Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

venerdì 28 febbraio 2014

Umberto Saba, Non esiste un mistero della vita

Da "http://isintellettualistoria2.myblog.it/2012/11/27/umberto-saba-non-esiste-un-mistero-della-vita/" :

Non esiste un mistero della vita, o del mondo, o dell’Universo.
Tutti noi, in quanto nati dalla vita, facenti parte della vita, in realtà sappiamo tutto, come anche l’animale e la pianta. Ma lo sappiamo in profondità.
Le difficoltà incominciano quando si tratta di portare il nostro sapere organico alla coscienza.
Ogni passo, anche piccolo, in questa direzione è di un valore infinito.
Ma quante forze – in noi e fuori di noi – sorgono, si coalizzano per impedire, ritardare, quel piccolo passo…


Mi sembra come quel passo della "rosa che non sa il suo perchè".
Il punto è che non c'è qualcosa da capire, perchè o in realtà lo abbiamo già capito e ci ricamiamo sopra non rendendocene conto oppure, non c'è proprio qual-"cosa" da capire.

LexMat

Filosofia e Matematica


La filosofia senza matematica può esistere, ma non viceversa. 
La prima sarebbe soltanto fumo e la seconda un arrosto bruciato.

La Matematica non è una opinione, e da sempre della Filosofia cerca l'unione.

LexMat

Michael Dummett

Da WikiPedia:

Michael Anthony Eardley Dummett (Londra, 27 giugno 1925 – 27 dicembre 2011) è stato un filosofo inglese.

È stato docente di logica all'università di Oxford. I suoi interessi spaziano dalla filosofia del linguaggio alla filosofia della matematica, attraverso la logica intuizionista e la semantica verificazionista.
Si può considerare tra gli artefici della rinascita dell'interessamento per le dottrine di Gottlob Frege, sul quale ha scritto ponderosi studi.
In Frege. Filosofia del linguaggio (1973, 1981), egli trova nell'opera del logico tedesco la radice della filosofia analitica contemporanea e individua nella centralità dell'analisi del linguaggio - e particolarmente nello studio di una «teoria sistematica del significato» - il nucleo centrale del pensiero filosofico.
Dopo le grandi reazioni scatenate da questo saggio su Frege, Dummett ha scritto e pubblicato L'interpretazione della filosofia di Frege (1981), proprio in risposta ai suoi critici e per rendere chiaro il proprio pensiero. Nel volume Alle origini della filosofia analitica (1988) ritorna sul problema dell'origine e della natura della filosofia analitica.
Per Dummett dovere fondamentale della filosofia è lo studio del pensiero, tramite l'analisi del linguaggio, attraverso la costruzione di uno schema generale del modo in cui capiamo gli enunciati utilizzati.
Dummett, riscrivendo la massima di Wittgenstein secondo la quale «il significato è l'uso», dichiara che la comprensione del senso di un'espressione sta nel controllo delle sue condizioni di asseribilità.
In questo modo si oppone a Frege, per il quale la comprensione del senso di un enunciato equivale alla comprensione delle sue condizioni di verità, preferendogli le condizioni di verificazione.
Si discosta invece da Wittgenstein e preferisce Frege nel pensare che una teoria del senso debba essere «sistematica», tale da usare una serie di nozioni-chiave sulla cui base rendere chiaro in modo unitario il funzionamento logico-semantico del linguaggio.
In particolare una teoria di questo tipo avrebbe come centro le nozioni di riferimento e di verità, come concetto fondamentale il concetto di senso, e come ulteriore essenziale elemento il concetto di forza assertoria.
I complicati sviluppi di questa dottrina si trovano, oltre che nelle parti dedicata a Frege, in una serie di saggi, molti dei quali riuniti nel volume La verità e altri enigmi (1978), e nelle «W. James Lectures» del 1976, poi largamente riscritte e pubblicate con il titolo La base logica della metafisica (1991).
Collegati agli interessi di filosofia del linguaggio sono quelli di filosofia della matematica, che ci dànno un modello esemplare di molte sue tesi sul significato. Egli preferisce seguire la logica intuizionista (Introduzione alla logica intuizionistica, 1977) piuttosto che la logica classica, rigettando i principi di bivalenza e del terzo escluso (cioè che la verità e la falsità di un enunciato possono essere ritenute come date indipendentemente dal modo in cui noi saremmo in grado di individuarle) e dichiarando che la comprensione di un enunciato matematico dipende dalla nostra capacità di giustificarne l'asserzione, cioè dalla possibilità di indicare che cosa accetteremmo come dimostrazione della sua verità o falsità.
In Frege. Filosofia della matematica (1991) viene riconosciuto il valore del programma logicista che avrebbe avuto miglior sorte se avesse attecchito in una logica intuizionista. Anche in questo campo le tesi di Dummett hanno trovato un'eco molto vasta e hanno concorso al progresso di un dibattito di grande profondità gnoseologica.
Michael Dummett è conosciuto anche come uno dei massimi esperti mondiali del gioco dei Tarocchi.
I giochi fatti col mazzo dei Tarocchi sono da Dummett considerati giochi d'intelligenza, dove, successivamente alla casualità della distribuzione iniziale, lo sviluppo del gioco è determinato dalle abilità tattiche e strategiche individuali.
Ha scritto il fondante The Game of Tarot, from Ferrara to Salt Lake City, London 1980, da tutti considerato il testo di riferimento della storia dei tarocchi e dei loro giochi, dove riporta e analizza la documentazione storica e i regolamenti dei giochi di tarocchi europei. Ha pubblicato in italiano Il Mondo e l'Angelo, Napoli 1992, testo nel quale ripercorre i temi già sviluppati nell'opera precedente, arricchiti dall'analisi di documenti recentemente rinvenuti. In collaborazione con gli eminenti studiosi Thierry Depaulis e Ronald Decker, ha scritto A wicked pack of Cards - St. Martin's Press, New York 1996, testo nel quale, con rigore documentale, demolisce varie teorie occultistiche e misteriche sui tarocchi e sulla loro provenienza.
Nel 2004, in collaborazione con John McLeod ha scritto A history of Games played with the Tarot Pack - The Edwin Mellen Press in due tomi, esauriente descrizione dei giochi europei di tarocchi estinti e viventi. È socio fondatore e Past President della International Playing Card Society, associazione che raccoglie i maggiori studiosi di giochi e storia dei giochi di carte. Ha patrocinato varie iniziative locali di giocatori di tarocchi. In Italia è tra l'altro socio fondatore e onorario della http://www.tarocchinobolognese.it/.
Sul tema della storia dei tarocchi in Italia ha contribuito alla realizzazione di mostre documentarie, a cominciare dall'importante: Tarot. Jeu et Magie (con Thierry Depaulis, alla Bibliothèque Nationale de Paris, 1984), poi riproposta a Ferrara come I Tarocchi. Gioco e Magia alla Corte degli Estensi (con Giordano Berti e Andrea Vitali, al Castello Estense di Ferrara, 1987) e Tarocchi. Arte e Magia (con Giordano Berti e Andrea Vitali, al Castel Sant'Angelo di Roma).

Michael Dummett 2

Interviste lezioni
Michael Dummett
Filosofia della logica
Versione integrale dell'intervista-lezione
Università di Bologna
13/03/1997
Michael Dummett descrive in modo conciso l'intera teoria del significato di Frege: la differenza tra espressioni complete ed espressioni incomplete, i termini singolari, i predicati come funzioni che attribuiscono agli oggetti valori di verità, la distinzione Sinn/Bedeutung - Senso/Significato.

Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche - un progetto di Renato Parascandolo

Teodosio Orlando
Vittorio Rizzo

Fiorinda Li Vigni
Michael Dummett descrive in modo conciso l'intera teoria del significato di Frege:la differenza tra espressioni complete ed espressioni incomplete, i termini singolari, i predicati come funzioni che attribuiscono agli oggetti valori di verità, la distinzione Sinn/Bedeutung - Senso/Significato . Spiega poi la teoria della quantificazione di Frege, rimarcando come il logico tedesco sia stato il primo a risolvere il problema dei quantificatori multipli. Wittgenstein, nella prima fase della sua filosofia, riteneva che compendere una proposizione equivalesse a stabilirne il valore di verità: negli scritti successivi sviluppò invece l'idea che per avere la padronanza di un'espressione o per formare un enunciato bisogna comprendere il suo uso. Michael Dummett concorda con questa posizione; non condivide, invece l'idea di Wittgentein che non sia possibile una teoria sistematica del significato per un intero linguaggio. Inoltre, rifiuta un approccio verificazionista, e sostiene che non bisogna pensare agli enunciati come se fossero distinti in enuciati empirici e enunciati apriori: molte asserzioni si trovano in qualche modo tra questi due tipi. Dummett spiega quindi il rapporto tra logica e teoria del significatoe si sofferma sull'importanza delle varie dispute metafisiche tra realisti e antirealisti e sulla possibilità di una loro soluzione all'interno di una adeguata teoria del linguaggio. Dummett suggerisce come si debba trattare filosoficamente la nozione di verità, ribadendo che, in una teoria corretta, significato e verità devono essere spiegati insieme . Ricorda poi quali furono gli obiettivi di Frege nella sua filosofia dell'aritmetica, e spiega in che modo possano ancora essere raggiunti: basterebbe abbandonare la matematica classica in favore di una matematica costruttivista, come quella proposta dal matematico olandese Brouwer. Dummett delinea il suo intuizionismo in relazione alle posizioni intuizioniste classiche di Brouwer, al quale rimprovera una visione solispistica della matematica . L'opposizione tra filosofia analitica e filosofia continentale, osserva Dummett, non ha molto senso; essa ha delle origini storiche che andrebbero studiate per creare una maggiore unificazione. Dummett racconta, infine, il suo impegno politico contro il razzismo, e le ragioni per cui ha scritto un libro sulle procedure di voto e uno sui sistemi elettorali.

Michael Dummett, il mago della logica stregato dai tarocchi

Da "http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/020905.htm" : 

di ARMANDO TORNO 

Parla Sir Michael Dummett, celebre filosofo della matematica a Oxford Le confessioni di un pensatore conquistato dai simboli del gioco «che li contiene tutti» 

È uno dei massimi esperti di logica. E di tarocchi. Sir Michael Dummett, professore a Oxford, lo si intervista sempre con un sorriso, lo si incontra ogni volta con piacere.
Soprattutto se si ripensa ai soffitti secenteschi della Biblioteca Bodleiana, dove un motto latino scandisce il lavoro secolare della ricerca oxoniense: «Dominus illuminatio mea», il Signore è la mia luce.
Fu scritto troppo tardi perché lo potesse leggere Roberto Grossatesta, che qui, nel XIII secolo, insegnò teologia.
Un autentico innamorato della luce e un fine esegeta della volontà, così come Sir Dummett ha cambiato prospettive di pensiero con i suoi studi su Frege e con la ricerca di una «teoria sistematica del significato».
Ma anche con quel grosso tomo, edito in Italia da Bibliopolis, intitolato Il Mondo e l’Angelo.
I Tarocchi e la loro storia. E ora esce presso il melangolo la nuova edizione de I Tarocchi siciliani. 
 
Professor Dummett, i tarocchi hanno un’origine islamica?
«Le carte da gioco sono arrivate in Europa nel ’300 dal regno mamelucco di Egitto e Siria. Giunsero prima a Valencia e a Venezia. Ma il mazzo di tarocchi è invenzione italiana, fatta probabilmente nella corte viscontea di Milano o in quella estense di Ferrara verso il 1425».
In che consisteva l’invenzione?
«Nell’addizione di 26 carte a un mazzo italiano di 52: una quarta figura, la Regina, in ciascuno dei quattro semi; una serie di 21 "trionfi", ciascuno con l’immagine di un soggetto - il Papa, l’Amore, la Giustizia, il Diavolo, la Luna, l’Angelo - e una singola carta, il Matto».
Dei soggetti dei trionfi colpisce sempre l’Impiccato...
«È raffigurato capovolto per un piede, è affascinante. Era intelligibile nel Rinascimento. Fu a Milano, a Roma, soprattutto a Firenze che si dipinsero così in luoghi pubblici criminali e traditori dello Stato».
Ma perché i trionfi e il Matto sono stati aggiunti al mazzo?
«Nel gioco dei tarocchi i 21 trionfi funzionano da briscole: di fatto l’invenzione di queste carte è anche quella delle briscole. Prima esistevano giochi di prese, senza briscole; si praticavano in Persia e anche nell’impero mogol in India. Insomma, l’aggiunta dei trionfi consentì di giocare un nuovo ruolo. Il Matto funzionava quasi come il nostro Jolly».
Allora i tarocchi non nacquero per predire il futuro...
«No, e nemmeno per praticare altri fini occulti. Di fatto, la predizione applicata alle carte da gioco ebbe origine solo nel ’700 a Bologna e qualche anno dopo, indipendentemente, in Francia. Verso la fine del XIX secolo la pratica di predire il futuro per mezzo dei tarocchi si estese a Inghilterra e Stati Uniti. Da qui ritornò in Occidente ».
Come si diffusero in Italia?
«I tre primi centri del gioco furono Milano, Ferrara e Bologna. Entro il 1450 erano conosciuti a Firenze, e a Roma probabilmente prima della fine del XV secolo. Correva il 1663 quando il vicerè di Sicilia introdusse il gioco nell’isola».
E nel resto d’Europa?
«All’inizio del ’500, quale conseguenza delle guerre francesi per Milano, i tarocchi arrivarono in Francia e Svizzera. Nel ’600 penetrarono nei territori di lingua tedesca, poi nel resto d’Europa. Qualche eccezione c’era: la penisola iberica, le isole britanniche e i paesi sotto il dominio turco. Disperdendosi, il gioco sviluppò molte varianti, che mantenevano caratteristiche tipiche».
Tornando all’idea di briscola , deriva veramente dai tarocchi?
«Avanti il ’500 in Francia e nei primi anni del secolo in Inghilterra, Germania e Spagna, si cominciavano a praticare giochi con il mazzo ordinario, in cui le carte di un seme fungevano da briscole. Erano chiamati "Triomphe" (in Francia), "Triumph" (in Inghilterra) e simili altrove. Quello inglese era l’antenato del Whist, e perciò del Bridge; e la parola inglese "trump" è una corruzione di "Triumph". Questi giochi non avevano nulla in comune tranne l’uso di briscole. I loro nomi affini a "Trionfi" indicano che avevano preso la nozione di briscola dal gioco dei tarocchi. La stessa parola "tarocchi" è un neologismo del XVI secolo; nel XV era chiamato "Trionfi" e il mazzo "carte da trionfi"».
Che ne pensa di chi sostiene l’origine egizia dei tarocchi?
«Rispondo: non è vero. Perché sono nati, lo ripeto, nell’Italia del ’400. Nel ’700 il loro gioco era tramontato a Parigi e sopravviveva soltanto nell’est della Francia, in Borgogna e Provenza. Nel VII volume del suo Mondo primitivo (1781), Antoine Court de Gébelin propone la teoria che i tarocchi siano stati inventati da sacerdoti egizi per simboleggiare le loro dottrine religiose. Su questa base l’indovino Etteilla disegnò un nuovo mazzo di tarocchi, con cui praticava la divinazione. Si era ispirato al Pimander , attribuito a Ermete Trismegisto. La produzione non si fermò, e mazzi divinatori di "Tarocchi egizi" si diffusero molto nella Francia dell’800».
Ma c’è un legame fra tarocchi e mondo esoterico?
«Nel 1854 l’occultista Eliphas Levi propose una nuova teoria: queste carte sono di origine ebraica e si devono interpretare alla luce della Cabala. Una simile ipotesi, poi molto seguita, fornisce simboli a volontà. Così i tarocchi sono diventati una componente forte delle teorie magiche. Il fenomeno fu limitato, almeno per circa 35 anni, alla Francia; poi sbarcò in Gran Bretagna e quindi trovò fortuna in tutto il mondo occidentale. E questo anche se storicamente tali carte non hanno un legame con la magia, sono semplicemente strumenti per giochi ingegnosi. Le interpretazioni occultistiche dei tarocchi non hanno bisogno di prove, sono assiomi».
Quando ha cominciato a occuparsi del gioco dei tarocchi?
«Intorno al 1965 mia moglie ed io eravamo in vacanza con i figli in Normandia e abbiamo comperato un mazzo di queste carte con le annesse "regole del gioco". Lo abbiamo trovato molto interessante. Tornato in Inghilterra, ne ho comperato un mazzo austriaco, che proponeva un gioco diverso da quello francese, sebbene con somiglianze manifeste. Ho cercato di scoprire come si giocava in Italia, ma nessuno sapeva informarmi. Allora mi sono documentato io stesso, attraverso i libri antichi di giochi, sino a trasformare queste ricerche nel 1980 in un saggio, The Game of Tarot ».
Lei ha viaggiato in Sicilia per conoscere e giocare ai tarocchi...
«Non so più quanti viaggi ho fatto in vent’anni, accompagnato dal giornalista Marcello Cimino, un caro amico. Mi diede un aiuto inestimabile. Dirò che nel 1900 il gioco era conosciuto in tutta la Sicilia, dal 1950 circa sopravvive in 4 paesi disparati. Sia il mazzo, sia il gioco siciliano dei tarocchi hanno assunto forme sorprendenti, diverse da tutte le altre. Il più bel ricordo l’ho a Calatafimi, in un circolo, i cui membri sono stati gentilissimi con me».
In che consiste il fascino di questo gioco?
«Forse nel fatto che non è unico, perché ne contiene molti. Ed è sempre un’invenzione di genio. I mei preferiti sono i tarocchi bolognesi, siciliani, ungheresi e danesi».
Intingo l’ultima domanda nel patriottismo: continuano i giocatori stranieri a usare carte italiane?
«No. Intorno al 1750 i fabbricanti tedeschi introdussero un nuovo tipo di tarocchi, nel quale i semi francesi di picche, fiori, cuori e quadri sostituivano quelli italiani. I soggetti tradizionali dei trionfi erano rimpiazzati da animali o da scene della vita quotidiana; i trionfi erano identificati soltanto per grandi numeri, romani o arabi. Alla fine del ’700 questi nuovi tarocchi erano stati adottati dappertutto, tranne che in Italia, Francia e Svizzera. I giocatori francesi cominciarono a utilizzare tarocchi con i loro semi solo all’inizio del ’900».

