Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

venerdì 31 gennaio 2014

Vito Mancuso, "Io e Dio. Una guida dei perplessi"

Da "http://www.recensionifilosofiche.info/" :

Milano, Garzanti, 2011, pp. 488, euro 18,60, ISBN 9788811601296

Recensione di Massimiliano Chiari - 21/04/2012

Dopo la pubblicazione de L’anima e il suo destino (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007), Mancuso prosegue il suo percorso di fondazione di una teologia laica, cioè di una teologica filosofica che pervenga alla rielaborazione del concetto di Dio, o più in generale del divino, in un’ottica eminentemente razionale e compatibile con i risultati dell’attuale ricerca scientifica, soprattutto nel campo della cosmologia e della biologia.
Il movente e l’obiettivo del libro sono dichiarati nel Prologo, dove Mancuso afferma che:

“Questo libro nasce […] dall’esigenza interiore di rifondare al cospetto delle perplessità odierne il pensiero di Dio” (p. 17); la ragione contemporanea considera ormai insufficiente la fondazione di tale pensiero solamente a partire dalla Chiesa e dalla Bibbia; il nuovo concetto di Dio va elaborato “all’aria aperta della libertà di pensiero” (ivi). In questa prospettiva, il libro intende presentarsi come un’opera di “teologia fondamentale” (ivi) nella misura in cui vuole riflettere sui fondamenti del discorso teologico. Abbandonando ogni principio di autorità, in se stesso sterile o addirittura dannoso per l’autentica comprensione della divinità, l’obiettivo è quello di “contribuire a far sì che la mente contemporanea possa tornare a pensare insieme Dio e il mondo” (p. 18), ovvero – aggiungo io – a pensare Dio a partire dal mondo.
Nei primi tre capitoli, come precisa lo stesso autore nelle Avvertenze (p. 9), viene effettuata una fenomenologia della situazione odierna in ordine alle forti perplessità a cui va incontro, oggi, il concetto speculativo mondo-Dio; i capitoli 6, 7 e 8 sono invece dedicati all’analisi critica, ovvero alla pars destruens dell’impostazione teologica dell’autore; infine, i capitoli 4, 5, 9 e 10 contengono la pars construens, ovvero la proposta personale della nuova teologia mancusiana.
L’opera, proprio come quella scritta da Mosè Maimonide – filosofo e rabbino spagnolo – tra il 1180 ed il 1190 d.C., vuole essere anche Una guida dei perplessi (come recita il sottotitolo di Io e Dio), un testo che sappia riconciliare la fede in Dio con “le nuove conoscenze filosofiche e scientifiche” (p. 21), senza la quale riconciliazione il credente è destinato a essere vittima di innumerevoli dubbi e perplessità. Un esempio per tutti: “Dopo milioni di innocenti massacrati nella più totale indifferenza celeste, è semplicemente impossibile parlare ancora di un Dio della Provvidenza storica. Ha scritto Primo Levi: «Se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza»” (p. 33; la citazione di Levi è tratta da Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1989, p. 140); vale la pena di ricordare, proprio su questo tema, il saggio del 1984 di Hans Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine jüdische Stimme (trad. it., Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, a cura di G. Angelino, Il Nuovo Melangolo, 1993). Secondo Mancuso non possiamo più, oggi, spiegare la presenza del male assoluto ricorrendo al più classico refugium theologorum utilizzato dalla coscienza religiosa di tutti i tempi, vale a dire il ricorso alla categoria del mistero (p. 34). Altra fonte di forte perplessità, prosegue Mancuso, consiste nell’“associare immediatamente al termine «Dio» un essere personale, pensando che ogni ricerca al riguardo sia necessariamente una ricerca su questa entità personale: Dio come un ente, come una cosa distinta da tutte le altre cose, per quanto superlativa” (p. 77); l’autore, che dichiara – pur con tutti i distinguo – di aderire alla fede cristiano-cattolica, pensa tuttavia che “si debba parlare di un Dio personale in senso ben diverso dalla modalità antropomorfica che campeggia solitamente nelle menti quando si nomina il termine «persona». Dio è personale solo nella misura in cui è anche impersonale, perché è il principium anche delle cose impersonali” (p. 79).
Nel terzo capitolo, che chiude la citata trattazione fenomenologica, Mancuso passa in rassegna le diverse prove e dimostrazioni (o “argomenti”, come preferisce considerarli) utilizzati nella storia della teologia per sostenere la conoscibilità di Dio, con certezza, a partire dalla sola ragione. La dottrina cattolica con il Concilio Vaticano I, precisamente nella Costituzione dogmatica Dei Filius del 24 aprile 1870, afferma categoricamente: “La santa madre Chiesa ritiene e insegna che Dio, principio e fine di ogni cosa, può essere conosciuto con certezza mediante la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose create” (Heinrich Denzinger, Enchiridion symbolorum definitiorum et declarationum de rebus fidei et morum, a cura di Peter Hunermann, ed. it. a cura di Angelo Lanzoni e Giovanni Zuccherini, EDB, Bologna, 1986; corsivo di Mancuso) e sanziona con la scomunica chi non accetta tale insegnamento. Ora, si chiede Mancuso, come non provare delle forti perplessità di fronte a tale certezza granitica ed autoritaria, tenuto conto che “le prove dell’esistenza di Dio non hanno mai funzionato a livello pratico” (p. 98); se avessero funzionato, l’esistenza di Dio sarebbe del tutto evidente a ogni uomo dotato di ragione, ma sappiamo che così non è.
Finora Mancuso si è limitato a sollevare una serie di perplessità; nei capitoli 6, 7 e 8 invece viene messa in atto la vera e propria pars destruens del suo percorso teologico, vale a dire l’analisi (fortemente) critica di alcune posizioni, credenze e dogmi, in particolare della tradizione cattolica. Questa, dal punto di vista teoretico, ritengo sia la parte meno interessante del saggio, in quanto mette in evidenza aporie e contraddizioni tutte interne alla Chiesa. Il lettore non cattolico, o ateo, non necessita, in fondo, di questa operazione di pulizia per elaborare in modo proficuo una riflessione ed un pensiero su Dio, essendo tale lettore per definizione immune dalle polemiche interne alla Chiesa cattolica. 

(Finale in crescendo!)
LexMat

Ma Mancuso è figlio di tale Chiesa e così sente forte il bisogno di superare il principio-autorità in favore del principio-autenticità: “Desidero in particolare promuovere un cambiamento di paradigma: il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità. Per principio di autorità intendo la prospettiva secondo cui si accetta di aderire a un concetto o a una dottrina non per motivi intrinseci alla cosa stessa, ma per motivi estrinseci legati all’identità di chi la propone. […] Tale principio di autorità è ancora oggi dominante nel cattolicesimo, a tal punto da essere di fatto il dogma primordiale da cui tutti gli altri dipendono” (pp. 194-195). Al contrario, l’autore intende promuovere “il passaggio da una fede come «dogmatica ecclesiale» […] a una fede «laica», non-clericale, per la quale l’istanza conclusiva è la coerenza del pensiero rispetto all’esperienza concreta della vita” (p. 198).
Autenticità significa anche la capacità della religione di sostenere le sue affermazioni al cospetto della comprensione scientifica del mondo naturale e resistere alla verifica della razionalità (p. 200). Segue l’esposizione dei numerosi errori e crimini compiuti dalla Chiesa cattolica in forza del citato, nefasto, principio di autorità. 
Autenticità, infine, significa per Mancuso non rinunciare a quell’onestà intellettuale che impone di non tacere le numerose contraddizioni, anche rilevanti, contenute nei libri sacri (messe puntualmente in evidenza nel cap. 7) e di non mascherare quelle aporie dottrinali, come il problema del male (di cui si parla nel cap. 8), mai affrontate e risolte fino in fondo dalla fede cattolica tradizionale.
Sicuramente la parte più suggestiva del saggio è la pars construens, quella contenuta – in particolare – nei capitoli 4, 5, 9 e 10. Innanzitutto, ci ricorda Mancuso, per pervenire a quella forma di “religiosità autentica” che si concretizza attraverso la “unità di Io e Dio” (p. 147), è necessario liberarsi dai pregiudizi; questa operazione di pulizia intellettuale è possibile nella misura in cui l’uomo è libero, desiderando – grazie alla sua irrinunciabile libertà – di volere, sopra ogni cosa, la verità (la verità dell’essere più che la verità della dottrina).
“È ora giunto il momento di dichiarare qual è il mio assoluto, qual è, esistenzialmente parlando, il mio dio. Rispondo in tutta franchezza che il mio assoluto non è Dio, inteso come «essere perfettissimo creatore e signore» […]. Il mio assoluto è il bene, l’idea e la pratica del bene [..] che si dice [nella dimensione fisiologica e biologica] come salute, [nella dimensione etica] come giustizia, [nella dimensione teologica, rispetto alla meraviglia che l’essere-energia suscita] come grazia” (p. 173). Ecco, con questo passaggio decisivo, qui oltremodo sintetizzato per ragioni di spazio, Mancuso si pone e ci pone chiaramente fuori, oltre la teologia dogmatica tradizionale, invitandoci a entrare nella dimensione, suggestiva e inusuale, della sua teologia fondamentale e laica, elaborata sulla scia di quelli che sono stati i suoi grandi maestri spirituali: Pavel Florenskij, Dietrich Bonhoeffer, Simon Weil, Etty Hillesum e il gesuita Teilhard de Chardin, per citare solo i principali.
“Credendo in Dio, io credo che quella dimensione dell’essere manifestata dalla tensione verso l’organizzazione e la complessità non sia un’illusione, ma l’ultima, la più fondamentale dimensione dell’essere-energia, e che essa sia il destino del mondo” (p. 398): già da queste ultime parole si intuisce – ma la lettura del libro ne consentirà un adeguato approfondimento – come a fondamento della teologia di Mancuso vi sia, innanzitutto e per lo più, una vera e propria ontologia che riconduce il concetto di essere a quello, elaborato dalla scienza fisica contemporanea, di energia. Questa dimensione eminentemente ontologica è stata, peraltro, diffusamente trattata da Mancuso nel suo precedente lavoro del 2007 (L’anima e il suo destino, op. cit.).
E dove dovrebbe condurre questa nuova ontoteologia? Verso “una fede più umana” (titolo, questo, del decimo e ultimo capitolo), verso una “fede non dogmatica” (p. 437) dove l’assoluto non è più rappresentato dal dogma, ma dal bene, dove lo statuto veritativo non è più di tipo dottrinale, ma pragmatico” (ivi).

giovedì 30 gennaio 2014

Lettera aperta a Wilmo e Franco

Sono io che ringrazio per l'interesse ricevuto.

Siamo tutti sulla stessa barca, volenti o nolenti, ma soprattutto dolenti.

Io non possiedo l'erudizione di tanti che ho incontrato in questo mondo di filosofi, ma avendo percorso una strada in forte salita ho potuto acquisire e credere in un metodo che tendo a definire come interdisciplinare, multifunzionale, un connettivismo delle filosofie.

Il traguardo raggiunto, quell'uscita dalle tenebre, dovrà essere proprio quella base da cui ripartire per raggiungerne altrettanti.

La Zambrano è peculiare nella sua analisi di Nietzsche ed il suo pensiero è riccamente analizzabile quanto semplice.

Il problema e la bellezza dell'arma della filosofia è che per capirla, amarla, viverla e farla propria, secondo me, bisogna aver intrapreso proprio un viaggio "brutto", una calata nell'abisso della mente, ed aver scoperto in essa appunto un arma, un metodo di pensiero, un coltello svizzero della ragione.

Grazie ancora e buona passeggiata (come quella di Rousseau che tanto mi piace od il vivere nella natura di Thoreau o le poesie di un Robert Frost) per i sentieri dolorosi, adesso da noi considerati semplicemente avventurosi, della vita.

Leggere un libro per vivere un'altra vita oltre la propria, e via così verso l'immortalità.

Post: http://lexmat.blogspot.it/2013/11/di-nuovo-giovane-e-per-davvero.html

Mi piace spesso citare, di William Blake, questa poesia:

Vedere il mondo in un granello di sabbia
E un paradiso in un fiore selvaggio,
Tenere nel palmo della mano l’infinito
E l’eternità in un’ora.

Raffaele Morelli. Guarire senza medicine. La vera cura è dentro di te


Parole mie:

La nostra storia ci ha fuorviato dal nostro progetto interiore.
Sembrano frasi fatte ma, non lo sono.

Rimaniamo sempre attaccati alle nostre disgrazie passate ed a tutto il dolore e la malinconia che comportano e continuamente le trasciniamo dietro, come a volerle riprendere e ristudiare per cambiarle e guarirci.
Non dobbiamo guarire niente invece.
Non siamo malati.
Dobbiamo soltanto seguire la strada di un miglioramento/cambiamento diretto verso il nostro vero sentire.

Dobbiamo adottare un metodo, un nostro stile interiore per pensare, parlare ed agire.
Esser certi della sincerità del nostro vivere, mettendoci certo sempre in discussione, ma anche procedere a pié sospinto, con sicurezza.
E' difficile da spiegare ma, vien da sé.

