morto tutto è lecito". Anzi è vero il contrario : nulla è lecito se non è giustificato. Bisogna che ogni singolarità non contraddica l'universalità, che ogni impresa sia aperta alla totalità degli uomini.
Il secondo sesso è diviso in quattro parti: nella prima si analizza l'essere-donna dal punto di vista naturalistico, delle scienze. La scienza ci può rivelare la realtà materiale della donna ma non ci dice cosa deve essere una donna né che cosa può essere una donna. La verità esistenziale della donna non può venire dedotta dalle scienze, pena il riduzionismo o il biologismo. La seconda sezione affronta l'essere donna dal punto di vista della storia: su base storica, la donna è stata una "presenza-assenza", una presenza reale assente alla storia che è storia scritta e fatta dagli uomini, dal sesso maschile. Tranne alcune importanti eccezioni, la donna è stata ciò che l'uomo ha voluto che fosse. La terza parte è dedicata allo studio della immagine della donna proposta dai miti più antichi fino all'immagine femminile creata dalla letteratura. La quarta parte, infine, è una analisi del "vissuto" femminile, descritto in forma evolutiva attraverso le varie età della vita, dall'infanzia alla vecchiaia. La condizione femminile del presente è, per la de B., quella di una astratta eguaglianza contrapposta ad una concreta ineguaglianza. Le donne hanno di fatto raggiunto il pieno inserimento nella società: non è quindi più il momento delle rivendicazioni generali o delle battaglie di principio, ma bisogna che la donna scenda nell'individuale e approfondisca la conoscenza di se stessa. Conoscere se stessa è per una donna una prassi difficile. Tutte le identità che le vengono proposte dalla cultura ufficiale sono identità alienanti, che la mortificano, che registrano il suo stato di assenza culturale, di minorità sociale. La donna deve rifiutare di essere l'Altro dell'identità maschile e pagare il prezzo che questa scelta comporta. Nella storia della specie umana, la preminenza è stata accordata non al sesso che genera ma al sesso che uccide. L'uomo ha il "coraggio" di uccidere e di farsi uccidere, ha la spinta ad utilizzare attrezzi e a lavorare, a trascendere se stesso e la natura, e fonda così il complesso dei valori della civiltà. Di fronte ad essi la donna non ha mai opposto dei "valori femminili". Si è limitata a modificare la propria posizione in seno alla coppia e alla famiglia. Ma la donna oggi può provare a cercare la strada per la sua libertà. Una libertà che la pone in questione come individualità ,come questa donna qui, come "Io donna". E' una libertà difficile. Il binomio lavoro + diritto di voto non è la formula per la libertà. Solo infatti per un ristretto numero di privilegiate l'attività lavorativa porta con sé l'autonomia economica e sociale. La sintesi fra femminilità e libertà, fra femminilità e soggettività è ancora un problema aperto. In conclusione, la verità della donna non si può ancora fissare in un concetto o cogliere in forma definitiva ma solo "raccontare". Alla donna tocca decidere che cos'è la donna. La donna, dopo aver svelato la realtà della propria condizione, deve adesso viverla, ridefinirla. Un momento importante in questa ricerca di identità sarà costituito dai rapporti con l'altro sesso. Ma sul futuro dell'identità femminile e sul rapporto fra i sessi la de B. non intende azzardare pronostici.
Nel 1970, S. de B. si è posta il problema di sondare filosoficamente il mondo della vecchiaia (cfr. La terza età). Certo è che la vecchiaia diventa problema solo in una società che ha mitizzato la giovinezza: è dal dopoguerra che qualcosa di simile è accaduto. In primo luogo, la vecchiaia non è un elemento necessario della vita, nel senso che si può morire prima come si può essere uomini appieno senza aver fatto esperienza della senilità. Ciò che è rilevante è che, attraverso una analisi della vecchiaia, è possibile cogliere quelli che sono i nodi non risolti della vita sociale ed i veri e propri mali di un sistema culturale: un sistema che svuota la vita stessa di valore e di significato e che quindi attua una "scandalosa politica della vecchiaia" fin dai primi anni. una civiltà che si interessa dei giovani come dei vecchi solo per i suoi fini, che tiene la gran massa dei vecchi sul limite dell'indigenza, come la massa dei giovani su quello della disoccupazione, è un fallimento. E tutti i sistemi sociali contemporanei hanno fallito su questo piano, creando nei vecchi una nuova categoria di emarginati, accanto ai poveri, agli immigrati da altri continenti, ai malati di mente.

BIBLIOGRAFIA

De MARTINO-BRUZZESE, Le filosofe, Liguori Editore, Napoli 1994.
ZAMBONI, La filosofia donna, edizioni Demetra 1997.
E.STEIN, Essere finito e essere eterno, Città Nuova Editrice (ha una sezione dedicata alle opere della Stein).
S.WEIL, Quaderni, edizioni Adelphi .
H.ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Saggi Tascabili n.41 Bompiani.
H.ARENDT, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità.
H.ARENDT, La banalità del male, Saggi Feltrinelli.
S. de BEAUVOIR, Il secondo sesso, Edizioni Il Saggiatore.
S. de BEAUVOIR, La terza età, ediz. Einaudi (in Einaudi ci sono molte altre opere della de Beauvoir). 

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