LE BARZELLETTE DI HEIDEGGER. PARLA SAUL KRIPKE, IL PIÙ GRANDE LOGICO CONTEMPORANEO

Da "http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/010102g.htm" :

di PIERGIORGIO ODIFREDDI 

Qualcuno lo ha definito il "Bobby Fisher della filosofia". Ma per questo sessantenne il problema è coniugarla con la matematica
Più che un professore è una leggenda vivente Ha insegnato a Harvard e Princeton senza aver mai preso il dottorato
Quando Carnap riportò alcune frasi del pensatore tedesco le trovai assurde e pensai che fossero inventate. Non credo che si debba essere per forza un matematico per essere un buon filosofo benché la cosa aiuti

A tre anni Saul Kripke sorprese la madre facendole notare che se davvero Dio fosse dovunque, per entrare in cucina dovremmo scacciarne una parte fuori. A diciannove stupì il mondo matematico risolvendo il problema, che aveva impegnato i logici da Aristotele a Carnap, di dare un significato alla logica modale, cioè a termini quali "possibile" e "necessario". A trenta rivoluzionò la filosofia analitica improvvisando tre conferenze sulla teoria del riferimento, sbobinate nel classico Nome e necessità (Boringhieri, 1982).
Da allora Kripke è entrato nella leggenda. Ha insegnato a Harvard e Princeton, senza aver mai preso un dottorato. E' finito sulla copertina dell'inserto culturale del New York Times, con grande sorpresa (e invidia) dei colleghi. Ha ispirato il romanzo Il problema mentecorpo di Rebecca Goldstein, il cui protagonista è un genio incapace di vivere il quotidiano. Ha sconvolto la setta degli adoratori di Wittgenstein, assiomatizzandone il pensiero in Sulle regole e il linguaggio privato (Boringhieri, 1984).
Benchè appena sessantenne, Kripke è già andato in pensione. Le uniche occasioni di vederlo sono dunque le sue rare apparizioni pubbliche, sempre in forse fino all'ultimo momento. L'ultima è stata a Bologna il 20 dicembre 2001, dove l'abbiamo intervistato.