Seguite il vostro "piacere interiore" senza vergogna e pudori, certo con determinati limiti.

Le persone cambiano soltanto se lo sentono e vogliono da sole, gli altri non possono riuscire a cambiarle.

Il gioco dei rimpianti e dei rimorsi a chi o cosa giova?
Vivere sempre angosciati vale quale candela?

Le paure, ansie oppure angosce che ci bloccano sappiamo bene da dove vengono.
Siamo onesti "intellettualmente" con noi stessi!
"Accettiamo", ma non con rassegnazione e sconforto, ma con, "sicura e spensierata ragionevolezza dello strano contorto andare delle cose" (anche questo è difficile da spiegare)!
Eventualmente vi potete sempre leggere quello che diceva il grande Albert Camus dell' "assurdo" della vita.

D'ora in poi bisognerà andare sempre avanti.
Sempre avanti!

LexMat


Questo dopo è soltanto un estratto ma è indicativo del contenuto del Libro.
A me è servito ed aiutato. Il Sig. Morelli ha la mia stima.
Freud ha fatto il suo tempo.
LexMat


ISBN 978-88-04-62394-6
© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I Edizione Novembre 2012

Indice
Introduzione
9 Guarire senza medicine
Prima parte
21 Le leggi dell’anima
23 1 Curarsi con le leggi dell’anima
33 2 Fare sguardo
43 3 A ver cura del lato antico
55 4 Fare il vuoto
67 5 N on scegliere fra gli opposti
79 6 Meglio perdersi
89 7 Lasciar fare agli dèi
Seconda parte
103 E sercizi di autoguarigione
105 8 L’autoguarigione e le malattie psicosomatiche
117 9 L’autoguarigione e i disagi psichici
Conclusioni
135 La vera cura è dentro di te

Guarire senza medicine

Prima parte
Le leggi dell’anima

“Chiuda gli occhi, immagini che la paura assuma dentro
di lei il volto di una donna antica…” Con queste parole invito
i miei pazienti a diventare esseri cosmici. Trasformare
l’ansia in un’immagine è un’alchimia: è ragionare con i
codici dell’anima.
Il panico non è un nemico da sconfiggere, ma la manifestazione
di un’energia primordiale, soffocata da un atteggiamento
verso il mondo che non corrisponde all’essenza
di chi lo vive.
Guardarsi non significa volersi bene, piacersi, stimarsi.
Guardarsi è semplicemente percepire cosa accade adesso
nel nostro mondo interiore, lasciar emergere sentimenti,
emozioni, stati d’animo. Bisogna accoglierli e lasciarli
lì dove sono e così come sono. è necessario percepire la
loro presenza e cedere, senza resistere. Perché ogni volta
che guardo, che percepisco l’interno senza esprimere alcun
giudizio, sono nella casa dell’anima. Che non vive nel tempo,
che non sa cosa farsene dei nostri ricordi, della rievocazione
del passato. Siamo ciò che siamo perché una trama
invisibile sta tessendo l’essere che sono e che non conosco.
Il lato più prezioso di me è nascosto e segreto. Questo libro
è dedicato a chi vuole che questo segreto rimanga tale. Non
c’è niente di peggio che spiegare ciò che sono adesso attraverso
ciò che sono stato.
“Non so chi sono, non so dove devo andare, non so cosa
è meglio per me, non c’è niente da decidere, nessun progetto
da realizzare.” Queste sono le parole che l’anima adora.
Non c’è un passato che mi ha creato, non c’è una storia di
cui mi devo rendere conto. Il tempo non esiste per l’anima
che, come i sogni, vive di immagini senza tempo.
Se per il mondo interno il tempo non conta, neanche un
secondo ci separa dal primo giorno della creazione e quindiil
principio cosmico che abita in ciascuno di noi è sempre
identico. Fuori dal tempo, nel buio, nel vuoto, nel nulla,
qualcosa crea l’essere che sono. Solo se ragioniamo come
l’illimitato che ci abita possiamo riuscire a vivere una vita
piena, che si realizza secondo la natura di ciascuno di noi.
Se per l’anima il tempo non esiste, le sue funzioni sono eterne.
Dobbiamo ragionare secondo gli “eterni” che la abitano.
“Guarire senza medicine”, allora, significa prima di tutto
e più di tutto comprendere che siamo abitati da un principio
cosmico che ha la sua dimora nelle zone più antiche
del cervello e da lì irradia la sua forza smisurata, il suo immenso
potere di guarigione. Qualcosa dentro di noi sa curarci…
meglio di qualsiasi farmaco.
Ogni disagio è ricco di risorse da sfruttare
Nell’ipotalamo gli stati energetici (emozioni, sentimenti,paure,
disagi) si trasformano in ormoni, sostanze che modificano
l’organismo. Il mio modo di vedere il mondo e di
starci dentro, le mie idee e le mie relazioni possono diventare
il perno della salute o l’inizio di una malattia. Più di tutto
è importante il nostro modo di stare con noi stessi. C’è qualcosa
che posso fare quando sto male? Ci sono leggi del mondo
interno dell’anima capaci di curarmi e di guarirmi? Tanti
anni di lavoro mi hanno insegnato che cambiando il modo
di stare con se stessi si possono ottenere risultati prodigiosi.
E allora, niente medicine? No, ci sono patologie per cui i
farmaci sono decisivi, come l’infarto, il cancro e le malattie
genetiche. Ma ci sono tante patologie psicosomatiche, tanti
disagi psichici dove sono irrinunciabili le leggi dell’anima.
Le passeremo in rassegna.
Un disagio può diventare l’inizio di una vita piena, felice,
serena, che ci conduce verso la realizzazione dell’essere
unico che ciascuno di noi rappresenta. Oppure può aprire
la porta all’inferno, condannandoci a una vita tormentata,
lamentosa, infelice, in continua lotta con noi stessi.
Dunque il principio decisivo della cura risiede nell’anima:
la cosa fondamentale è la capacità di “arrendersi” al disagio.
Come dicono i taoisti e come ha ben chiaro il pensiero
zen, il saggio va alla meta senza alcuna intenzione. Arrendersi
ai disagi significa non cercare di cambiare le cose, ma
disporsi ad accogliere le energie sconosciute come l’ansia,
la tristezza, la rabbia, la gelosia, che vengono dall’invisibile.
Soltanto se rinunciamo ad allontanarli da noi gli dèi si
mettono sullo sfondo e non ci danneggiano.
“Perché mi ha lasciato?” No, niente domande! Io voglio
percepire il dolore. E basta. Devo diventare straniero a me
stesso, perché so che i poteri terapeutici che possiedo appartengono
al mio lato sconosciuto, invisibile, che è la radice
dell’anima. Ognuno di noi esiste adesso, solo adesso.
L’adesso è il riflesso del presente, vale a dire il modo con
cui l’eternità si affaccia e cerca di farsi conoscere. Stare nel
presente significa immergersi nell’unica energia esistente,
rimanere nel luogo dove ci sono tutte le soluzioni. Non
sono obbligato a risolvere i problemi, devo solo riuscire a
restare presente per qualche istante. E basta! È così che si
attiva l’Immagine innata di ciascuno di noi; è lei, e lei soltanto,
che può davvero risolvere i miei disagi.
C’è un’Immagine che guida la mia vita? C’è un sapere
innato che costruisce l’essere che sono? C’era il mio volto
quando ero un grumo di cellule nell’utero? Sì, c’era. Non
si vedeva, ma c’era. C’è un’immagine di me che vive al di
là del tempo, sconosciuta, cosmica, essenziale. Capire che
non va disturbata tormentandosi è fondamentale. Per curare
i disagi, è decisivo comprendere che quest’Immagine,
questa forza innata che sta costruendo la mia vita, i miei
organi, il mio volto adora il vuoto, il Nulla, l’assenza di ragionamenti
e di pensieri.
Comprendere come funziona il principio cosmico, di cui
siamo il riflesso, è fondamentale per fare quello che serve a
risolvere i disagi. Sbagliare significa cronicizzarli.
Non dobbiamo far altro che “ragionare” come l’anima.
Le sue leggi sono in grado di provvedere alla nostra vita,
alla nostra realizzazione più autentica.
Per stare bene, per conoscere la felicità, la salute del nostro
mondo interiore, occorre usare le chiavi dell’anima.
Senza di loro siamo perduti.
L’importante è non voler mai spiegare l’anima
C’è un’idea deleteria che ha percorso la psicoterapia fin
dall’inizio: quella di spiegare noi stessi in base a quanto ci
è accaduto nella vita. Crediamo di essere il risultato di una
storia, di parole che ci sono state dette, dell’amore o del rifiuto
che i nostri genitori hanno manifestato nei nostri confronti.
Così da questa convinzione ereditata dalla psicologia
si è formata una chiave di lettura univoca della sfera emotiva
e, quindi, un vero e proprio conformismo delle emozioni.
Un giorno ho chiesto a una mia allieva: “Come stai?”. Siccome
non rispondeva, ho aggiunto: “Tutto bene?”. Mi ha risposto:
“Bene è una parola grossa”. Le ho fatto notare che è
una frase ricorrente, che tutti ripetono quando parlano di sé.
Forse a noi, figli della cultura psicoanalitico-romantica,
piace farci vedere sempre un po’ sofferenti, un po’ a disagio.
La felicità è vissuta dagli intellettuali come un sentimento
che appartiene alle persone semplici, come i contadini, o a
chi si accontenta di una vita naturale, senza la complessità
cerebrale dei pensatori. Ma essere cerebrali, perdere la spontaneità
e la naturalezza è il peggior peccato di cui possiamo
macchiarci. La vera conquista è la semplicità, come ricordava
Jung in età avanzata, al culmine della sua saggezza.
Alla mia allieva ho detto che chi ritiene che “star bene”
sia “una parola grossa”, farebbe bene a cambiare mestiere.
Uno “psicoterapeuta cerebrale”, che indossa la maschera
della sofferenza per essere più interessante, è troppo concentrato
su di sé, sul proprio Io, sui rami secchi della sua
anima, per riuscire ad andare da qualche parte… e soprat-
tutto per portare fuori dal guado dei loro problemi (cioè
delle loro convinzioni) i pazienti che cura.
Sia nelle terapie di gruppo sia in quelle individuali ho
osservato che i pazienti iniziano sempre convinti di sapere
qual è la “causa scatenante” del loro problema.
Le “cause” riguardano sempre esclusivamente il passato
e quindi la “storia” dei pazienti. Quasi tutti rimangono
sorpresi quando mostro disinteresse per il loro racconto.
In genere faccio una specie di patto con chi viene da me,
che si potrebbe riassumere con queste parole: “Io e lei non
dobbiamo cercare la spiegazione di ciò che lei è in base a
quanto le è accaduto”.
All’inizio non è semplice comprendere che tu non sei
quello che ti è accaduto, anzi all’inizio la frase standard è:
“E per forza che soffro tanto! E già… con tutto quello che
mi è successo!…”.
Sono convinto che abbia assolutamente ragione l’ultimo
grande uomo della psiche in Occidente, James Hillman,
quando sostiene che c’è un’Immagine innata in ognuno
di noi (il daimon) che conduce la nostra vita, che si è scelta
persino i genitori e che non sa che farsene dei traumi infantili,
se non perché le servono a realizzare meglio il destino
che le appartiene.
Le vicende della vita non sarebbero altro, in questa chiave,
che i mattoni che servono al nostro Architetto per costruire
la sua casa, come le sostanze che sono utili al ragno per
fare il suo capolavoro, la ragnatela. Nel cervello della lumaca,
dell’ape, delle termiti (un cervello arcaico, agli albori
dell’evoluzione) è presente una geometria che deve essere
realizzata a ogni costo. La cattedrale che la lumaca
costruisce sul proprio corpo, nella quale nascondersi, occultarsi,
scomparire, è la perfetta prova generale dei nostri
templi… La lumaca non bada ai traumi che ha subito:
il lavoro della sua unicità è costruire la propria casa, che
già presenta le prime tracce di ciò che si evolverà in chiesa,
moschea, sinagoga.
Il tuo talento dove ti porta?
Quando un paziente viene da me e mi racconta il suo problema,
io mi faccio solo questa domanda. Sì, solo una domanda:
“Quanto si sta allontanando dalla sua vocazione,
dalle capacità della sua Immagine innata, della sua unicità?”.
Se un ragno smette di fare la ragnatela, muore!
Non stai male perché non ti hanno amato, o perché il tuo
lavoro non è andato bene, o perché tuo padre era un orco,
o perché tua mamma non ti ha mai capito… No, stai male
semplicemente perché non ti basi su ciò che ti caratterizza,
sulla tua diversità. Essere diversi significa che nessuno
può avere il problema di un altro, mentre tutti, proprio
tutti, come nelle trasmissioni più di moda, amano piangere
per gli stessi motivi. Un abbandono, una violenza infantile,
un fallimento, le liti familiari prendono il sopravvento
nel nostro mondo interno e impediscono di vedere che noi
siamo “altro”, ben altro rispetto alla storia in cui ci siamo
barcamenati. E anche dai pensieri, dai ragionamenti, dal
nesso di casualità.
Mentre analizzo il mio Io, dimentico che il cervello arcaico
continua incessantemente a produrre, costruire, generare,
realizzare l’essere che sono. Proprio come fanno la lumaca
e il ragno, quando costruiscono dal nulla la chiocciola
e la ragnatela.
Di questo mi interesso… Se qualcosa di profondo crea il
mio volto, vi sono tendenze, attitudini, vocazioni che appartengono
a me e solo a me. Se non le realizzo, mi ammalo…
Le grandi “epidemie” di disagio psicologico di questi
ultimi anni (ansia, panico, depressione, insonnia, malattie
psicosomatiche) sono figlie di un conformismo mentale
che ci vuole tutti uguali e del quale fa parte anche l’idea
che “star bene è una parola grossa”, che saremo veramente
à la page se avremo fatto un po’ di ore di psicoterapia e potremo
riconoscere, individuare, spiegare ciò che siamo in
base a quanto ci hanno fatto nell’infanzia. Poiché il passato
non è modificabile, mentre le convinzioni si fissano nelle
aree cerebrali e diventano croniche, fissazioni che incasel-
lano la nostra esistenza, possiamo conoscere la gioia di vivere
e realizzare la nostra vita solo se ci affidiamo alle aree
creative del cervello, vale a dire solo se facciamo le cose che
ci vengono spontaneamente, che ognuno di noi ha in sé.
Fare quello per cui si è portati, anche solo qualche minuto
al giorno, libera le sostanze che combattono il dolore,
l’ansia, la depressione. Meglio di qualsiasi psicofarmaco…
I bambini, quando giocano silenziosi per ore e ore, fannola
prova del loro futuro lavoro, della vocazione che li porterà
a essere individui realizzati. Siamo realizzati solo se facciamo
ciò che è scritto nella nostra Immagine innata. Questa
è la cura ed è questo che faceva dire a Groddeck che il principio
di ogni guarigione è fondamentalmente un principio
di autoguarigione.
Che cosa sa fare questa persona? Che cosa ha dimenticato
di sé, che cosa gli verrebbe davvero facile, spontaneo?
Sta facendo la sua ragnatela?
Devi tessere la tua tela, altrimenti sei perduto
Per me nella vita conta ciò che si è senza averlo imparato
a scuola, dai genitori, dalla società, dalla tv, dai preti.
Come la lumaca quando fa la sua cattedrale. Il seme di
ciascuno di noi, che crea ogni giorno l’essere che siamo, la
sa più lunga di noi sul nostro futuro, sulla nostra esistenza,
sul nostro destino. È una buona vita solo se fai quello
per cui sei portato, se realizzi la vocazione dell’Immagine
innata, iscritta nel cervello sin dall’origine intrauterina.
Così, se si intende la psicoterapia come il luogo dove cercare
le “cause” di ciò che siamo, si finisce puntualmente
per affannarsi intorno a un’illusione. Parlare dei problemi,
spiegarli, capirli, serve solo ad aggravarli. E a nulla servono
le lamentele, le autocritiche e i ragionamenti senza fine.
La verità è che, quando un problema è risolto, ci piace raccontare
la nostra “lotta”, esponendo le difficoltà che abbiamo
dovuto superare. Recitiamo il personaggio dell’eroe
che ha affrontato e vinto la sofferenza, vogliamo poter dire:
“Sapessi quanto è stata dura!”.
Così facendo, evochiamo senza saperlo la fatica, il dolore,
la sofferenza che si erano ormai allontanati; ogni volta
che li ricordiamo, li “ri-chiamiamo” in campo e ne prepariamo
il ritorno per la volta successiva, non appena si presenterà
il prossimo problema. Non siamo quasi mai attenti,
e men che meno presenti, alle parole che pronunciamo.
E preferisco non dire cosa penso della psicoterapia di coppia,
in cui si cerca di “metter d’accordo” tramite ragionamenti
la più spontanea delle “cose” umane: l’attrazione e
il desiderio erotico. L’eros sceglie il partner e accende la relazione
senza alcuna discussione, senza obiettivi, senza parole.
Parlare del desiderio e allontanarlo è un tutt’uno…
Qual è il regno dell’anima? Quali sono le sue molecole?
Come funzionano – come direbbe Hillman – i suoi
codici? Se c’è in me la vita che pulsa, se il cosmo assume
il mio volto, se c’è un’Immagine innata che mi rende
unico, perché continuo, ostinatamente, a comportarmi
come gli altri?
Perché tutti reagiscono allo stesso modo a un addio?
Stanno realmente mostrando reazioni umane comuni a tutti
e inevitabili? O hanno semplicemente acquisito un atteggiamento
standard, perché hanno dimenticato la loro vocazione
particolare, unica, individuale? Ho visto persone
passare anni d’inferno dopo essere state abbandonate, eppure
quasi tutte da tempo fantasticavano in segreto di chiudere
la storia proprio con quel partner, che poi li ha lasciati. Il
loro daimon, direbbe il mio amico Hillman, aveva bisogno
dell’addio: gli unici a non saperlo erano loro.
I tormenti erano solo “lotte” del loro Io contro la propria
autenticità: l’illusione di un rapporto che “salta” porta a congetture,
ragionamenti, sensi di colpa, tentativi di riavvicinamento
che non servono a nulla, e che anzi allontanano
sempre di più dal proprio nucleo, dalla propria Immagine
innata. Così quell’addio che serviva alla nostra evoluzione
diventa un inferno…
Ce ne si accorge a distanza di anni, quando si rivede la
persona per cui si impazziva: “Ma come ho fatto a stare con
uno così?…”. L’anima lo sapeva, il nostro Io lo ignorava.
Impara a “ragionare” come l’anima
Quante cose sa una persona che sta male? L’attenzione
va spostata dalla sofferenza alle capacità innate che possono
guarire. Il trauma non è la causa, ma l’occasione per far
scendere in campo l’anima. Quindi il lavoro da fare non è
risolvere i problemi, quali che siano, ma imparare a ragionare
come l’anima. Questa è la cura! Percepire che sono
“altro” dal problema, saper guardare, osservare i nostri stati
d’animo, è fondamentale.
Realizziamo la nostra unicità solo se riempiamo il nostro mondo
interno, la nostra consapevolezza, di immagini antiche.
Un mio paziente che soffriva di psoriasi è guarito
immaginando una donna di altri tempi che gli portava via
dalla pelle il disagio.
Quanto silenzio trova posto dentro di te? Se ogni giorno
c’è più spazio per il vuoto, la nostra unicità ha un percorso
facilitato. Siamo esseri unici non perché pensiamo, al contrario,
lo siamo quanto più ci affidiamo al Nulla, a mente
sgombra. Non dobbiamo risolvere i problemi, ma affidarlial
silenzio e al vuoto.
Realizziamo il nostro destino solo se non siamo unilaterali:
far vivere dentro di sé contemporaneamente la fata e
la strega è un compito sublime, per arrivare sempre di più
vicini all’Immagine innata. Questo è il codice dell’anima,
che produce i migliori risultati quando stiamo male.
Perdersi è sempre un segnale importante per evidenziare
la discesa in campo dell’anima. Quando ci perdiamo, “qualcosa”
sta rompendo con gli schemi abituali che condizionano
il nostro Io e la nostra vita. L’anima ci fa un grande regalo,
ogni volta che usciamo dalla strada tracciata e abituale.
Per star bene occorre dare spazio alle forze cosmiche che
ci abitano, riconoscerle, percepirle. Hillman sostiene, come
Jung, che al giorno d’oggi gli dèi sono diventati malattie.
Sì, ma se torniamo a immaginarli, portiamo l’anima a “sedere”
sui suoi archetipi. Qui si innescano progetti energetici
che hanno il sapore della guarigione.
Essere silenziosi, cercare il Nulla, perdersi, accogliere
gli opposti sono alcuni dei codici, delle chiavi, che servono
all’anima per portarci a ritrovare la salute.
Negli ultimi anni è stato coniato un termine che mi piace:
resilienza. È un concetto della fisica, per cui un corpo sottoposto
a stress di vario tipo, a traumi anche intensi, non
solo resiste, ma torna alla sua forma iniziale.
Mi piace pensare alla “resilienza” come all’Immagine innata
di ciascuno di noi, che rappresenta la sua identità più
autentica. Per questo dopo una grave malattia ci sentiamo
rinascere: dopo esserci sentiti deformati, stravolti, annichiliti
dalla sofferenza, c’è qualcosa dentro di noi che ci riporta
alle origini, a quello stato interiore che abitava la cellula
fecondata che eravamo. Resilienza significa che la nostra
Immagine innata è il perno dell’autoguarigione, delle forze
risanatrici dell’anima.
La resilienza ci insegna che anche dopo una grave malattia
possiamo veramente rinascere, possiamo tornare più forti
di prima e soprattutto più noi stessi.
Non dobbiamo dimenticarci che il cervello produce incessantemente
le risorse creative, riparatrici, rigeneratrici.
È a loro che dobbiamo dirigere il nostro sguardo, non verso
i disagi o i problemi.
Loro sono la cura: sono i codici dell’anima.

