Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

venerdì 31 gennaio 2014

Vito Mancuso, "Io e Dio. Una guida dei perplessi"

Da "http://www.recensionifilosofiche.info/" :

Milano, Garzanti, 2011, pp. 488, euro 18,60, ISBN 9788811601296

Recensione di Massimiliano Chiari - 21/04/2012

Dopo la pubblicazione de L’anima e il suo destino (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007), Mancuso prosegue il suo percorso di fondazione di una teologia laica, cioè di una teologica filosofica che pervenga alla rielaborazione del concetto di Dio, o più in generale del divino, in un’ottica eminentemente razionale e compatibile con i risultati dell’attuale ricerca scientifica, soprattutto nel campo della cosmologia e della biologia.
Il movente e l’obiettivo del libro sono dichiarati nel Prologo, dove Mancuso afferma che:

“Questo libro nasce […] dall’esigenza interiore di rifondare al cospetto delle perplessità odierne il pensiero di Dio” (p. 17); la ragione contemporanea considera ormai insufficiente la fondazione di tale pensiero solamente a partire dalla Chiesa e dalla Bibbia; il nuovo concetto di Dio va elaborato “all’aria aperta della libertà di pensiero” (ivi). In questa prospettiva, il libro intende presentarsi come un’opera di “teologia fondamentale” (ivi) nella misura in cui vuole riflettere sui fondamenti del discorso teologico. Abbandonando ogni principio di autorità, in se stesso sterile o addirittura dannoso per l’autentica comprensione della divinità, l’obiettivo è quello di “contribuire a far sì che la mente contemporanea possa tornare a pensare insieme Dio e il mondo” (p. 18), ovvero – aggiungo io – a pensare Dio a partire dal mondo.
Nei primi tre capitoli, come precisa lo stesso autore nelle Avvertenze (p. 9), viene effettuata una fenomenologia della situazione odierna in ordine alle forti perplessità a cui va incontro, oggi, il concetto speculativo mondo-Dio; i capitoli 6, 7 e 8 sono invece dedicati all’analisi critica, ovvero alla pars destruens dell’impostazione teologica dell’autore; infine, i capitoli 4, 5, 9 e 10 contengono la pars construens, ovvero la proposta personale della nuova teologia mancusiana.
L’opera, proprio come quella scritta da Mosè Maimonide – filosofo e rabbino spagnolo – tra il 1180 ed il 1190 d.C., vuole essere anche Una guida dei perplessi (come recita il sottotitolo di Io e Dio), un testo che sappia riconciliare la fede in Dio con “le nuove conoscenze filosofiche e scientifiche” (p. 21), senza la quale riconciliazione il credente è destinato a essere vittima di innumerevoli dubbi e perplessità. Un esempio per tutti: “Dopo milioni di innocenti massacrati nella più totale indifferenza celeste, è semplicemente impossibile parlare ancora di un Dio della Provvidenza storica. Ha scritto Primo Levi: «Se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza»” (p. 33; la citazione di Levi è tratta da Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1989, p. 140); vale la pena di ricordare, proprio su questo tema, il saggio del 1984 di Hans Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine jüdische Stimme (trad. it., Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, a cura di G. Angelino, Il Nuovo Melangolo, 1993). Secondo Mancuso non possiamo più, oggi, spiegare la presenza del male assoluto ricorrendo al più classico refugium theologorum utilizzato dalla coscienza religiosa di tutti i tempi, vale a dire il ricorso alla categoria del mistero (p. 34). Altra fonte di forte perplessità, prosegue Mancuso, consiste nell’“associare immediatamente al termine «Dio» un essere personale, pensando che ogni ricerca al riguardo sia necessariamente una ricerca su questa entità personale: Dio come un ente, come una cosa distinta da tutte le altre cose, per quanto superlativa” (p. 77); l’autore, che dichiara – pur con tutti i distinguo – di aderire alla fede cristiano-cattolica, pensa tuttavia che “si debba parlare di un Dio personale in senso ben diverso dalla modalità antropomorfica che campeggia solitamente nelle menti quando si nomina il termine «persona». Dio è personale solo nella misura in cui è anche impersonale, perché è il principium anche delle cose impersonali” (p. 79).
Nel terzo capitolo, che chiude la citata trattazione fenomenologica, Mancuso passa in rassegna le diverse prove e dimostrazioni (o “argomenti”, come preferisce considerarli) utilizzati nella storia della teologia per sostenere la conoscibilità di Dio, con certezza, a partire dalla sola ragione. La dottrina cattolica con il Concilio Vaticano I, precisamente nella Costituzione dogmatica Dei Filius del 24 aprile 1870, afferma categoricamente: “La santa madre Chiesa ritiene e insegna che Dio, principio e fine di ogni cosa, può essere conosciuto con certezza mediante la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose create” (Heinrich Denzinger, Enchiridion symbolorum definitiorum et declarationum de rebus fidei et morum, a cura di Peter Hunermann, ed. it. a cura di Angelo Lanzoni e Giovanni Zuccherini, EDB, Bologna, 1986; corsivo di Mancuso) e sanziona con la scomunica chi non accetta tale insegnamento. Ora, si chiede Mancuso, come non provare delle forti perplessità di fronte a tale certezza granitica ed autoritaria, tenuto conto che “le prove dell’esistenza di Dio non hanno mai funzionato a livello pratico” (p. 98); se avessero funzionato, l’esistenza di Dio sarebbe del tutto evidente a ogni uomo dotato di ragione, ma sappiamo che così non è.
Finora Mancuso si è limitato a sollevare una serie di perplessità; nei capitoli 6, 7 e 8 invece viene messa in atto la vera e propria pars destruens del suo percorso teologico, vale a dire l’analisi (fortemente) critica di alcune posizioni, credenze e dogmi, in particolare della tradizione cattolica. Questa, dal punto di vista teoretico, ritengo sia la parte meno interessante del saggio, in quanto mette in evidenza aporie e contraddizioni tutte interne alla Chiesa. Il lettore non cattolico, o ateo, non necessita, in fondo, di questa operazione di pulizia per elaborare in modo proficuo una riflessione ed un pensiero su Dio, essendo tale lettore per definizione immune dalle polemiche interne alla Chiesa cattolica. 