Lei ha cominciato molto giovane, quasi bambino. Come è arrivato alla filosofia?
"Vivevamo a Omaha, un posto sperduto nel Nebraska. Verso i dodici o tredici anni chiesi a mio padre come potevamo sapere che non stiamo sognando. Mi disse che Cartesio, che lui pronunciava letteralmente "Descartis", aveva già risposto al problema nelle sue Meditazioni, e me le diede da leggere. Ho cominciato così. Poi sono passato a Hume e Berkeley, e verso i quattordici o quindici anni ho letto Platone. All'epoca non ho fatto nessun serio tentativo di leggere Kant".
E la logica dove l'ha imparata?
"Poichè la matematica che si faceva alle medie era troppo elementare, la mia professoressa mi ha consigliato libri più avanzati, e qualcuno di questi parlava di fondamenti. Poi ho letto i testi di Quine e Rosser, e la Introduzione alla metamatematica di Kleene. E ho finalmente capito l'intuizionismo: prima non riuscivo a immaginare come si potesse rifiutare il principio del terzo escluso, che mi sembrava evidente".
Nessuno di quei libri parla però di logica modale, che è il campo in cui lei è diventato famoso.
"E' vero. La logica modale l'ho scoperta sulle riviste specializzate che incominciai a leggere al liceo. Andavo a prenderle a Lincoln, la "capitale" del Nebraska, perché non si trovavano a Omaha. Tra parentesi, benché il mio liceo fosse in una città sperduta, ha diplomato anche Lawrence Klein e Alan Heeger, che hanno vinto rispettivamente il premio Nobel per l'economia nel 1980, e per la chimica nel 2000. E l'ha frequentato anche Ronald Jensen: un altro logico molto famoso, che io però ho conosciuto solo dopo".
E come è arrivato al suo primo grande risultato?
"Conoscevo le tavole di verità per la logica classica, e ho cercato di estenderle alla logica modale. Si trattava di tavole sempre con due soli valori di verità, come nella logica classica, ma con molte più righe, che sarebbero poi diventate i mondi possibili. Nel mio articolo originale del 1959 ho esposto le cose nel modo in cui le ho trovate".
E così, a diciannove anni, è diventato famoso.
"Per modo di dire. Quando arrivai a Harvard credevo che mi avrebbero incoraggiato, e invece ho passato un periodo molto infelice. Il professore di logica, Burt Dreben, fu molto dogmatico e scoraggiante: mi continuava a dire di fare il matematico, di non sprecare il mio talento con lavori filosofici che non valeva neppure la pena di pubblicare. Credo che non avrei dovuto andare a studiare a Harvard".
Forse Dreben pensava che solo un matematico possa essere un buon filosofo. E' un caso che lei, Putnam e Dummett arriviate tutti dalla matematica? Anzi, dalla logica?
"Non credo che si debba essere per forza un matematico o un logico per essere un buon filosofo, benché la cosa aiuti. C'è chi è bravo a fare una cosa, e chi è bravo a fare l'altra. Quanto a Dummett, ha addirittura cominciato con una laurea in storia, credo. Lei l'ha intervistato, non gliel'ha detto?"
Non gliel'ho chiesto. Lei, però, un giorno ha detto di un suo collega: "Che cosa volete che sappia? E' un fenomenologo!".
"Non l'ho mai detto, e sono contento di poterlo negare ufficialmente. E nemmeno lui ha detto le cose che gli hanno fatto dire su di me. Sono i giornalisti che ci hanno fatto dire quelle cose. Spero che lei non farà lo stesso!"
Tra logici non si fa così. Ci dica però che cosa pensa, allora, della fenomenologia.
"Certamente ci sarà del lavoro serio e interessante. Io ho letto solo qualche traduzione di Husserl, non molto buona: non si capiva niente. Di Heidegger ho letto soltanto le frasi citate da Carnap: credevo che se le fosse inventate lui, ma sono andato a controllare e Heidegger le aveva dette sul serio. Ricorda? "Parlerò dell'essere stesso e di niente altro". Che altro potrebbe esserci, oltre l'essere? Queste sono barzellette".
Conosce la sua intervista postuma Solo un Dio ci può salvare? Heidegger dice che i suoi amici francesi gliel'hanno confermato: quando iniziano a pensare, devono farlo in tedesco.
"Ridicolo. Fra l'altro, Diderot diceva lo stesso del francese".
A proposito di battute, qualcuno l'ha definita "il Bobby Fisher della filosofia".
"Lo so, e sono molto seccato".
E perchè mai? Fisher era un genio degli scacchi, che dopo aver vinto il campionato mondiale ha deciso di non giocare più in pubblico. Anche lei non ha più pubblicato niente, no?
"Io l'ho preso come un insulto, come un giudizio di ristrettezza mentale. Anche perché, quando l'hanno detto, avevo appena pubblicato il mio libro su Wittgenstein. In ogni caso, non è la prima volta nella vita che passo del tempo senza pubblicare: è già successo anche durante gli anni '60, quando lavoravo alla teoria degli insiemi ammissibili".
Credo di avere una copia dei suoi appunti, di quegli anni. Neppure quelli sono mai stati pubblicati.
"E come li ha avuti? Io non li ho pubblicati perché nel frattempo la teoria è stata sviluppata indipendentemente, da Richard Platek. Li ho presentati a una conferenza e Georg Kreisel, che era il relatore di Platek, è venuto a dirmi che tutto ciò che avevo fatto era implicito nel suo lavoro. Io però credo di essere arrivato primo. A dire il vero, anche Platek non ha pubblicato niente. Per fortuna c'è stato Barwise, che ha scritto un libro sull'argomento".
E a che cosa ha lavorato, in questi ultimi anni di silenzio editoriale?
"Molte cose. In filosofia, il legame fra identità e tempo, ad esempio, o l'esistenza di entità fittizie. In matematica, ho trovato un modo alternativo di provare i teoremi di incompletezza di Gödel: una dimostrazione nello stile della discesa infinita di Fermat, in cui se qualcosa di un certo tipo è dimostrabile, allora lo è anche qualcosa dello stesso tipo ma più corto. Alcune di queste cose le ho presentate in una conferenza, e sono state registrate e trascritte. Poi hanno distrutto i nastri: non è straordinario?"
E qualcosa di tutto ciò sarà pubblicato?
"Spero proprio di sì. In fondo, lo devo al mondo".

Michael Dummett, il filosofo che gioca a tarocchi

Da "http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/010913.htm" :

di PIERGIORGIO ODIFREDDI

Se un nome e un luogo possono essere associati alla storia della filosofia analitica, sono quelli di Gottlob Frege e dell'Inghilterra. A entrambi è legato Michael Dummett, probabilmente il più rappresentativo esponente vivente di questa tradizione. Dummett è stato infatti professore a Oxford, la città in cui vive, e con molti e fortunati volumi ha contribuito più di ogni altro a rivalutare il ruolo del pensiero di Frege nella filosofia del linguaggio e della matematica.
Dummett è un autore prolifico e piacevole da leggere, come dimostrano gli ultimi suoi libri appena usciti in Italia: Origini della filosofia analitica (Einaudi) e La natura e il futuro della filosofia (Melangolo). Famoso anche per la sua vena polemica, che ha potuto sfogare in molti interventi anche su giornali italiani, non si smentisce neppure in occasione di questa intervista.
Lei considera la filosofia come una disciplina puramente accademica. Questo può suonare strano in Italia, dove imperano i filosofi di corte e di palazzo: da Marcello Pera a Rocco Buttiglione, da Gianni Vattimo a Lucio Colletti.
"Quelle sono eccezioni. La maggioranza dei filosofi, anche in Italia, sta in università. Anzi, io dubito che oggi la filosofia possa fiorire indipendentemente dall'ambiente accademico".
Parlando di baroni, mi viene in mente che lei è diventato baronetto nel 1999. Per quali meriti?
"Per "contributi alla filosofia e alla giustizia razziale". Fin dagli anni Sessanta ho lavorato in comitati per l'integrazione razziale e contro la discriminazione, e sono stato tra i fondatori del Comitato di Assistenza per l'Immigrazione. Bisogna lavorare molto, a livello politico e giornalistico, per alimentare rispetto e simpatia verso rifugiati e immigranti, invece di odio e paura".
Veniamo alla filosofia, che lei identifica con l'analisi del linguaggio. Per quale motivo dovremmo imparare qualcosa dell'uomo in generale, o addirittura del mondo esterno, dall'analisi di specifici linguaggi naturali (indoeuropei)?
"Frege diceva che gli uomini possono concepire soltanto pensieri linguistici, ma non escludeva che per altri esseri questo potesse non essere vero. Secondo me, esagerava: io non credo che una creatura possa concepire un pensiero che non sia in grado di esprimere. In ogni caso, se anche lo studio del linguaggio non fosse l'unico mezzo possibile per l'analisi del pensiero, certamente è uno strumento indispensabile. E poiché è attraverso il pensiero che noi concepiamo la realtà, il suo studio ci chiarifica qualcosa anche del mondo esterno".
Ma non sono piuttosto le filosofie, così come le visioni del mondo, a riflettere i linguaggi in cui sono espresse? Ad esempio, la filosofia analitica l'inglese, quella continentale il tedesco, quella indiana il sanscrito, e così via?
"Frege diceva anche che, se l'espressione dei pensieri fosse l'unico scopo del linguaggio, tutte le lingue avrebbero la stessa grammatica. Ancora una volta, esagerava: in fin dei conti, i testi di filosofia si possono tradurre abbastanza fedelmente. Almeno, lo spero, visto che alcuni dei miei sono tradotti in italiano!".
Le sue citazioni di Frege mostrano che lei è stato molto influenzato dalla logica matematica. Si tratta soltanto di una contingenza personale, oppure di una necessità filosofica?
"Frege ha trovato un simbolismo che permette di esprimere adeguatamente la struttura del pensiero. Non è perfetto, ma è il migliore che abbiamo. Per questo tutti i filosofi analitici, e anche gli altri, dovrebbero conoscere almeno i rudimenti della logica matematica. E non solo di quella classica, ma anche della logica intuizionista e dei suoi motivi per rifiutare il principio del terzo escluso".
Matematici e scienziati sembrano avere poco interesse per la filosofia della matematica e della scienza. Si tratta solo di mancanza di sensibilità? O non è piuttosto la consapevolezza che i filosofi si concentrano su problematiche irrilevanti?
"Gli specialisti che snobbano le analisi filosofiche non sono molto più rispettabili degli ignoranti che snobbano l'attività intellettuale. Le discussioni sui fondamenti della meccanica quantistica mostrano che c'è una bella differenza tra usare una teoria che "funziona", e capire che cosa essa significhi".
A me sembra che molti scienziati abbiano dedotto dalla "beffa Sokal" che la filosofia è indistinguibile dalla propria parodia.
"Credo che la "beffa Sokal" dimostri soltanto che un certo tipo di sociologia è indistinguibile dalla propria parodia. Comunque questa è una bella frase: complimenti!".
A proposito di parodie, Borges diceva che la teologia è una forma di letteratura fantastica. Leggendo il suo ultimo libro, sono rimasto scioccato nel sentire che lei si dichiara cattolico.
"Questa, invece, è un'espressione di trionfalismo antireligioso. Se io rimanessi scioccato nel sentire che lei si dichiara ateo, sarei considerato arrogante. Poiché l'ateo si sente maggioritario, almeno fra gli intellettuali, si permette atteggiamenti di superiorità verso i credenti".
Intendevo dire che sono rimasto molto sorpreso di questa dichiarazione, alla fine di un libro in cui lei attacca duramente la Chiesa sulla limitazione delle nascite e la prevenzione dell'AIDS.
"Le mie critiche sono rivolte alla politica del Vaticano, che è spesso mal concepita e a volte molto sbagliata. Il mio dissenso col Papa sulla pillola riguarda un insegnamento che non ha fondamento né storico né dottrinale".
Come concilia, comunque, le sue idee filosofiche e religiose?
"Lei crede che essere cattolico sia in conflitto con l'essere filosofo?".
Con l'essere un filosofo analitico, si. E anche con l'essere scienziato.
"E perché?".
Anzitutto, perché la religione cattolica si basa su dogmi. E poi perché questi dogmi non hanno né senso né significato, tanto per usare la terminologia di Frege.
"Certo il credente ha problemi che il non credente non ha. Ad esempio, l'Eucarestia, la Resurrezione e l'Immacolata Concezione, su ciascuno dei quali ho scritto un articolo. O l'Assunzione, sulla quale un socialista come Aneurin Bevan poteva solo commentare: "Beh, era il minimo che Cristo potesse fare per sua madre"... Io credo che un filosofo debba seguire i suoi ragionamenti dovunque lo portino, anche contro la sua fede. O contro la sua mancanza di fede. E se arriva a negare qualcosa alla quale non può rinunciare, deve onestamente riconoscere di non essere in grado di accettare le conclusioni. La filosofia sta più nei ragionamenti che nelle conclusioni".
Per finire in maniera più leggera, lei ha scritto vari libri sui tarocchi. Come mai questa passione?
Molti anni fa ero in vacanza in Francia con la mia famiglia. Abbiamo comprato dei tarocchi francesi e ci siamo appassionati. Poi ho scoperto che in Austria c'era un gioco dello stesso genere, ma molto diverso. Mi sono chiesto come si giocasse negli altri paesi, e poiché gli esperti che ho consultato non lo sapevano, ho cominciato a fare ricerche per conto mio. Nel 1980 ho pubblicato in inglese Il gioco dei Tarocchi, che tratta dei vari tipi di gioco. Nel 1993 ho invece pubblicato in italiano Il mondo e l'angelo (Bibliopolis), che tratta dei vari tipi di carte. E sono diventato un giocatore entusiasta, benché non buono".