mercoledì 29 gennaio 2014

«Felice chi è diverso». Sandro Penna, la ricerca della diversità e la «santità del nulla»

Qui il grande e buon Marco ci riporta alcune poesie del Sig. Penna. LexMat
Da "http://marteau7927.wordpress.com/2012/06/12/sandro-penna-12-giugno-1906-21-gennaio-1977/" :

penna e pasolini

Favola
In un salone in cui gridano gli ori
- sorpresi dalla luce dell’aprile -
un re ascolta cento e cento prìncipi.

(Su vivi prati aleggiano taciuti
i canti…? Poi festosamente arriva
il grido umano della ragazzaglia).

Cadono voci e luci al vespro: frali
consistenze in aprile. Il re si perde
entro un lontano battere di ali.

Sandro Penna, Poesie (1927-1938)
Entro l’azzurro intenso di un meriggio d’estate
denso è il fogliame e assorto sotto il lucido sole.
Tutto è maturo e pieno. Non sono minacciate
le cose. E nondimeno, lontano come il sole,
e vicino, in sé vive – di sé solo – il mio amore.
Sandro Penna, Appunti (1938-1949)
XIV
Un po’ di pace è già nella campagna
L’ozio che è il padre dei miei sogni guarda
i miei vizi coi suoi occhi leggeri.

Qualcuno che era in me ma me non guarda
bagna e si mostra negligente: appare
d’un tratto un treno coi suoi passeggeri
attoniti e ridenti – ed è già ieri.

Sandro Penna, Una strana gioia di vivere (1949-1955)
Mi perdo nel quartiere popolare
tanto animato se la sera è prossima.
Sono fra gli uomini da me così
lontani: agli occhi miei meravigliosi
uomini: vivi e chiari, non valori
segnati. E tutti uguali e ignoti e nuovi.
In un angolo buio prendo il posto
che mi ha lasciato un operaio accorso
(appena in tempo) un autobus fuggente.
lo non gli ho visto il viso ma i suoi modi
svelti ho nel cuore adesso. E mi rimane
(di lui anonimo, a me dalla vita
preso) in quell’angolo buio un suo onesto
odore di animale, come il mio.

Sandro Penna, Croce e delizia (1927-1957)

Mi adagio nel mattino
di primavera. Sento
nascere in me scomposte
aurore. Io non so più
se muoio o pure nasco.

Sandro Penna, Poesie giovanili ritrovate (1927-1936)


Inoltre questo articolo che (spero di averlo trascritto bene) è davvero molto intenso.
Consiglio davvero la lettura.
LexMat

Da "http://www.lafrusta.net/riv_Penna_Savelli.html" :

di Giulio Savelli

È un luogo comune critico, ed è anche una evidenza difficilmente oppugnabile, che la poesia di Sandro Penna rifugga da ogni confronto con la storia e con la pressione che il mondo concreto esercita.
Nel fare ricorso a un glossario spirituale di immagini e percezioni ben definito e limitato - che non esclude elementi in senso lato storicamente connotabili, inseriti però in una sorta di ciclicità spirituale e naturale – i versi di Penna appaiono sospesi in una dimensione temporaleimmobile.
Non per questo, tuttavia, possono essere considerati fuori della storia e del mondo – piuttosto elaborano con nitida ed elegante ossessività una mossa di fuori gioco a sua volta storicamente connotata, uno dei paradigmi disponibili per ‘uscire dal mondo’.
Ogni epoca storica infatti ha i suoi modelli di opposizione al mondo così com’è dato; e quello moderno ha istituito diversi modi di rifiutare se stesso.
Uno di questi consiste nella ricerca della diversità.

In Penna la diversità si manifesta come una condizione originaria, che lo situa subito ‘fuori del mondo’. Ne è espressione una poesia giovanile:

S’andava verso il mare di Civitavecchia.
L’ingegnere guidava la svelta sua macchina
e diceva «Su bella, ancora molta strada».
Io vedevo alle svolte nel sole apparire
un nudo corpo di fanciullo, ma badate
ho detto io vedevo apparire, - ché il fanciullo
nudo non c’era. Eppure in quell’anno facevo
conti per l’ingegnere, ero bene nel mondo.