(Finale in crescendo!)
LexMat

Ma Mancuso è figlio di tale Chiesa e così sente forte il bisogno di superare il principio-autorità in favore del principio-autenticità: “Desidero in particolare promuovere un cambiamento di paradigma: il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità. Per principio di autorità intendo la prospettiva secondo cui si accetta di aderire a un concetto o a una dottrina non per motivi intrinseci alla cosa stessa, ma per motivi estrinseci legati all’identità di chi la propone. […] Tale principio di autorità è ancora oggi dominante nel cattolicesimo, a tal punto da essere di fatto il dogma primordiale da cui tutti gli altri dipendono” (pp. 194-195). Al contrario, l’autore intende promuovere “il passaggio da una fede come «dogmatica ecclesiale» […] a una fede «laica», non-clericale, per la quale l’istanza conclusiva è la coerenza del pensiero rispetto all’esperienza concreta della vita” (p. 198).
Autenticità significa anche la capacità della religione di sostenere le sue affermazioni al cospetto della comprensione scientifica del mondo naturale e resistere alla verifica della razionalità (p. 200). Segue l’esposizione dei numerosi errori e crimini compiuti dalla Chiesa cattolica in forza del citato, nefasto, principio di autorità. 
Autenticità, infine, significa per Mancuso non rinunciare a quell’onestà intellettuale che impone di non tacere le numerose contraddizioni, anche rilevanti, contenute nei libri sacri (messe puntualmente in evidenza nel cap. 7) e di non mascherare quelle aporie dottrinali, come il problema del male (di cui si parla nel cap. 8), mai affrontate e risolte fino in fondo dalla fede cattolica tradizionale.
Sicuramente la parte più suggestiva del saggio è la pars construens, quella contenuta – in particolare – nei capitoli 4, 5, 9 e 10. Innanzitutto, ci ricorda Mancuso, per pervenire a quella forma di “religiosità autentica” che si concretizza attraverso la “unità di Io e Dio” (p. 147), è necessario liberarsi dai pregiudizi; questa operazione di pulizia intellettuale è possibile nella misura in cui l’uomo è libero, desiderando – grazie alla sua irrinunciabile libertà – di volere, sopra ogni cosa, la verità (la verità dell’essere più che la verità della dottrina).
“È ora giunto il momento di dichiarare qual è il mio assoluto, qual è, esistenzialmente parlando, il mio dio. Rispondo in tutta franchezza che il mio assoluto non è Dio, inteso come «essere perfettissimo creatore e signore» […]. Il mio assoluto è il bene, l’idea e la pratica del bene [..] che si dice [nella dimensione fisiologica e biologica] come salute, [nella dimensione etica] come giustizia, [nella dimensione teologica, rispetto alla meraviglia che l’essere-energia suscita] come grazia” (p. 173). Ecco, con questo passaggio decisivo, qui oltremodo sintetizzato per ragioni di spazio, Mancuso si pone e ci pone chiaramente fuori, oltre la teologia dogmatica tradizionale, invitandoci a entrare nella dimensione, suggestiva e inusuale, della sua teologia fondamentale e laica, elaborata sulla scia di quelli che sono stati i suoi grandi maestri spirituali: Pavel Florenskij, Dietrich Bonhoeffer, Simon Weil, Etty Hillesum e il gesuita Teilhard de Chardin, per citare solo i principali.
“Credendo in Dio, io credo che quella dimensione dell’essere manifestata dalla tensione verso l’organizzazione e la complessità non sia un’illusione, ma l’ultima, la più fondamentale dimensione dell’essere-energia, e che essa sia il destino del mondo” (p. 398): già da queste ultime parole si intuisce – ma la lettura del libro ne consentirà un adeguato approfondimento – come a fondamento della teologia di Mancuso vi sia, innanzitutto e per lo più, una vera e propria ontologia che riconduce il concetto di essere a quello, elaborato dalla scienza fisica contemporanea, di energia. Questa dimensione eminentemente ontologica è stata, peraltro, diffusamente trattata da Mancuso nel suo precedente lavoro del 2007 (L’anima e il suo destino, op. cit.).
E dove dovrebbe condurre questa nuova ontoteologia? Verso “una fede più umana” (titolo, questo, del decimo e ultimo capitolo), verso una “fede non dogmatica” (p. 437) dove l’assoluto non è più rappresentato dal dogma, ma dal bene, dove lo statuto veritativo non è più di tipo dottrinale, ma pragmatico” (ivi).

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