Logica classica

Da WikiPedia:

La logica classica è la branca della logica formale che è stata più studiata e usata. È caratterizzata da certe proprietà; le logiche non-classiche sono quelle che non soddisfino ad una (o più) di queste proprietà, ovvero:
  1. Principio del terzo escluso;
  2. Principio di non-contraddizione;
  3. Monotonia dell'implicazione e idempotenza dell'implicazione;
  4. Commutatività dei connettivi;
  5. Leggi di De Morgan: ogni operatore logico è duale ad un altro.

Esempi di logica classica

  • L'Organon di Aristotele presenta la teoria dei sillogismi, che è una logica con una ristretta schiera di proposizioni: le asserzioni prendono una delle quattro forme, Tutte le P sono Q, Qualche P è una Q, Nessuna P è Q, e Qualche P non è Q. Queste proposizioni sono composte da coppie di operatori duali, e ogni operatore è la negazione di un altro, relazioni che Aristotele ha classificato con la sua tabula. Per giustificare il suo sistema Aristotele ha enunciato esplicitamente il principio del terzo escluso e la legge di non contraddizione, nonostante queste leggi non possano essere espresse all'interno del formalismo sillogistico.
Secondo il principio del terzo escluso per ogni cosa A può essere o B o non B, nessun altro stato di verità è possibile.
Più formalmente si dice che per ogni proposizione P avremo che P\vee \neg P è un'affermazione sempre vera (è una tautologia).
  • La formulazione algebrica della logica di George Boole ed il suo sistema di logica booleana; in essa si assegna ad ogni proposizione un valore numerico, 1 per codificare la verità, 0 per codificare la falsità.

Logiche non classiche

martedì 25 febbraio 2014

John Stuart Mill, Saggio sulla libertà. Una recensione di Gabriele Ottaviani

Da "http://www.filosofiprecari.it/wordpress/?p=1855" :