«Eppure» indica come lo stare nel mondo e i fanciulli nudi nel sole non vadano d’accordo.
E Penna, tra un fanciullo nudo che non c’è da una parte, e dall’altra il mondo che invece c’è - quello del lavoro, dell’ingegnere, dei conti da fare e dell’automobile veloce - Penna sceglie senza esitazione il fanciullo.
La scelta, anzi, neppure si pone: si dà la constatazione, esclamativa e lievemente stupita, di una scelta già fatta.
Nella poesia di Penna il mondo percettivo, costituito da colori e odori e luoghi, rimane, ma il resto del mondo, quello in cui vive l’ingegnere, per intendersi, non esiste.
La concentrazione sul tema erotico è riconosciuta da Penna stesso: «Sempre fanciulli nelle mie poesie! / Ma io non so parlare d’altre cose. / Le altre cose son tutte noiose».
Le «altre cose» si può ipotizzare siano in relazione di reciproca esclusione con ciò che è presente: guardare un ragazzo significa voltare le spalle a tutto il resto: lo sguardo è complementare alla cecità. Il corpo nudo e luminoso di un ragazzino sembra cioè che abbia un valore metafisico preciso – che sia la fessura, invisibile ai più, dove il mondo dà accesso a un altrove.
Si esce dal mondo passando per il corpo di un adolescente. Cosa ci sia in questo ‘altrove’ non è toccato dalla poesia di Penna, forse è indicibile, forse non ha neppure senso pensare che ci sia qualcosa.
L’atto importante è infatti quello dell’uscita, e la sua ripetizione. L’altrove si fa condizione di vita e luogo abitabile proprio attraverso la ripetizione rituale, ossessiva e felice, del gesto di uscire dal mondo.
La poesia di Penna dà testimonianza di questo gesto e della soglia - dell’attraversamento di un desiderio erotico che volta le spalle al mondo.

Stare nel mondo, il mondo delle «altre cose», è invece la vita comune, e l’essere comuni significa stare nel mondo condiviso.
Nella prima parte de La rima facile, la vita difficile così si declina, sotto specie di depressione, il vivere comune:

La mia vita si appanna, e poi che piove
scelgo il passaggio sotto il tunnel
dove tutto è molliccio, ma però non piove.
Qui tra la gente solita, che muove
il passo verso le solite cose
anch’io mi muovo tra cose non nuove.
Più comune degli altri, non so dove
muove il mio passo stanco, che non vuole
tale apparire a se stesso ed altrove.

Le «solite cose» sono ciò che seppellisce eros e poesia («Mentre noi siamo qui, fra consuete / cose sepolti») e la poesia può alludere ad esse ma non toccarle, pena l’esserne prosciugata.
Consueto, comune, solito, non nuovo (spesso in associazione a stanchezza, vecchiaia, aridità, noia) disegnano un campo semantico il cui opposto – inconsueto, non comune, insolito, nuovo – si può riassumere con il termine diverso.
La diversità, nel mondo di Penna, connota eros e poesia.

Penna non è solito teorizzare, ma in un’occasione ha distillato un aforisma in quattro versi che permette di considerare la diversità quasi come un segno algebrico.
Il riferimento è alla quartina (la quartina, dice Garboli a proposito di Penna, è «il metro sapienziale per definizione»), con cui inizia la raccolta intitolata Appunti:

Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.

La poesia è di una semplicità assoluta, e tuttavia solo in apparenza trasparente.
Ciò che si comprende subito è all’incirca quanto segue: chi è diverso trova la felicità nella diversità; ma se, oltre a essere diverso, è anche comune, la sua felicità si converte in dannazione.
Quale, allora, il significato di diverso e di comune e quale la loro relazione?
La complessità nascosta della poesia si concentra nel valore simbolico dei termini impiegati, simili a una X e a una Y di cui si debba stabilire il valore numerico, e nel fatto che il loro senso appaia intuitivo ma non sia in realtà così evidente.

Occorre partire dal valore che diverso ha nel mondo poetico di Penna, ma occorre anche cautela nell’indicare in che modo subisca in questa poesia una torsione e una tensione.
Nel contesto offerto dall’opera di Penna risulta infatti ovvio che l’essere diversi abbia un connotato positivo, vitale, e si riferisca all’amore per i ragazzi e alla poesia che li celebra; ma se a «diverso» si dà una valenza relativa alle preferenze erotiche non si capisce cosa possa significare l’essere diversi essendo comuni. La poesia direbbe che un eros differente da quello più diffuso non è compatibile  l’essere persone comuni che condividono la vita di tutti? Se si vive anche la vita consueta, allora la felicità diventerebbe dannazione? Perché mai? Si può inoltre osservare che la diversità consiste in una ricerca, ed è oggetto di una cura, di una attenzione: infatti la felicità associata all’essere diversi potrà essere sì originaria, ma può anche degradarsi e trasformarsi in dannazione o peccato se essendo diversi si è comuni.
Occorrerà dunque una attenzione e un lavoro interiore che consenta di mantenersi integralmente diversi - e la poesia, implicitamente, invita appunto a esercitare tale cura.
Ma se l’essere diverso (anche in quanto opposto all’essere comune) ha come corrispettivo esistenziale l’amore per i ragazzi, non è verosimile che sia l’attrazione fisica ad avere bisogno di attenzione per non degradarsi; è probabile, piuttosto, che questo amore sia parte di un insieme più vasto.
L’attività poetica rappresenta evidentemente tale insieme; interpretare tuttavia Felice chi è diverso in chiave baudeleriana - per cui il diverso sarebbe il poeta, felice nel momento in cui vive nel proprio elemento, in cui cioè è integralmente poeta, ma dannato in quanto anch’egli comune, costretto come l’albatro talora a posarsi - chiuderebbe la poesia entro i confini di un discorso metapoetico e metaletterario, prescindendo dalla consistenza esistenziale da attribuire all’essere diverso, quando Penna si propone invece una poesia in diretto contatto con la vita - «una poesia gocciolante di viva passione».
Oppure si deve intendere «guai» come senso di colpa, ossia come la condanna sociale interiorizzata che proviene dalla parte di sé convenzionale, «comune», quella arida e impoetica che ignora la bellezza dei ragazzini e il desiderio erotico che ispirano?
In questo caso la poesia parlerebbe del senso di colpa associato alla trasgressione erotica per invitare a ignorarlo. In una simile interpretazione potrebbe esserci del vero, ma la voce del mondo comune, che Penna di regola ignora, troverebbe allora in questa poesia un singolare spazio, non tanto di rappresentazione quanto funzionale.
Sarebbe infatti la sola poesia in cui il mondo comune, anziché essere spento grigiore, mostra una capacità sanzionatoria e un diritto all’ultima parola che mai altrove – e certamente non in poesia - Penna gli ha riconosciuto.

Provvisoriamente, un punto di equilibrio si potrebbe stabilire immaginando che l’amore per i ragazzi sia parte di una impegno verso la diversità da intendersi in senso sia erotico sia extraerotico.
Ci si trova, in ogni caso, di fronte a un significato contestualmente definibile che nel passare attraverso le relazioni imposte dal testo viene modificato.

Illuminante per la comprensione di cosa sia la ricerca della diversità è l’intertesto di questa poesia.

La coppia costituita da «felice» opposto a «guai» richiama infatti, palesemente, l’analogo «beati» opposto a «guai» del Vangelo di Luca (6, 20-6). Ovviamente la beatitudine è propria del regno dei cieli, mentre la felicità è terrena; tuttavia la corrispondenza delle opposizioni e l’uso della locuzione «guai a…», certo non consueta nella poesia moderna e comunque unica in quella di Penna, assieme alla forma assertiva, didascalica e quasi profetica del discorso, rendono il riferimento evangelico una traccia intertestuale assai evidente - oltre che rilevante sotto l’aspetto interpretativo. I beati del Vangelo di Luca, ricordo, sono i poveri, gli afflitti, gli affamati e coloro che seguono Gesù; la maledizione è diretta invece ai ricchi, ai sazi, a chi è senza preoccupazioni e benvoluto.

La prima indicazione ricavabile dall’intertesto evangelico è un ovvio parallelismo: il diverso è il povero, il sofferente, il diverso è chi segue la vera fede. Risulta evidente, pertanto, che la dannazione della diversità non consiste nell’emarginazione da parte della società. «Quando vi metteranno al bando e v’insulteranno (…) rallegratevi (…) ed esultate» (6, 22-3) dice il Vangelo: la beatitudine è per chi non ha quaggiù il suo posto: la beatitudine è nell’altrove rispetto a questo mondo, è nel regno dei cieli - proprio come la felicità è nell’altrove dal mondo della vita comune, pur essendo di questo mondo. Il riferimento evangelico rende poco plausibile, cioè, una interpretazione del secondo distico - «guai a chi è diverso / essendo egli comune» – che si basi sul senso di colpa per non essere conformi alla morale sessuale comune. Sarebbe come dire che un cristiano potrebbe sentirsi in colpa in quanto cristiano perché immerso in un contesto sociale pagano. Dire «felice» di chi è diverso è come dire «beato» di chi soffre: è un paradosso che indica il senso autentico della propria condizione ovviamente penosa. L’altrove – regno dei cieli o felicità amorosa - risarcisce della sofferenza e dell’emarginazione. Sebbene sia anche la ragione dell’emarginazione, essendo questa causata appunto dalla fede.

Si manifesta qui l’essenza della diversità: seguire la propria fede, opposta al mondo. Riguardo il passo evangelico intertesto di Felice chi è diverso, ossia il Discorso della Montagna, si può ipotizzare un tramite che conduce proprio al concetto originario di ‘diversità’. Appunti raccoglie, secondo Penna stesso, poesie composte dal 1938 al 1949; nel 1937 Penna stava leggendo una Vita di Gesù che, con tutta probabilità, si può identificare in quella scritta da Mauriac:

Anche se il vento copre
la primavera, il popolo
canta nella notte.
L’ascolto io dal mio letto.
Lascio la «Vita di Gesù».
Ardo a quel canto.

Mauriac nel commentare il Discorso della Montagna segue il Vangelo di Matteo (5, 1-48) piuttosto che quello di Luca, e interpreta, senza alcuna forzatura e tuttavia con sottolineature significative, le virtù predicate da Gesù come opposte al mondo, opposte alla natura, ed esclusive invece di coloro i quali vanno considerati «il sale della terra»:

Ces vertus à qui est promise la béatitude sont celles-là-même qui répugnent le plus à la nature. (…) «Heureux les doux car ils posséderont la terre… Heureux les pacifiques car ils seront appelés enfants de Dieu.» O dureté du monde! la douceur est encore et toujours ce qu’il y a de plus méprisé. Dès l’enfance, dans les petites classes, les doux sont persécutés. Nietzsche est au fond le philosophe du sens commun.

Le monde moderne est-il moins dur que le monde ancien? Rien n’est changé, sauf que ces Béatitudes ont été criées une fois pour toutes sur une colline, qu’aucune d’elles ne passera, que de génération en génération quelques créatures se les transmettront de coeur en coeur. Et cela suffit : «Vous êtes le sel de la terre.»

Le virtù cristiane sono virtù ‘contro natura’ e contrarie al senso comune: ancora oggi, nel mondo moderno, non meno duro di quello antico, sono virtù di alcune creature, e non certo di quelle più comuni. Essere cristiani, si può concludere, significa essere diversi.

In che modo possa avere echeggiato in Penna l’affermazione di Mauriac secondo cui le virtù a cui è promessa la beatitudine sono quelle stesse che maggiormente ripugnano alla natura non sappiamo: «Non è la costruzione il lieto dono / della natura. Un fiore chiama l’altro» afferma Penna in un’altra poesia di Appunti. Tuttavia non è questo il punto – non l’equivalenza banale e paradossale al tempo stesso fra eros comune e morale corrente, fra eros ‘diverso’ e morale cristiana. Il punto, piuttosto, è la costruzione della diversità come categoria, che origina dal cristianesimo e che può essere riempita dai contenuti psichici più diversi. Nella vita interiore di un individuo una passione, e in particolare una passione erotica, può essere analoga alla fede: può occupare la stessa centralità nella mente, farsi ossessione e abito mentale, aiutare nella solitudine e nel dolore come una droga, può essere altrettanto esclusiva e gelosa di ogni altra attività, può regolare su di essa le scelte di tutta la vita. Religione ed eros, pur fra loro antagonisti, sono analoghi – entrambi trasversali i campi del sacro e del profano, seppure ancorati una su di un lato e l’altro su quello opposto -, così che fede religiosa e scelta erotica possono, con particolare evidenza quando denominati ‘eresia’ e ‘perversione’, essere forme primarie ed equivalenti di diversità, implicando un’opposizione al comune sentire profonda e fondativa del Sé.

Il riferimento al Vangelo oltre a istituire un parallelo fra la fede e la diversità in senso erotico, sottolinea un altro aspetto di quest’ultima: l’accompagnarsi alla sofferenza. Non quella meritoria legata al seguire la vera fede, ma quella della miseria e della fame. In questo caso la fame è la frustrazione dell’amore. Il dolore dell’amore è ben noto e celebrato dalla letteratura; nella poesia di Penna però non proviene, come per Werther e infiniti altri, dall’amore infelice per chi, unico e insostituibile, non ci riama, bensì dalla rarità e fortunosità e precarietà dell’amore felice. Infatti, sebbene la focalizzazione sull’individuo sia di volta in volta la determinazione necessaria all’amore, non è il singolo oggetto del desiderio:

È il nobile sesso. E poi, di questo,
sola un’età (nobile, sì, ma fresco!).
Di questa solo alcuni rari esemplari.

L’oggetto del desiderio, sempre mutevole e inafferrabile, sempre impersonale come l’incarnazione provvisoria di una divinità, è un puro segno, un’astratta traccia interiore. Questa cerca e trova il luogo dove fermarsi e fissarsi, percorrendo tutto l’albero del desiderio, dal genere all’individuo, ma solo per ripetere l’incarnazione in un successivo percorso. Ciò che è irraggiungibile dell’essere amato non si trova nella profondità di una fusione impossibile, non si trova nel mistero dei sentimenti e dell’attrazione d’amore, ma nell’evanescenza e nella molteplicità delle apparizioni incarnate di volta in volta in questo o quel corpo. La sofferenza originata dalla mancanza dell’amore di chi si ama non ha dunque per effetto, come nell’amour-passion, una lacerazione dell’Io, ma una castità colma di desiderio e di allucinazione, che avvicina chi soffre per amore al povero e all’affamato del passo evangelico.

La diversità e la sua felicità si edificano dunque attraverso la sofferenza, e si servono di questa: l’ascesi è un risultato non desiderato nella ricerca della felicità, e tuttavia è il tema profondo di tale ricerca, ne è il nòcciolo. Il mondo comune scompare, si dissolve, nella mancanza e nella ricerca prima ancora che nella felicità. L’elevazione che accompagna la sofferenza permette di intravedere il valore simbolico dell’oggetto del desiderio: il corpo nudo di un ragazzino è una metafora carnale che sta per un simbolo il cui valore spirituale è un segno negativo. Felicità e sofferenza sono due aspetti della stessa opposizione al mondo. La diversità si incardina attorno a questo nucleo di assenza, a questo rifiuto, che ha un doppio connotato: positivo nel desiderio e nella sua soddisfazione, che conduce ‘fuori del mondo’; negativo nel disinteresse per il mondo stesso, e nelle condizioni a cui la soddisfazione del desiderio è assoggettata, tali da renderla ardua se non impossibile.

Questo nucleo di assenza trova in uno degli ultimi racconti di Kafka, Un digiunatore, una sorta di exemplum. La storia narra di un digiunatore professionista, che del suo talento ha fatto un’arte e che vive esibendosi al pubblico, chiuso in una gabbia sorvegliata, in lunghissimi periodi di astinenza dal cibo. Quando l’interesse del pubblico per la sua arte scema egli, che sempre era stato insoddisfatto delle proprie prove, limitate nel tempo dall’impresario, digiuna a oltranza, fino a morire. Appena prima di spirare confessa che egli digiunava perché mai aveva trovato cibo che gli fosse piaciuto. Come sempre in Kafka la parabola si presta a molte interpretazioni. La lettura più semplice, tuttavia, mette in evidenza la relazione fra il rifiuto della vita e l’arte, che viene identificata proprio nel rifiuto. La sofferenza del digiuno, ammirevole quanto incomprensibile, rende l’artista equivalente profano del mistico asceta, ed è inscindibile dall’arte, che consiste nel saper rifiutare la vita e vivere di questa negazione.

Nella costruzione della diversità profana creazione artistica e amore sessuale si equivalgono, in quanto possono essere considerate due varianti dell’originaria matrice cristiana. A proposito di questo rapporto, della relazione cioè che lega sofferenza, amore, creazione artistica e cristianesimo, si può ricordare quanto scriveva Susan Sontag nel saggio sull’artista come vittima esemplare:

In Occidente il culto dell’amore è un aspetto del culto della sofferenza, intesa come prova suprema di serietà (l’esempio della Croce). Gli antichi ebrei, i greci e gli orientali non attribuivano lo stesso valore all’amore perché non attribuivano lo stesso valore positivo alla sofferenza. Essa non era il marchio della serietà, che consisteva piuttosto nella capacità dell’individuo di evitare o superare la punizione della sofferenza e di conquistare la tranquillità e l’equilibrio. La sensibilità che abbiamo ereditata identifica invece la spiritualità e la serietà con il turbamento, la sofferenza e la passione. Per duemila anni cristiani ed ebrei hanno considerato spiritualmente elegante essere in pena. Non è dunque l’amore che sopravvalutiamo, ma la sofferenza; più precisamente i meriti e i benefici spirituali della sofferenza. Il contributo moderno a questa sensibilità cristiana è consistito nella scoperta che la creazione dell’opera d’arte e l’avventura dell’amore sessuale sono le due fonti della sofferenza più acuta.

Quando si trovano dei benefici spirituali nella sofferenza si può riconoscere una matrice religiosa cristiana; l’eleganza spirituale, nella cultura occidentale, richiede sofferenza, e questa nella sua forma profana passa elettivamente per l’amore e per la creazione artistica. Il cristianesimo inoltre ha offerto il modello originario della diversità, intimamente connesso con la sofferenza, e dunque a sua volta imparentabile con l’amore e con l’arte. Quando l’amore, la creazione artistica, il pensiero contestano il mondo, quando la virtù cristiana si muta in profana conservando la sua capacità di designare chi rappresenta «il sale della terra», allora si dà la diversità. E così come la secolarizzazione ha conservato all’arte e all’amore la natura seria e profonda della sofferenza esaltata dal cristianesimo, così ha prodotto delle varianti della diversità originaria, edificandola come una costruzione a molti piani, uniti da comode scale e trabocchetti. Nello sviluppo della modernità la diversità è stata il corrispettivo esistenziale dell’arte rivoluzionaria, dell’opposizione politica radicale, della critica sociale e culturale, della trasgressione erotica, e ha accompagnato ora l’una ora l’altra di queste forme di opposizione. In Penna non c’è alcuna forma di lotta ideale o politica, né di distanza critica, ma una opposizione passiva quanto radicale al mondo. Il rifiuto non è colmato da argomenti e da pensieri, ma da corpi e da parole: eros e poesia in tale rifiuto globale sono congiunti. La poesia e l’amore per i ragazzini - per quelli che lui chiama invariabilmente i fanciulli - sono specchi contrapposti, rimandano uno all’altro, e vivono in simbiosi: la poesia nasce dall’amore per i fanciulli e lo celebra, così come i fanciulli non sono individui incontrati, non sono persone, e neppure esperienze, ma le ostie adoperate per un rito interiore. Significato del rito, testimoniato dalla poesia, è l’astinenza dal mondo condiviso: quella che Pasolini ha definito la «santità del nulla» propria di Penna.
I fanciulli sono il segnaposto del ‘nulla’, il velo che lo avvolge, oltre a esserne la soglia. La diversità in Penna non è distanza critica, non si articola cioè come opposizione dichiarata, ma la sua radicalità esistenziale la rende un modello di ogni possibile rifiuto del mondo comune.

Tornando alla quartina Felice chi è diverso, ci si può ora chiedere come interpretare il secondo distico - «Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune». Il riferimento al Vangelo diviene qui asimmetrico: se nel Vangelo di Luca sono infatti i ricchi e i sazi a essere maledetti, in Felice chi è diverso i guai non sono per i comuni ma per i ‘diversi-comuni’. I guai, cioè, sono la condanna di una diversità che fallisce, il suo peccato. La maledizione che Penna lancia è diretta contro l’imperfezione che colpisce la diversità quando si mescola al mondo comune - quando, come potrebbe avvenire nell’inganno di una porta girevole, l’atto di uscita dal mondo diventa un ingresso nel mondo. Il peccato del digiunatore è il cibo: è la vita che si intromette nello spazio sacro della diversità, che spezza il temenos della purezza ascetica, che inquina il luogo separato da cui si guarda alla vita.

Il peccato, insomma, è l’opposto della poesia, è il prosaico dell’amore – è la semplice realtà della vita comune. Come accade che l’uscita dal mondo getti nel mondo? Probabilmente, è la soglia che consente di uscire, mille volte uscire, che può mettere in comunicazione col mondo: il corpo di un adolescente porta fuori di questo, ma anche dentro, e la sua violazione è un atto puro e impuro, sacro e profano, fisico e metafisico. Il sesso riporta al mondo comune. Non certo perché il sesso sia cosa sporca e colpevole, o perché lo sia il sesso fra adulti e adolescenti: in Penna il sesso è lieto e vitale e felice, solare come i suoi fanciulli; semmai lacrimevole per il povero mostro, ma sempre innocente nella sua essenza erotica. Il sesso ha però delle scorie, delle quali si rintracciano deboli tracce nella poesia. Queste scorie sono particelle di vita comune, e manifestano gli esseri umani sotto il profilo umano anziché sotto quello numinoso. Il desiderio erotico rivolto verso il genere, verso la divinità nelle sue incarnazioni innumerevoli, porta fuori del mondo; ma se nella rete tesa per il fantasma rimane impigliata l’imprevedibile umanità di un individuo, se l’impermeabilità affettiva ne viene scalfita, se si affaccia attraverso i sensi un vincolo che può trascendere il daimon erotico, allora il sesso riconduce alla vita comune e alla sua prosaicità. La vita comune infatti non solo corrisponde alla piattezza, ma anche alla pienezza del mondo, alla sua densità di relazioni affaticanti, alla pesantezza dell’amore gravato dall’affetto, alla sua ricchezza che sazia, ingombra di preoccupazioni la vita e rende torpido lo spirito; a cui si oppone il vuoto della diversità, la rarefazione dell’altrove dal mondo e la leggerezza dello spirito che in esso si muove. Il secondo distico - «Guai a chi è diverso / essendo egli comune» –, dunque, ammonisce il poeta da se stesso, dalla sua fragilità umana, dalla sua incapacità di essere compiutamente diverso: ingiunge la «santità del nulla» – perché questa è impossibile da realizzare. In questa impossibilità echeggia l’esortazione con cui termina il Discorso della Montagna secondo Matteo: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5, 48); e il commento di Mauriac: «Est-il dément? oui, c’est, au regard des hommes, un état de démence qu’il exige». Essere diversi esige una «cheta follia» il cui totale adempimento è impossibile. Non soltanto non si può essere fuori del mondo sempre, ogni istante della propria vita, ma proprio nell’essere diversi ci si può scoprire comuni.

Questi due versi, tuttavia, non solo ammoniscono circa la fragilità della diversità, ma indicano come il contatto fra diversità e mondo comune conduca a una perdita dell’innocenza – al peccato. Quando non è separatezza, ma condizione inclusa nell’essere comuni, la diversità perde ogni purezza, ogni santità, non è più il luogo a parte da cui guardare il mondo, ma è uno stare nel mondo, greve e torbido come il mondo stesso. È allora che vale quanto ne La religione del mio tempo affermava Pasolini: «essere diverso – in un mondo che pure / è in colpa – significa non essere innocente…».
Ciò che risulta compromesso nello stato del diverso che si trova a essere comune è la virtù della diversità, l’innocenza che proviene dalla sua natura antimondana.

Che la diversità erotica sia associata alla purezza e che l’essere comune o profano sia associato all’impuro deriva dalla natura originariamente religiosa della diversità in quanto tale. Mentre la mancanza di innocenza è infatti una caratteristica tipica dell’essere comune, e proviene direttamente dall’essere nel mondo, la cosiddetta perversione è in un certo modo il succedaneo disperato dell’innocenza, cercando nella ripetizione, nel rito, e nella mancanza di relazioni personali, la purezza e l’astrazione che il mondo non ha e impedisce di raggiungere. La perversione e il rito hanno entrambi la pretesa di un controllo magico del mondo. Come chi officia un rito o vi partecipa prefigura col suo agire un effetto preciso e prevedibile sul mondo spirituale, così il perverso si attende l’appagamento simbolico e perciò totale del desiderio. Adam Phillips, in uno dei suoi saggi psicanalitici, osserva che «le perversioni prefigurano sempre qualcosa», o che, «in altre parole, possiamo ritenerci perversi ogni volta che pensiamo di conoscere in anticipo ed esattamente quel che desideriamo». Conoscere in anticipo ed esattamente è il cuore della questione: ogni perversione, come anche ogni utopia, si fonda sulla pretesa di conoscere i desideri umani in anticipo e di prevenirli. La perversione è infatti una forma privata di utopia. Per tale motivo, intrinsecamente, è destinata al fallimento. Essere diversi è impossibile. Questa è forse la conclusione ultima che si può trarre dalla quartina di Penna – sebbene non sia la conclusione di Penna stesso. Nella sua opera poetica si alternano infatti e si mescolano i due atteggiamenti che appaiono in Felice chi è diverso: da un lato l’utopia erotica si trova rafforzata dalla propria inassimilabilità al mondo comune; dall’altro ci sono i «guai», che sono altro dalla sofferenza d’amore: sono l’innocenza perduta e il mondo senza desiderio, grigio e opaco, il mondo comune, sono in definitiva l’ombra di Saturno, divinità della malinconia e della malattia – miserie che Penna affronta con quieto stoicismo.