John Stuart Mill, nato nel 1806, il venti di maggio, a Pentonville, un distretto di Londra (laddove nel 1902 risiederanno anche Lenin e la moglie) e morto ad Avignone sessantasette anni dopo è senza dubbio una delle voci più interessanti, chiare e autorevoli della filosofia e dell’economia del Diciannovesimo secolo, il secolo che precedette quello “breve” per eccellenza; un pensatore di levatura francamente straordinaria, che ha influenzato molte delle opinioni che sono venute a palesarsi e a formarsi negli anni, nei decenni e nei secoli successivi, portando parecchi intellettuali a schierarsi più o meno apertamente in due contrapposte fazioni, tra chi condivide, sia pur mutatis mutandis, le sue tesi, e chi invece le contesta, benché possa non di rado in effetti trovare, nell’approfondita analisi della speculazione di Mill, punti di contatto con le proprie personali convinzioni.
Nel 1858 John Stuart Mill, che già aveva dato alle stampe “Sistemi di logica deduttiva e induttiva ” e, nel 1848, i “Principi di economia politica”, pubblica il “Saggio sulla libertà”. La “libertà”, un sentimento, un’azione, un ideale, ma prima ancora una parola, come probabilmente nessun’altra spesso pronunciata, anche a sproposito, invocata, interpretata, tradita, beffeggiata, piegata a interessi particolari o viceversa innalzata come bandiera, gonfalone o vessillo per legittimare comportamenti in realtà niente affatto liberali. Il testo s’impone in breve tempo come uno, se non addirittura “il” testo, che concerne, studia, analizza e definisce il liberalismo, fungendo da paradigma per la compiuta edificazione di una democrazia reale, anche attraverso dei documenti, come le costituzioni degli Stati moderni e contemporanei. Come pressoché ogni vero testo filosofico, il “Saggio sulla libertà” di Mill è in realtà nient’altro che un’articolata risposta a una domanda, un interrogativo iniziale, per nulla semplice, anzi, tutt’altro, da cui però ogni cosa, grazie alla piacevole limpidezza dello stile di Mill – a tratti impreziosito da un certo ironico disincanto imbevuto di realismo, nettezza di giudizio e buon senso, rendendo il suo messaggio ancor più attuale, e le sue parole accostabili con facilità ad ambiti anche diversi da quelli da lui esaminati in maniera diretta – scaturisce naturalmente, procedendo con linearità di causa in conseguenza, con l’effetto di un domino, o di una piccola cascata. Il tema della riflessione è la libertà civile, e il pensatore si chiede quali siano dunque in effetti in primo luogo i caratteri e, in seguito, soprattutto, i confini del potere che la società ha diritto di esercitare sull’individuo, il cui principio di libertà individuale non può in alcun modo essere coinvolto nella dottrina del libero scambio.
Scrive infatti Mill: “L’argomento di questo saggio non è la cosiddetta “libertà della volontà”, tanto infelicemente contrapposta a quella che è impropriamente chiamata dottrina della necessità filosofica, ma la libertà civile, o sociale: la natura e i limiti del potere che la società può legittimamente esercitare sull’individuo. Questione raramente enunciata, e quasi mai discussa in termini generali, ma la cui presenza latente influisce profondamente sulle polemiche quotidiane del nostro tempo, e che probabilmente si paleserà ben presto come il problema fondamentale del futuro. È così poco nuova che, in un certo senso, ha diviso l’umanità quasi fin dai tempi più remoti; ma, allo stadio di progresso cui sono ora giunti i settori più civilizzati della nostra specie, si presenta alla luce di condizioni nuove e richiede di esser trattata in modo diverso e più fondamentale. La lotta tra libertà e autorità è il carattere più evidente dei primi periodi storici di cui veniamo a conoscenza, in particolare in Grecia, Roma, e Inghilterra. Ma nell’antichità si trattava di conflitti tra sudditi, o alcune classi di sudditi, e governo. Per libertà si intendeva la protezione dalla tirannia dei governanti, concepiti (salvo che nel caso di alcuni governi popolari della Grecia) come necessariamente antagonistici al popolo da essi governato”, e l’autorità “era ereditaria o frutto di conquista, in ogni caso non della volontà dei governati”.
A un certo punto del progresso umano però “gli uomini cessarono di pensare che i governanti dovessero necessariamente essere un potere indipendente, con interessi opposti ai propri, e giudicarono molto preferibile che i vari magistrati dello Stato ricevessero in concessione l’esercizio del potere, fossero cioè dei delegati revocabili a piacimento dalla comunità”. Un pericolo è d’altro canto anche la cosiddetta “tirannia della maggioranza”, un male per la società, che deve rispetto anche alle opinioni numericamente meno rappresentate, e proprio per questo motivo spesso improvvidamente e ingiustamente relegate ai margini, quando non addirittura discriminate. “Vi è un limite – scrive Mill – alla legittima interferenza dell’opinione collettiva sull’indipendenza individuale: e trovarlo, e difenderlo contro ogni abuso, è altrettanto indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la protezione dal dispotismo politico”. Il problema delle regole, risolto quasi sempre in modo diverso a seconda dell’epoca e del luogo, e quindi della cultura e della mentalità della popolazione lì residente, è davvero centrale, anche perché secondo il filosofo “tutto ciò che rende l’esistenza di chiunque degna di essere vissuta dipende dall’imposizione di restrizioni sulle azioni altrui”.
Inoltre c’è un fattore dominante nella determinazione delle regole di condotta: “le simpatie e le antipatie della società, o di qualche suo potente settore, […] e, in generale, coloro il cui pensiero o i cui sentimenti erano più avanzati di quelli della loro società hanno evitato di attaccare in linea di principio questo stato di cose, anche se talvolta possono essersi trovati in conflitto con alcuni suoi aspetti. Si sono preoccupati di determinare ciò che la società dovrebbe preferire o avversare, piuttosto che di chiedersi se queste simpatie o antipatie debbano aver valore di legge per gli individui: hanno preferito tentare di modificare i sentimenti degli uomini rispetto alle questioni particolari su cui essi stessi erano degli eretici, piuttosto che far causa comune con gli eretici in generale per difendere la libertà. Il solo caso in cui si è scelta per principio questa posizione più elevata, e la si è mantenuta con coerenza, salvo rare eccezioni individuali, è quello delle convinzioni religiose: caso per molti aspetti istruttivo, non da ultimo perché costituisce un esempio straordinario della fallibilità di ciò che è chiamato senso morale. […] Le minoranze, consce di non aver alcuna possibilità di diventare maggioranze, dovettero necessariamente richiedere a coloro che non potevano convertire il permesso di dissentire. […] I grandi scrittori cui il mondo è debitore del grado di libertà religiosa di cui gode hanno per la maggior parte rivendicato la libertà di coscienza come diritto inalienabile, e assolutamente negato che si debba render conto ad altri delle proprie convinzioni religiose. Tuttavia, l’intolleranza, in tutti i campi che realmente contano per l’umanità, è tanto connaturata che la libertà religiosa non è stata quasi mai realizzata in pratica, salvo che nei casi in cui l’indifferenza religiosa, che non gradisce essere turbata da dispute teologiche, ha fatto valere il proprio peso. Quasi tutte le persone […] ammettono il dovere della tolleranza con tacite riserve.” Come fondamento dell’apparato normativo che regola il vivere comunitario deve necessariamente pertanto esserci il criterio – di stampo squisitamente utilitarista – secondo il quale l’obiettivo da raggiungere non può che essere il massimo benessere per il maggior numero di persone, ma al tempo stesso l’individualità è un elemento assai connotativo del bene della società, che non può essere soffocato, prevaricato o messo in secondo piano.
Pertanto l’uomo, finché la sua indipendenza non viola quella altrui (“il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata contro la sua volontà è per evitare danno agli altri”), è del tutto libero di seguire il suo proprio percorso di ricerca della felicità, un diritto sentito come inalienabile anche dai più grandi scrittori greci e latini, e quindi anche di esprimere il proprio disaccordo con le opinioni maggioritarie e di scegliere volontariamente di non adeguarsi, poiché li ritiene ingiusti per sé, ai modelli di comportamenti, pensieri, usi, costumi, condotte e persino gusti (de gusti bus non disputandum est è adagio di secolare tradizione) e sentimenti imposti, proposti o comunque adottati in modo predominante dalla collettività.
La regione propria della libertà umana, secondo Mill, che non si stanca nel corso dell’opera di ribadire il concetto, “comprende, innanzitutto, la sfera della coscienza interiore, ed esige libertà di coscienza nel suo senso più ampio, libertà di pensiero e sentimento, assoluta libertà di opinione in tutti i campi, pratico o speculativo, scientifico, morale, o teologico. La libertà di esprimere e rendere pubbliche le proprie opinioni può sembrare dipendere da un altro principio, poiché rientra in quella parte del comportamento che riguarda gli altri, ma ha quasi altrettanta importanza della stessa libertà di pensiero, in gran parte per le stesse ragioni, e quindi ne è pratica inscindibile. In secondo luogo, questo principio richiede la libertà di gusti e occupazioni, di modellare il piano della nostra vita secondo il nostro carattere, di agire come vogliamo, con tutte le possibili conseguenze, senza essere ostacolati dai nostri simili, purché le nostre azioni non li danneggino, anche se considerano il nostro comportamento stupido, nervoso, o sbagliato. In terzo luogo, da questa libertà di ciascuno discende, entro gli stessi limiti, quella di associazione tra individui: la libertà di unirsi per qualunque scopo che non implichi altrui danno, a condizione che si tratti di adulti, non costretti con la forza o con l’inganno. Nessuna società in cui queste libertà non siano rispettate nel loro complesso è libera, indipendentemente dalla sua forma di governo; e nessuna in cui non siano assolute e incondizionate è completamente libera. La sola libertà che meriti questo nome è quella di perseguire il nostro bene a nostro modo, purché non cerchiamo di privare gli altri del loro o li ostacoliamo nella loro ricerca”.

IMPORTANTE:

La visione del mondo di Mill che si desume dalle affermazioni proposte caratterizza ovviamente in maniera precisa anche le sue teorie in ambito economico: definito dai più come un liberale classico, non mancano in realtà controversie in merito alla sua collocazione nel solco della tradizione economica generata da questa dottrina.
Mill infatti si discosta in certi punti dal consueto favore nei confronti del libero mercato tout court, poiché considera naturali e dunque immutabili solo le leggi di produzione, mentre quelle di distribuzione, poiché frutto di particolari contingenze di stampo etico-politico e di ragioni sociali, sono a suo dire modificabili.
Prendendo in ogni modo le mosse dal testo cardine di Adam Smith (Krikcaldy, 5 giugno 1723 – Edimburgo, 17 luglio 1790) – celebre per la sua teoria della mano invisibile, sulla regolazione spontanea dello scambio e delle attività di produzione –, La ricchezza delle nazioni, Mill si spinge a dichiarare il proprio favore verso le imposte (osteggiate viceversa alla stregua di un male assoluto per la società da pensatori di spicco come per esempio Benjamin Franklin) purché esse abbiano una giustificazione nella loro utilità per il collettivo.
Inoltre contesta a Smith il suo non considerare l’erogazione di un servizio come un vero lavoro produttivo, e non reputa il proprio liberismo come una posizione meramente di principio, bensì discendente da un pragmatico e profondo convincimento, suffragato da dati, di maggiore efficienza e produttività.
Non ritiene poi la proprietà privata un diritto naturale, e ammette una certa dose di protezionismo, quando questo funga da tutela di un sistema industriale “appena nato”. Una volta raggiunto il livello di competitività con gli altri sistemi, le tutele vanno però rimosse.