Non c’è invece in Penna (se non forse, velatamente, alla fine della sua vita e della sua produzione poetica) uno sguardo sul mondo comune che ne intuisca la pienezza vitale oltre alla densa e noiosa banalità. Quando la carcassa di Gregor, racconta Kafka, venne finalmente rimossa dalla nuova donna di servizio, i genitori e la sorella andarono a fare una breve gita in tram fuori città; i genitori si accorsero di come la sorella minore di Gregor fosse diventata una graziosa fanciulla, e cominciarono a immaginare che presto si sarebbe sposata: con queste parole finisce il racconto: «E fu per loro come una conferma dei nuovi sogni e delle loro buone speranze quando alla fine del tragitto la figlia si levò per prima in piedi e stirò il suo giovane corpo». La carcassa tutta ossa del digiunatore è stata invece pattumata insieme alla paglia della gabbia dagli addetti del circo; la vita è nelle famigliole che portano i bambini a vedere gli animali – la vita comune: quella che per Kafka è sempre stato l’orizzonte vitale irraggiungibile, e l’antitesi dello scrivere. Vita che altri scrittori hanno invece abbracciato, lasciando l’arte come un recinto sacro all’interno della propria esistenza borghese, per usare l’antitesi cara a Thomas Mann. Penna rappresenta un caso estremo di purezza, di coerenza e di cecità. «Guai a chi è diverso / essendo egli comune»: il conflitto che Tonio Kroeger ha sperimentato per la prima volta passeggiando sugli argini in compagnia di Hans Hansen è per Penna il limite estremo dello sguardo poetico, il panorama sfocato fra una sbarra e l’altra della gabbia. Non è il conflitto col mondo comune che interessa Penna, ma la delizia della sua assenza, e l’ossessione delle invisibili pareti che lo mettono in comunicazione con il nulla. Guai a scivolare per errore nell’essere comune.

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"Felice chi è diverso" è una poesia della prima metà del Novecento.
Non potrebbe essere stata scritta in questi ultimi venti anni più di quanto non potrebbe esserlo un sonetto di Petrarca.
Non è una questione di lingua o di stile. Semplicemente, il mondo a cui appartiene non esiste più.
La diversità intesa come utopia privata e come distanza ascetica o estetica è assai difficilmente praticabile: è andato infatti perduto il senso da attribuire a una separatezza rispetto all’essere comune.
Ciò vale per tutti i differenti piani della diversità, da quella politica a quella privata.
Per quella politica, ad esempio, si ricordi il tormentato esilarante monologo morettiano di Michele, in Palombella rossa, che afferma e nega contemporaneamente la diversità insita nell’essere comunisti.
L’utopia ha abbandonato la politica, così come il sacro ha lasciato l’arte, così come la perversione è diventata normalità, oppure citazione e replica, ironica o grottesca, di ciò che era, oppure, ancora, puro e semplice crimine.
Un esempio di assimilazione può essere l’omosessualità, la cui ‘diversità’, proclamata e rivendicata, talvolta esibita, è diventata negli ultimi decenni il veicolo che la sta conducendo alla legittimità e all’omologazione.
Certamente l’eros di Penna rimane ancora oggi problematico, culturalmente parlando.
La trasgressiva zona d’ombra in cui egli si muoveva è stata tuttavia rigorosamente spartita in due territori, e la bellezza dei fanciulli oggi appartiene o al lecito della moda e delle sue numinosità da marketing, o all’abominevole universo criminale della pedofilia.
Scintillio del desiderabile prescritto o tenebra del male assoluto, insomma, niente spazio per la diversità come distanza estetica dal mondo comune.

La qualificazione estetica della diversità era iniziata con l’età moderna stessa, con l’artista rinascimentale che in quanto ‘genio’ si differenziava dall’uomo comune, sviluppandosi pienamente nel Romanticismo attraverso l’opposizione fra ideale e reale e fra individuo e mondo, trovando infine nel corso della prima metà del Novecento il suo perfezionamento.
Nella seconda metà del secolo la rivoluzione postmoderna ha scompaginato gerarchie e dislocazioni, mescolando ciò che era diviso e frammentando ciò che da secoli era congiunto.
Il valore spirituale della diversità è stata una delle vittime di questa rivoluzione culturale, come lo sono stati gli adolescenti che Penna amava.
Pasolini ha pagine accorate sul mondo scomparso che traspare come una testimonianza involontaria dal volumetto di racconti di Penna, "Un po’ di febbre"; e in un articolo del ’75 uscito sul "Corriere della Sera", replicando a Moravia, affermava che l’omologazione culturale travolgente – ciò che qualche anno dopo sarebbe stato classificato come ‘il postmoderno’ – lo toccava non solo in quanto intellettuale o cittadino, ma nella sua vita intima: l’omologazione – scriveva - «consiste (…) in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo».
Assieme ai ragazzetti di Pasolini e di Penna stava dissolvendosi la possibilità di amarli – di dare un senso extraerotico a una diversità erotica.
La massima sapienziale che recita «felice chi è diverso» stava diventando un anacronismo, o, al massimo, una parola d’ordine analoga a «nero è bello», una esibizione d’orgoglio finalizzata a fare della diversità una ‘differenza’.

Oggi risulta difficile capire di cosa Pasolini si lamentasse, oggi che il mondo è di nuovo stabile e in apparenza eterno nei suoi rituali di produzione e di consumo.
La transizione è infatti compiuta. Oggi quasi sembra che la poesia di Penna alluda all’impossibilità di possedere oggetti e di avere uno stile di vita che sia davvero eccezionale e invidiabile; sembra che metta in guardia dall’acquisto di un modello di cellulare che pur essendo esclusivo non fa più tendenza perché ce l’hanno in troppi.
Il fatto che la lettera del testo consenta questa interpretazione – un deliberato fraintendimento - dovrebbe gettare un lampo di luce sulla profondità esistenziale raggiunta dalla superficialità contemporanea.
Per questo "Felice chi è diverso" ha bisogno di un commento, di una chiarificazione: perché pur essendo una poesia molto semplice, parla con la voce di un passato prossimo che ci è però così lontano nella sostanza esistenziale e culturale da produrre facilmente la sensazione della trasparenza senza che a tale sensazione corrisponda una comprensione effettiva.
Cosa c’è infatti di più comune, intorno a noi, della diversità, e della ricerca della felicità attraverso il conseguimento di una diversità simbolica?
La separatezza dell’essere diverso, la distanza estetica dal mondo condiviso, l’arte e l’eros come religione e come eresia – ecco quanto è andato perduto.
In compenso, per così dire, la diversità si è resa disponibile quale opzione esistenziale di massa, senza innocenza, senza peccato, senza trasgressione; e l’universo globalizzato dei consumi potrebbe fare proprie le stesse parole di Penna, componendole in un ordine appena differente: «felice chi è diverso, essendo egli comune» potrebbe essere la massima che indica a tutti e a ciascuno il giusto posto nel mondo e la tranquillità dello spirito.

martedì 28 gennaio 2014

Il Pensiero e la Catastrofe

1. Il dibattito filosofico dopo il terremoto di Lisbona del 1755

1.1. Prima del terremoto: l’ottimismo di Leibniz.

“Qualche avversario ... risponderà forse ... dicendo che il mondo sarebbe potuto essere senza il peccato e senza le sofferenze: ma io nego che allora sarebbe stato migliore. Infatti bisogna sapere che tutto è connesso in ciascuno dei mondi possibili: l'universo, qualunque esso sia, è tutto di un pezzo, come un oceano; il minimo movimento vi estende il suo effetto a qualsiasi distanza, benché questo effetto diventi meno sensibile in proporzione della distanza; di modo che Dio vi ha tutto regolato in anticipo, una volta per tutte, avendo previsto le preghiere, le buone e le cattive azioni, e tutto il resto; e ciascuna cosa ha contribuito idealmente prima della sua esistenza alla decisione che è stata presa sull'esistenza di tutte le cose. Così nulla può essere cambiato nell'universo (così come in un numero) mantenendone salva l'essenza, o, se volete, l'individualità numerica. Così, se il minimo male che accade nel mondo vi mancasse, questo non sarebbe più lo stesso mondo, che tutto contato, tutto soppesato, è stato trovato il migliore da parte del creatore che l'ha scelto”.
Si Deus est, unde malum? Se Dio esiste, da dove nasce il male ? (ma anche Si Deus non est, unde bonum?, se Dio non esiste da dove nasce il bene?) Noi che facciamo derivare tutto da Dio, dove troveremo la sorgente del male? La risposta è che essa deve essere cercata nella natura ideale delle creature, in quanto questa natura è presente nelle verità eterne che si trovano nell’ intelletto di Dio, indipendentemente dalla sua volontà (Teodicea). Leibniz si pone la stessa domanda che a suo tempo si era posto Agostino (così come Plotino), angosciato dalle tesi manichee che pretendevano l’esistenza di un principio del male accanto a quello del bene. Analoga a quella di Agostino è anche la risposta che Leibniz fornisce. Il male ha una natura puramente privativa: esso esprime la semplice mancanza di perfezione che necessariamente differenzia la creatura dal creatore. Il male non esiste come entità fisica, non ha un suo status ontologico. Plotino paragonava il bene al propagarsi della luce di una candela e il male non era altro che laddove il bene (la luce) non arrivava, ossia era una mancanza di bene. Anche per Leibniz ad esistere è solo il bene, l' essere, la perfezione; ma vi sono gradi diversi di essere, di bene, di perfezione. Ciò che manca ai singoli esseri, ai singoli beni, alle singole perfezioni per essere assoluti, questo è il male. Il male è dunque puramente negativo: non essere, non bene, imperfezione. Tutto ciò definisce il male metafisico, il male che nasce dalla mancanza di essere (pensiamo all’ esempio della candela di Plotino).

1.2. Dopo il terremoto: il pessimismo di Voltaire

Per segnare la nascita dell’età moderna possono essere scelti molti eventi. Uno di essi è, senza dubbio, l’immane terremoto che colpì Lisbona il 1° novembre del 1755. È stata l’ultima volta che i piani di Dio sull’uomo sono stati oggetto di un dibattito pubblico generale in cui si sono impegnate le menti più notevoli del tempo: Voltaire, Rousseau e Kant. Fra le macerie di Lisbona l’indifferenza della natura, il male e il dolore del mondo si riverberano sul volto di un Dio che se non rinuncia alla sua onnipotenza, come suggeriranno al pensiero le catastrofi “umane, troppo umane” delle guerre mondiali, della bomba atomica e dei campi di sterminio, deve almeno deporre la sua maschera di misericordia. Ma nelle pieghe dei discorsi della filosofia intorno alle rovine della città, un interrogativo, assai più inquietante, fa già la sua comparsa e ci accompagna fino a oggi: e se l’autentica catastrofe non fosse nient’altro che l’uomo stesso?
Voltaire proprio sull’onda dell’impressione sconcertante suscitatagli dal terremoto di Lisbona, scrisse un Poema sul disastro di Lisbona, nel quale nega l’affermazione della Teodicea di Leibniz secondo cui "tutto è bene". Non è vero che tutto sia volto a fin di bene, anche il male naturale, i singoli piccoli o grandi mali patiti da tutti gli uomini. Il bene è invece sempre mischiato con il male. E aggiunse: «Un giorno tutto sarà bene, ecco la nostra speranza; tutto è bene oggi, ecco l’illusione».