Scienza e Filosofia 2

Da "http://blog.rubbettinoeditore.it/michele-marsonet/eliminare-la-filosofia/" :

Eliminare la Filosofia?

Già lo si sapeva, ma un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” del 16 febbraio ha contribuito a rinfocolare una polemica che giaceva un po’ sopita da qualche tempo. Dopo la geografia e la storia dell’arte, ora anche la filosofia rischia di essere espulsa, lentamente ma in modo chirurgico, dai licei e da alcuni corsi di studio universitari.
Cominciamo per ordine. Nel nostro Paese le cattedre di filosofia sono presenti, grazie alla riforma Gentile, nei licei classici, scientifici e psico-pedagogici (che hanno in sostanza preso il posto dei vecchi istituti magistrali). Non nella stessa misura, ovviamente, poiché al classico le ore di filosofia hanno un peso maggiore.
Per quanto concerne l’università, ha conservato un ruolo centrale nelle facoltà di Lettere e Filosofia (definizione ancora una volta gentiliana). Tale ruolo era notevole anche a Magistero, facoltà poi trasformata in Scienze della Formazione. Più circoscritto a Giurisprudenza e Scienze Politiche dove s’insegna quasi esclusivamente Filosofia del diritto e Filosofia politica.
La notizia che allarma gli addetti ai lavori – ma non solo loro – è che le materie filosofiche sono uscite dalle tabelle disciplinari dei corsi di studio di Pedagogia e Scienze dell’educazione (dove prima erano presenti). Ma non è finita. Si parla apertamente di un ciclo abbreviato di quattro anni nei licei invece degli attuali cinque, per consentire agli studenti di iscriversi prima all’università. In tal caso si passerebbe a soli due anni di filosofia nella scuola secondaria invece di tre.
Occorre rilevare che in molte nazioni europee (soprattutto del Nord), negli Stati Uniti, in Canada e Australia la filosofia non viene insegnata a scuola: chi vuole studiarla deve iniziare dall’università. Adottano invece il nostro modello – pur con meno ore “filosofiche” a disposizione – Francia, Spagna e i Paesi latini in genere.
Curioso notare che, dove non c’è (per esempio nel mondo anglosassone), si registra una forte spinta a introdurla già a livello di scuola secondaria, mentre da noi la tendenza è esattamente opposta. Non bisogna poi dimenticare che il tentativo di eliminare la filosofia fu compiuto anni fa in Spagna dal governo socialista di Gonzales e andò in porto solo parzialmente.
Si tratta di un attacco all’umanesimo come denunciano molti intellettuali italiani e stranieri? Certamente, e pure questa non è una novità. Gran parte del mondo politico, in Italia, non perde occasione per attaccare le materie umanistiche in modo a volte violento, invitando apertamente i giovani a seguire percorsi scientifici e tecnologici, con una particolare predilezione per l’ingegneria.
Il motivo va cercato nella grave crisi del mercato del lavoro, che si spera di superare per l’appunto dando una preminenza assoluta alla formazione scientifica e tecnica. I conti tornerebbero se davvero i laureati scientifici trovassero occupazione con facilità. Era vero forse tempo fa, ora non più. Le difficoltà riguardano ogni settore, e ciò significa, per esempio, che neoingegneri e neomedici incontrano problemi al pari degli altri.
Il discorso, però, ha una valenza soprattutto culturale. Non si tratta tanto di difendere una categoria quanto, piuttosto, di offrire alle nuove generazioni qualche spazio per coltivare il pensiero critico, l’abitudine a guardare la realtà da tutti i punti di vista, e non da uno solo.

Altrimenti ci ritroveremo con laureati che sembrano polli di batteria, validi solo nella misura in cui risultano funzionali al mondo della produzione.

Sembra, il mio, un discorso quasi neomarxista, e non nego che le assonanze ci siano.
Horkheimer, Adorno e Marcuse non dicevano cose tanto diverse.
Basta tuttavia leggere qualche pagina di Popper, il più grande filosofo della scienza contemporaneo, per comprendere che scienza, tecnica e filosofia non sono affatto in contraddizione come affermano con sicumera degna di miglior causa tanti nostri politici.

La prova? Negli Stati Uniti alcuni dei migliori dipartimenti di filosofia si trovano nei politecnici, e non pare che tale fatto scandalizzi.
Esempio classico è il famoso MIT (Massachusetts Institute of Technology) dove troverete la “School of Humanities” e il “Department of Philosophy”.
Forse gli americani, meno provinciali di noi (anche se spesso si dice il contrario) hanno capito che scienza e tecnica senza umanesimo non hanno prospettive.

Michele Marsonet

Scienza e Filosofia: Un appello per la Filosofia


Scienza e Filosofia, non sono altro che le facce dell'unica vincente medaglia, che sempre nella storia non abbiamo meritato di appenderci al collo.
LexMat


Posto nuovamente l'appello per l'insegnamento della Filosofia nella Scuola.
Che poi il problema, in realtà, è che anche la Scienza viene insegnata malamente.
L'appello dovrebbe essere per la Scuola in toto. L'ignoranza è a 720 gradi.
Firmatelo per favore.
LexMat


Su "http://www.lascuola.it/it/home/editrice_detail/un-appello-per-la-filosofia" :

Un appello per la Filosofia

Promotori:
Roberto EspositoAdriano Fabris, Giovanni Reale

Questo, per la filosofia e per la cultura umanistica in generale, è un momento non facile. Prevale un’ideologia tecnocratica, per la quale ogni conoscenza dev’essere finalizzata a una prestazione, le scienze di base sono subordinate alle discipline applicative e tutto, alla fine, dev’essere orientato all’utile. Lo stesso sapere si riduce a una procedura, e procedurali ed organizzative rischiano di essere anche le modalità della sua costruzione e valutazione. Un conoscere è valido solo se raggiunge specifici risultati. Efficacia ed efficienza sono ciò che viene chiesto agli studiosi: anche nell’ambito delle discipline umanistiche.

In questo quadro non stupiscono, per restare nell’ambito filosofico, l’eliminazione della Filosofia teoretica da molti corsi universitari di Scienze dell’educazione, nonché, per quanto riguarda le scuole secondarie, l’idea di ridurre a due anni la formazione filosofica, a seguito del progetto per ora sperimentale di abbreviare il ciclo a quattro anni. Allo stesso modo non sorprende il fatto che, nonostante il diffondersi negli ultimi decenni delle etiche applicate (come la bioetica, l’etica ambientale, l’etica economica, l’etica della comunicazione) a tutt’oggi la bioetica è considerata nelle declaratorie una disciplina che rientra ufficialmente nei settori disciplinari della medicina e del diritto piuttosto che della filosofia. Con la conseguenza che viene privilegiato per questa materia un insegnamento di carattere procedurale, piuttosto che una formazione volta a fare chiarezza sui motivi di certe scelte per aiutare a prendere decisioni responsabili.
Ma tutto questo è la punta di un iceberg. È il segno che, privilegiando un pensiero unico modellato sulle procedure tecnologiche, abbiamo rinunciato alla nostra tradizione, alle molteplici espressioni della nostra umanità, e siamo diventati tutti più poveri nella riflessione e nella capacità critica. Si tratta di un problema che interessa anzitutto la dimensione educativa. Ma più in generale ne va del ruolo che, nel nostro paese, può giocare la dimensione della cultura.