1.3. Voltaire, Il terremoto di Lisbona e il migliore dei mondi possibili

Una metà dei passeggeri, sfiniti, stremati dalle inimmaginabili angosce che il rullio d'un vascello provoca nei nervi e negli umori tutti del corpo agitati in senso opposto, non avevano nemmeno la forza di allarmarsi del pericolo. L'altra metà urlava e pregava; le vele eran strappate, gli alberi spezzati, il vascello squarciato. Chi poteva lavorava, nessuno capiva niente, nessuno comandava. L'anabattista aiutava un poco alla manovra; stava sulla tolda; un marinaio pazzo lo colpisce brutalmente e lo stende sul ponte; ma il contraccolpo fu così violento che la scossa lo buttò fuori bordo a testa in giú. Rimase sospeso, uncinato dall'albero spezzato. Il buon Jacques corre in suo soccorso, lo aiuta a risalire e dallo sforzo è precipitato in mare sotto gli occhi del marinaio, che lo lascia perire senza nemmeno degnarsi di guardarlo. Candide s'avvicina, vede il suo benefattore che riappare un momento e per sempre scompare. Vuol buttarsi in mare per soccorrerlo; il filosofo Pangloss glielo impedisce, gli dimostra che la rada di Lisbona è stata creata apposta perché quell'anabattista ci si annegasse. Intanto che glielo dimostra a priori, il vascello si spacca, ogni cosa perisce salvo Pangloss, Candide e il marinaio pazzo che aveva affogato il virtuoso anabattista; quel farabutto nuotò felicemente fino a riva, dove una tavola portò Pangloss e Candide.
Quando si furono un poco rimessi, s'incamminarono verso Lisbona; restava loro qualche soldo, col quale speravano di scampar dalla fame dopo esser scampati alla tempesta.
Hanno appena messo piede in città, piangendo la morte del loro benefattore, ecco che la terra trema sotto i loro piedi; il mare si gonfia spumeggiando nel porto, e spezza le navi ancorate. Turbini di fiamme e cenere coprono strade e pubbliche piazze; crollano le case, i tetti si rovesciano sulle fondamenta, le fondamenta scompaiono; trentamila abitanti di ogni età e sesso son schiacciati sotto le macerie. Il marinaio diceva fischiando e bestemmiando:
“Ci sarà da guadagnare qualche cosa, qui”.
“Quale sarà la ragion sufficiente di questo fenomeno?” diceva Pangloss.
“Ecco la fine del mondo!” esclamava Candide.
Il marinaio corre immediatamente in mezzo alle macerie, sfida la morte per cercar denaro, ne trova, se ne impossessa, s'ubriaca, e, dopo aver smaltito la sbornia, compera i favori della prima ragazza di buona volontà che incontra sulle ruine delle case distrutte, in mezzo a morti e moribondi. Frattanto Pangloss lo tirava per la manica.
“Amico,” gli diceva “non sta bene, vieni meno alla ragione universale, scegli male il momento”.
“Testa e sangue,” rispose l'altro “son marinaio, nato a Batavia; quattro volte ho calpestato il crocifisso in quattro viaggi al Giappone, sei cascato bene con la tua ragione universale!”
Alcune schegge di pietra avevan ferito Candide; era steso sulla strada, e coperto di macerie. Diceva a Pangloss:
“Ahimè! procuratemi un po' di vino e d'olio; muoio”.
“Questo terremoto non è cosa nuova,” rispose Pangloss: “la città di Lima provò le stesse scosse in America l'anno scorso; identiche cause, identici effetti: certamente c'è una striscia di zolfo sottoterra da Lima a Lisbona”.
“Non c'è nulla di più probabile”, disse Candide; “ma, per Dio, un po' d'olio e di vino”.
“Come, probabile?” ribatté il filosofo “sostengo che la cosa è dimostrata”.
Candide svenne, e Pangloss gli portò un po' d'acqua dalla vicina fontana.
Il giorno dopo ripararono un poco le forze con qualche provvista da bocca trovata strisciando fra le macerie. Poi si misero a lavorare come gli altri per soccorrere gli abitanti sfuggiti alla morte. Alcuni cittadini soccorsi da loro gli offrirono il miglior pasto che fosse possibile in quel disastro. È vero che il pasto era triste; i convitati innaffiavano il loro pane con le lagrime; ma Pangloss li consolò accertandoli che le cose non potevano andare altrimenti.
“Poiché” diceva “queste cose sono per il meglio. Poiché, se c'è un vulcano a Lisbona, non può essere altrove. Poiché è impossibile che le cose non siano dove sono. Poiché tutto va bene”.
Un ometto nero, familiare dell'Inquisizione, che gli stava accanto, prese educatamente la parola e gli disse:
“Si direbbe che il signore non crede al peccato originale; poiché, se tutto va per il meglio, non c'è dunque stata né caduta né castigo”.
“Domando umilissimamente perdono all'Eccellenza Vostra” rispose Pangloss ancora piú educatamente “perché la caduta dell'uomo e la maledizione entravano necessariamente nel migliore dei mondi possibili”. [...]
(Voltaire, "Candido ovvero l'ottimismo", Rizzoli, Milano, 19944, pagg. 49-55)

1.4. Rousseau e Kant. La responsabilità degli uomini

Rousseau entra in polemica con Voltaire, autore - all'indomani del sisma - del Poema sul disastro di Lisbona, un vero e proprio manifesto del disincanto, della disperazione, del pessimismo. In maniera sorprendente il primo scende in difesa dell'ottimismo: sembra voler dire a Voltaire che i poveri non possono permettersi il pessimismo, che i deboli, i diseredati e gli infelici debbono già sopportare un carico di miseria e di privazioni fin troppo pesante per poter accogliere anche il fardello di una disperazione senza rimedio. L'autentica catastrofe non proviene dalla natura: non questa «aveva riunito in quel luogo - scrive Rousseau a Voltaire - ventimila case di sei o sette piani». Se «gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto». È all'uomo, al particolare sviluppo storico della società, quindi che Rousseau imputa la radice della catastrofe. Con uno scarto politico il filosofo si distacca dal dibattito tradizionale della teodicea - tanto da coloro che con Leibniz giustificano il male come un dettaglio nell'armonia prestabilita del migliore dei mondi possibili, opera senz'altro di Dio, quanto da coloro che si abbandonano a un disincantato, amaro pessimismo verso l'incontrollabilità della natura. A loro contrappone la speranza nell'unica delle catastrofi a sfondo ottimistico, la rivoluzione.
In sintonia con le riflessioni rousseauiane si pongono anche i quattro scritti dedicati da Kant all'eco suscitata dal terremoto di Lisbona: l'ispirazione illuminista è palese quando il filosofo tedesco polemizza con l'uso superstizioso della catastrofe come spauracchio per indurre negli uomini una «cieca sottomissione». «Fra tutte le ragioni che muovono la pietà religiosa - scrive Kant - quelle che traggono spunto dai terremoti sono senza dubbio le più deboli». Anche qui il distacco dalle discussioni teologiche è evidente: al loro posto già si intravede negli scritti kantiani un reticolo di spiegazioni scientifiche e dati empirici, accompagnate dall'accusa nei confronti delle responsabilità dell'uomo - città costruite in luoghi a rischio, soluzioni urbanistiche che amplificano gli effetti dei sismi. La traiettoria dell'Illuminismo è così tracciata tra due fuochi: la scienza da un lato e la politica dall'altro come chiavi d'interpretazione del mondo.

2. Leopardi: la Natura “madre matrigna

2.1. L’indifferenza della Natura

Il Dialogo della Natura e di un Islandese fa parte delle "Operette morali" in cui Leopardi espone, sotto forma di prosa e di dialogo, il tema dell'assoluta infelicità dell'uomo, minacciato continuamente da una Natura indifferente al suo dolore.
Un uomo, simboleggiato dall'islandese, dopo aver cercato a lungo un luogo in cui vivere lontano dalle prepotenze della Natura, alla fine se la ritrova di fronte, bella e terribile insieme, sotto le sembianze di una donna gigantesca. L'uomo comincia a parlare con essa e quando l'accusa di perseguitarlo, sia con l'inclemenza dei climi sia con altri fenomeni, la Natura risponde sostenendo che l'uomo s'inganna se pensa che il mondo sia stato creato per lui. Anzi, essa non si accorge neppure dell'esistenza dell'uomo. La sua unica preoccupazione consiste nel garantire il "perpetuo circuito di produzione e distruzione" del mondo. Anche il più inquietante interrogativo dell'Islandese - "a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo?" - riceve una risposta indiretta nel finale ironico e amaro: la vita infelicissima che coinvolge tutto il creato non giova né all'Islandese né ai due leoni che, divorando l'uomo, potranno contare su un altro giorno di vita, prima di morire anch'essi.
Nel 1836, poco tempo prima di morire, Leopardi affidò al canto La ginestra o il fiore del deserto il suo testamento filosofico. Il poeta, evocando i popoli che un'onda di mar commosso (un maremoto), un fiato d'aura maligna (un'epidemia), un sotterraneo crollo (un terremoto) distrugge si', che avanza a gran pena di loro la rimembranza (distrugge al punto tale che di essi rimane a fatica il ricordo), invita l'umanità ad abbandonare gli odi e l'ire fraterne e ad incolpare delle proprie sofferenze l'unica vera nemica, la natura, madre di parto e di voler matrigna. La sola guerra che vale la pena di combattere è quella contro la natura: l'uomo magnanimo ritiene che i suoi simili dovrebbero essere fra se confederati e tutti abbraccia di vero amore, porgendo valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli della guerra comune (porgendo ed aspettandosi dagli altri valido e pronto aiuto nei pericoli che minacciano ora gli uni ora gli altri e nelle angosce della guerra comune contro la natura ostile). Ammettere la nostra fragilità; abbandonare gli odi e le reciproche inimicizie; tentare di realizzare il solo progresso possibile, comunque imperfetto, mai risolutivo, ovvero migliorare, per quanto possibile, le condizioni dell'uomo; alleviare le sofferenze dei nostri simili; evitare di aggiungere le conseguenze nefaste della nostra brama di potere, del nostro egoismo, della nostra violenza (una violenza che spesso si maschera di giustizia) ai mali che già la nostra condizione "naturale", sottoposta alla malattia, al decadimento, alla vecchiaia, alla morte, ci impone: questa la splendida utopia del Leopardi.

2.2. La critica dell’ottimismo spiritualistico

Il Poeta sin dai primi versi sviluppa la sua polemica contro ogni forma di antropocentrismo (la pretesa da parte dell’uomo di essere il centro dell’universo e di dominare la Natura) e di ottimismo. Quali sono gli obiettivi polemici del poeta? Non soltanto gli spiritualisti cattolici – che pongono al centro dell’universo l’Uomo, creatura prediletta da Dio - , ma anche quel pensiero laico illuministico ottimista circa la possibilità di un progresso legato allo sviluppo delle scienze e delle tecniche, fiducioso quindi di una perfettibilità del genere umano.
La potenza della Natura, personificata nella terribile forza del Vesuvio, ci ricorda che con un suo piccolo movimento può annichilire il Tutto, irridendo in questo modo la sciocca pretesa di un futuro sempre più radioso per l’uomo (Le magnifiche sorti e progressive).

Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.


2.3. La “follia” della guerra e l’utopia solidaristica contro la Natura

L’accettazione dell’”arido vero” è il nucleo vitale di un pensiero che non fugge la realtà, non la mistifica, per vedere piuttosto “il mal che ci fu dato in sorte”, un pensiero che si lascia prendere da un sentimento di profonda pietà per l’uomo e gli altri esseri viventi vittime di un potere ostile che li condanna alla sofferenza. Il Poeta giunge a formulare quel progetto o quell’utopia solidaristica che costituisce secondo alcuni il punto più alto della lirica leopardiana: solo solidarizzando tra loro e confederandosi contro il comune nemico, fondandosi su una veritiera analisi della propria condizione e dell’esistenza universale, gli uomini potranno fondare una convivenza civile più umana, salda e duratura. Ma gli uomini agiscono diversamente: come soldati che circondati da un nemico che li circonda, piuttosto che unirsi per contrastare la minaccia incombente, combattono tra di loro.

Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,

Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.


2.4. La critica dell’antropocentrismo

La ginestra, il fiore che cresce sulle alture vesuviane, ha la perfetta consapevolezza dell’inutilità di ogni sforzo che miri a violare le leggi naturali e biologiche della vita umana e dell’universo. Il fiore del deserto continuerà a diffondere il proprio profumo pur nell’imminenza della distruzione, “saggia” perché consapevole, senza la codardia di un’inutile supplica (codardamente supplicando), senza il forsennato orgoglio di chi si sente padrone dell’universo e si finge un destino di immortalità (non eretto con forsennato orgoglio inver le stelle), ma lenta, flessibile...perfetta metafora di chi ha raggiunto una perfetta consapevolezza filosofica della vita e del destino dell’uomo.

E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno

Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.


JEAN - JACQUES ROUSSEAU Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona (18 agosto 1756)
Introduzione


Col terremoto di Lisbona del primo novembre 1755 inizia, ad avviso di molte voci storiografiche autorevoli, l’età moderna. Dinanzi a tanta e tale tragedia, si scatena una vivacissima reazione intellettuale, un’aspra e (talora) sdegnata protesta contro l’ingiustizia divina al cui fondo - nel silenzio sfiduciato della sua solitudine, nel gelo propagatosi con la mattanza lusitana - l’uomo europeo sembra ritrovare, almeno in qualche misura, il proprio enigma. All’ottimismo teologico-filosofico dei leibniziani sostenitori che viviamo nel migliore dei mondi possibili – basti qui menzionare Alexander Pope, che, nel suo Saggio sull’uomo, sosteneva che: «tutto è bene e l’uomo gode della sola misura di felicità che il suo essere è suscettibile di provare» -, risponde con profondo, asperrimo disincanto Voltaire nel suo Poema sul disastro di Lisbona, ove dichiara, fra l’altro, che «non tutto è predisposto a favore della nostra felicità, il male è sulla terra; il principio segreto della natura ci è sconosciuto e tutti gli elementi di essa - animali, esseri umani, piante e minerali - sono in guerra… L’uomo è straniero a sé stesso, e la natura è il regno della distruzione; quello che nasce spira».
Ad esso si rivolge polemicamente Jean-Jacques Rousseau nella Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona, ben più nota come Lettera sulla Provvidenza perché, in qualche modo, della Provvidenza Voltaire aveva parlato, delineandola come una sorta di consolazione all’umano patire. Dopo aver criticato l’atteggiamento di chi, come il gran decano dell’Illuminismo, contempla il disastro dalla riva opposta, ribadisce ore rotundo l’assoluta fiducia nella immortalità dell’anima, e in una sorta di fede assoluta nell’umana natura: «I nostri mali sono per la maggior parte opera nostra e li avremmo evitati quasi tutti mantenendo la maniera di vivere semplice, uniforme e solitaria che ci era prescritta dalla natura».

Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona

[…] Vi riferirò senza giri di parole non tanto delle bellezze che ho individuato nei vostri due poemi — il compito spaventerebbe la mia indole pigra — e nemmeno dei difetti dei quali si accorgeranno forse lettori ben più bravi di me, ma dei dispiaceri che in questo momento offuscano la gioia che pur provo dai vostri insegnamenti. […] Tutte le mie rimostranze sono dunque rivolte contro il Poema sul disastro di Lisbona, perché mi aspettavo da voi un risultato più degno dell’umanità che sembra avervelo ispirato. Rimproverate a Pope e a Leibniz di insultare i nostri mali sostenendo che tutto è bene e ingigantite talmente il quadro delle nostre miserie che ne aggravate il peso: invece delle consolazioni in cui speravo, voi finite col rattristarmi; si direbbe che temiate che io non mi renda conto a sufficienza di quanto sono infelice e che crediate — così sembra — di tranquillizzarmi provandomi che tutto è male.
State in guardia, Signore, accade esattamente il contrario di ciò che sostenete. Quell’ottimismo che trovate tanto crudele mi consola, tuttavia, di quegli stessi dolori che descrivete come insopportabili. Il poema di Pope allevia i miei mali e mi invita alla pazienza; il vostro inasprisce le mie pene, mi spinge a lamentarmi e, togliendomi tutto all’infuori di qualche briciola di speranza, mi porta alla disperazione. In questa strana opposizione che regna tra quello che dimostrate e quello che provo, calmate la perplessità che mi agita e ditemi se a sbagliarsi è il sentimento o la ragione.
«Uomo, sii paziente», mi ricordano Pope e Leibniz, «i tuoi mali sono una conseguenza ineluttabile della natura umana e della costituzione di quest’universo. L’Essere eterno e benevolo che lo dirige avrebbe voluto tenerli lontani da te: tra tutte le varianti possibili ha scelto quella che aveva meno male e più bene o, per dire la cosa più brutalmente, se non ha fatto meglio vuol dire che non era possibile farlo».
Ora, cosa mi dice, invece, il vostro Poema? «Soffri per sempre, infelice. Se esiste un Dio che ti ha creato, senza dubbio è onnipotente; poteva evitarti tutti i mali: non sperare, dunque, che questi abbiano mai fine; perché non c’è altro motivo per la tua esistenza, oltre la sofferenza e la morte». Non capisco come una simile dottrina possa risultare più consolatrice dell’ottimismo e della stessa fatalità. Confesso che per me è ancora più crudele del manicheismo. Se il problema dell’origine del male vi costringeva a intaccare qualcuna delle perfezioni di Dio, perché voler giustificare la sua potenza a scapito della sua bontà? Se è necessario scegliere tra i due errori, personalmente preferisco il primo. […]
Inoltre, credo di aver dimostrato che eccetto la morte, che è un male solo se la si considera alla luce del modo con cui la aspettiamo e ci prepariamo ad essa, la maggior parte dei mali naturali di cui siamo afflitti sono anch’essi opera nostra.
Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi? Forse non sapete, allora, che l’identità personale di ciascun uomo non è diventata che la minima parte di se stesso e che non vale la pena di salvarla quando si sia perduto tutto il resto?
Avreste voluto — e chi non l’avrebbe voluto! — che il terremoto si fosse verificato in una zona desertica, piuttosto che a Lisbona. Si può dubitare che non accadano sismi anche nei deserti? Soltanto che non se ne parla perché non provocano alcun danno ai Signori delle città, gli unici uomini di cui si tenga conto. Del resto, ne provocano poco anche agli animali e agli indigeni che abitano, sparsi, questi luoghi remoti e che non temono né la caduta dei tetti, né l’incendio delle case. Ma che significa un simile privilegio? Vorrebbe forse dire che l’ordine del mondo deve assecondare i nostri capricci, che la natura deve essere sottomessa alle nostre leggi e che per impedirle di provocare un terremoto in un certo luogo basta costruirvi sopra una città?
Ci sono avvenimenti che ci colpiscono di più o di meno a seconda della prospettiva dai quali li si considera e che perdono buona parte dell’orrore che suscitano inizialmente quando si prende a esaminarli da vicino. Ho imparato da Zadig, e la natura me lo conferma ogni giorno, che una morte prematura non è sempre un male assoluto, ma, anzi, che qualche volta essa può avere i risvolti di un bene relativo. Tra tutti quegli uomini sepolti sotto le macerie di quella sventurata città, molti, senza dubbio, hanno evitato sciagure peggiori e malgrado la descrizione toccante e poetica dei vostri versi, non è neanche sicuro che uno solo di quei disgraziati abbia sofferto di più per la morte che l’ha sorpreso piuttosto che se l’avesse attesa con lunga angosciosa agonia e secondo il corso ordinario degli eventi.
Esiste, forse, una fine più triste di quella di un moribondo tormentato da inutili cure, al quale un notaio e gli eredi tolgono il fiato, che i medici assassinano senza scrupoli nel suo letto e al quale dei preti barbari fanno con arte assaporare la morte? Personalmente vedo ovunque che i mali che ci assegna la natura sono molto meno crudeli di quelli che aggiungiamo per nostra scelta ad essi. […]
A proposito del bene universale preferibile a quello individuale voi fate dire all’uomo: «lo, essere pensante e senziente, devo stare tanto a cuore al mio Signore quanto i pianeti che, con tutta probabilità, non provano sentimento alcuno». Senza dubbio questo universo materiale non dev’essere più caro al suo creatore di un solo essere pensante e senziente, tuttavia, il sistema di quest’universo che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri pensanti e senzienti deve stargli più a cuore di uno soltanto di questi esseri. Egli può dunque, malgrado la sua bontà o piuttosto a causa di questa sua stessa bontà, sacrificare parte della felicità degli individui per la conservazione del tutto. Credo e spero di valere agli occhi di Dio più del materiale che forma un pianeta, ma se i pianeti sono abitati, com’è probabile, perché ai suoi occhi dovrei valere più io di tutti gli abitanti di Saturno? Anche se spesso ci si beffa di tali idee, è certo che molte analogie fanno propendere per l’esistenza di queste popolazioni siderali e solo l’orgoglio umano vi si oppone. Ora, ammessa l’esistenza di queste popolazioni, la conservazione dell’universo sembra avere per Dio stesso una morale che si moltiplica per il numero dei mondi abitati.
Sapere che il cadavere di un uomo nutra vermi, lupi o piante non è, ne convengo. un modo per risarcirlo della sua morte: ma se nel sistema dell’universo è necessario, per la conservazione del genere umano, che vi sia un passaggio di sostanza tra uomini, animali e vegetali, allora il singolo male di un individuo contribuisce al bene generale: muoio, vengo mangiato dai vermi, ma i miei fratelli, i miei figli vivranno come ho vissuto io e faccio, per ordine della natura, ciò che fecero Codro, Curzio, Leonida, i Deci, i Fileni e mille altri per una piccola parte degli uomini.
Per tornare, Signore, al sistema che voi criticate, credo che non si possa esaminano in modo corretto senza distinguere con cura il male individuale, la cui esistenza non è mai stata negata da alcun filosofo, dal male generale che nega l’ottimismo. Non si tratta di sapere se ognuno di noi soffre o no, ma se sia un bene che esista l’universo e se i nostri mali erano inevitabili all’atto della sua costituzione. Così, mi sembra che l’aggiunta di un articolo renderebbe la proposizione più corretta e, invece di dire tutto è bene, si dovrebbe forse dire il tutto è bene o tutto è bene per il tutto. Allora, è evidente che nessun uomo potrebbe portare delle prove dirette né pro né contro quest’assioma, perché tali prove dipenderebbero da una conoscenza perfetta della costituzione del mondo e dei fini del suo creatore, e una conoscenza di questo tipo è incontestabilmente al di là di ogni intelligenza umana.
I veri principi dell’ottimismo non possono essere dedotti né dalle proprietà della materia né dalla meccanica dell’universo, ma solo per induzione dalla perfezione di Dio che sovraintende a ogni cosa, in modo tale che non si può provare l’esistenza di Dio con il sistema di Pope, ma il sistema di Pope con l’esistenza di Dio ed è, senza dubbio, dalla questione della provvidenza che è derivata quella dell’origine del male. Se queste due questioni non sono state ben analizzate, né l’una né l’altra, lo si deve al fatto che si è sempre ragionato male sulla provvidenza, e tutte le assurdità che sono state dette in proposito hanno ingarbugliato le conseguenze che si sarebbero potute trarre da questo grande e consolante dogma.
I primi ad aver guastato la causa di Dio sono i preti e i devoti, che non possono soffrire che qualcosa non si faccia seguendo l’ordine stabilito, ma che fanno sempre intervenire la giustizia divina negli avvenimenti prettamente naturali e, per essere sicuri di quanto affermano, puniscono e castigano i malvagi, mettono alla prova e ricompensano i buoni, indifferentemente con benefici o danni, a seconda delle circostanze. Non so, da parte mia, se questa sia buona teologia, ma trovo che sia una pessima maniera di ragionare il fondare sui “pro” e sui “contro” le prove della provvidenza e di attribuirle senza discernimento tutto ciò che accadrebbe ugualmente anche senza di essa.
I filosofi a loro volta, non mi sembrano molto più ragionevoli quando li vedo prendersela col cielo perché non riescono ad essere impassibili o quando gridano che tutto e perduto perché hanno il mal di denti, o perché sono poveri, o perché vengono derubati e vorrebbero, come dice Seneca, incaricare Dio di far la guardia alloro bagaglio. Se qualche tragico incidente avesse provocato la morte di Cartouche o di Cesare durante la loro infanzia ci si sarebbe chiesti che crimine quei bambini avessero mai commesso? Invece, questi due furfanti sono sopravvissuti e ora noi ci chiediamo perché li si sia lasciati vivere? Al contrario, un devoto vi dirà, nel primo caso, che Dio intendeva punire il padre togliendogli suo figlio e nel secondo, invece, che Dio ha voluto mantenere in vita il figlio per castigare il popolo. Così, qualunque sia la decisione della natura, la provvidenza per i devoti ha sempre ragione e per i filosofi sempre torto. Ma, forse, nel corso degli eventi umani, essa, in fondo, non ha né torto né ragione, perché tutto deriva da una legge comune e non ci sono eccezioni per nessuno. Bisognerà credere che i singoli eventi individuali non contano nulla agli occhi del Signore dell’Universo e che la sua provvidenza sia solo universale. Il Signore dell’Universo si accontenta di conservare i generi e le specie e di presiedere al tutto senza preoccuparsi del modo in cui ogni individuo trascorre questa breve vita. Un re saggio, che vuole che ognuno viva felice nel suo regno, ha forse bisogno di sapere se le locande che vi si trovano sono pulite? Il passante brontola per una notte quando le trova sporche e per tutto il resto della sua vita ride al ricordo di un’insofferenza così sproporzionata. «Commorandi enim natura diversorium nobis, non habitandi dedit» [La natura ci ha dato la vita come un luogo nel quale dimorare, non come qualcosa da possedere, Cicerone, De Senectute]
[…] Se riporto tali diverse questioni al loro comune principio mi sembra che si riferiscano tutte all’esistenza di Dio. Se Dio esiste, è perfetto; se è perfetto, è saggio, onnipotente e giusto; se è saggio e onnipotente tutto è bene; se è giusto e onnipotente la mia anima è immortale; se la mia anima è immortale trent’anni di vita non son nulla per me, mentre sono forse necessari alla conservazione dell’universo. Se mi si concede la prima affermazione, le altre saranno di conseguenza inattaccabili; se la si nega, a che serve discutere sulle sue conseguenze?
Né voi né io rientriamo in quest’ultimo caso. Sono ben lontano dal presumere che voi condividiate quest’opinione leggendo la raccolta delle vostre opere. Infatti, la maggior parte dei vostri scritti mi offre le idee più grandi, più dolci e più consolanti della divinità, e preferisco un cristiano come voi a quelli della Sorbona.
Quanto a me, vi confesserò francamente che non mi sembra che i lumi della ragione abbiano dimostrato né il “pro” né il “contro” in merito a questa importante questione e che se il teista basa il suo sentimento solo sulle probabilità, mi pare che l’ateo, con ancor minor precisione, poggi invece il suo semplicemente sulle possibilità opposte. Inoltre, le obiezioni di entrambe le parti sono sempre insolubili perché poggiano su cose delle quali gli uomini non hanno alcuna idea precisa. Ne convengo in tutto e per tutto, e tuttavia credo in Dio con la stessa forza con cui credo in qualunque altra verità, perché credere o non credere sono le cose al mondo che meno dipendono dalla mia volontà. Lo stato del dubbio è una condizione troppo violenta per la mia anima. Quando la mia ragione è indecisa, la mia fede non può restare a lungo in sospeso e decide senza di essa. Allora, mille motivi mi spingono di preferenza sul versante dove vi è maggior consolazione e aggiungono il peso della speranza all’equilibrio della ragione.