È necessario cambiare rotta. È necessario contrastare questa deriva. Lo si può fare anzitutto bloccando i progetti che riducono o addirittura eliminano lo spazio della filosofia nell’istruzione secondaria e nell’insegnamento universitario. Lo si può fare chiedendo al nuovo governo impegni precisi: non solo per l’ammodernamento delle strutture scolastiche e universitarie, ma anzitutto per il sostegno e il rilancio di una cultura autenticamente umanistica, come sfondo all’interno del quale anche la ricerca scientifica e tecnologica acquista significato.
È questo il modo in cui può trovare rilancio anche un’azione politica intesa come responsabilità del pensiero nei confronti della dimensione pubblica e del mondo. È questo il modo in cui il nostro paese può essere fedele al suo passato. È questo il modo in cui esso può trovare una vera collocazione nel presente e nel futuro dell’Europa.

Aderisci all'iniziativa!

Primi firmatari:
Massimo Adinolfi, Luigi Alici, Dario Antiseri, Luisella Battaglia, Franco Biasutti, Remo Bodei, Laura Boella, Francesco Botturi, Giuseppe Cantillo, Dino Cofrancesco, Raimondo Cubeddu, Fulvio De Giorgi, Maurizio Ferraris, Mariapaola Fimiani, Piergiorgio Grassi, Enrica Lisciani Petrini, Eugenio Mazzarella, Salvatore Natoli, Giuseppe Nicolaci, Luigi Pati, Luciano Pazzaglia, Paola Ricci Sindoni, Giuseppe Riconda, Leonardo Samonà, Emanuele Severino, Giusi Strummiello, Gianni Vattimo, Carmelo Vigna, Claudio Ciancio, Pier Aldo Rovatti, Franco Miano, Michelina Borsari, Gianfranco Dalmasso, Antonio Bellingreri, Enrico Berti, Armando Massarenti, Giacomo Marramao

Altri firmatari (clicca sul link per leggere l'elenco)

Leggi i commenti all'appello

lunedì 24 febbraio 2014

Eulero

Da "http://daily.wired.it/news/scienza/2012/09/18/storia-di-eulero-183456.html" :

Eulero e la formula più bella della matematica
229 anni fa muore Eulero, genio dell'Illuminismo paragonabile a Pitagora, Euclide, Newton e Gauss. Il suo soprannome? Il ciclope della matematica

di Caterina Visco
Se esistesse un modo perfetto per morire, sarebbe quello toccato in sorte al grande matematico svizzero Leonhard Paul Euler, alias Eulero. Colui che già da vivo era stato accostato a Pitagora, Euclide e Newton, che ha indagato ogni branca della disciplina madre dalla geometria alla trigonometria, dal calcolo infinitesimale all' analisi, dedicandosi anche alla fisica e all' astronomia, concluse la sua vita così come l'aveva vissuta: stando insieme alle persone più care e facendo ciò che più amava.

Leonhard aveva cominciato quella giornata di fine estate, il 18 settembre 1873, dando lezioni di matematica a uno dei suoi numerosi nipoti e lavorando a una prossima pubblicazione insieme ai suoi più fedeli assistenti: il figlio Johann Albrech e il segretario (divenuto con il tempo marito della nipote) Nicolaus Fuss, grandi matematici anch'essi. I due gli erano fondamentali, ma non perché il suo intelletto o la sua memoria stessero perdendo qualche colpo. A 76 anni suonati, infatti, ancora ricordava perfettamente tutte le formule matematiche più importanti, le potenze fino al quarto grado e L'Eneide di Virgilio parola per parola (dell'opera latina sapeva dire con certezza quale fossero il primo e l'ultimo verso di ogni pagina).

Quella che mancava del tutto a Eulero era invece la vista. Aveva perso l'occhio destro appena trentenne, si dice per il troppo lavoro o per aver fissato troppo a lungo il Sole alla ricerca di un nuovo modo per misurare lo scorrere del tempo. A questa perdita Eulero, anche in virtù della sua grande fede, aveva reagito bene, dichiarando “ Ora avrò minore occasione di distrazione”; consentiva anche agli altri di scherzarci su, come faceva Federico Il Grande di Prussia, alla cui corte Eulero aveva vissuto per 25 anni dal 1741 al 1766, chiamandolo il “ Ciclope della Matematica”. Per trent’anni l'occhio sinistro aveva retto da solo, ma poi si era spento del tutto, così che la presenza dei due assistenti si era fatta indispensabile.

Dedicata dunque la mattinata alla sua amata matematica, alla quale era stato introdotto da bambino da Johannes Bernoulli (padre di Daniel, lo studioso dell' idrodinamica), Eulero aveva pranzato piacevolmente insieme a tutta la famiglia e ad alcuni amici nella sua casa di San Pietroburgo. Ad animare il pranzo erano state le conversazioni sui palloni volanti dei fratelli Montgolfier e la recente scoperta di Urano. Poi improvvisamente, quando ormai si erano fatte cinque del pomeriggio, il genio svizzero venne colpito da emorragia cerebrale e morì sul colpo. Anzi, come disse il matematico francese Nicolas de Condorcet: “ ...il cessa de calculer et de vivre” (" ha smesso di calcolare e di vivere").

Quel giorno la matematica subì una delle sue perdite più significative. I contributi di Eulero sono innumerevoli e inestimabili: dall'introduzione di alcune notazioni e simboli fondamentali - come il pi greco ( π), la e per il numero di Nepero (costante fondamentale per lo studio dei logaritmi in analisi, da allora numero di Eulero) o la i per le unità immaginarie, le notazioni di seno e coseno in trigonometria e quella f(x) per le funzioni – alla formula di Eulero dei numeri complessi, dalla risoluzione del problema dei sette ponti di Königsberg (che diede il via allo studio dei grafi), alla formula per calcolare molti dei numeri primi, per i quali il matematico aveva una passione particolare. E questi non sono che pochi esempi della sua opera.

Sue infatti sono anche alcune tra le più importanti equazioni della geometria e la soluzione di molti problemi di Pierre Fermat, anche se non  dell'Ultimo di cui diede solo una soluzione parziale. Ma soprattutto è sua quella che viene oggi considerata la formula più bella della matematica, ovvero l' Identità di Eulero: e iπ  +1 = 0. A definirla così fu Richard Feynman perché lega tra loro, attraverso gli operatori fondamentali della matematica (uguaglianza, addizione, moltiplicazione ed esponenziazione), alcune tra le costanti, i numeri e i simboli più importanti.

Secondo lo stesso Eulero molte di queste scoperte e intuizioni matematiche sono merito dei figli: la maggiore parte di esse, amava ripetere, gli sono venute alla mente infatti mentre cullava uno dei suoi tredici pargoli, e non mentre si consumava gli occhi sui fogli di calcolo. Del resto, come disse il matematico e fisico francese François Arago: “ Eulero calcolava senza sforzo apparente, così come gli uomini respirano o le aquile si sostengono nel vento”.


Da WikiQuote:

Eulero calcolava senza sforzo apparente, così come gli uomini respirano o le aquile si sostengono nel vento. (attribuita a François Arago)

In generale la grandezza dell'ingegno non garantisce mai dall'assurdità delle opinioni abbracciate.
(da Lettere a una principessa tedesca, lettera 24)

Da WikiPedia:

Leonhard Euler, noto in Italia come Eulero (Basilea, 15 aprile 1707 – San Pietroburgo, 18 settembre 1783), è stato un matematico e fisico svizzero.

È considerato il più importante matematico dell'Illuminismo. È noto per essere tra i più prolifici di tutti i tempi e ha fornito contributi storicamente cruciali in svariate aree: analisi infinitesimale, funzioni speciali, meccanica razionale, meccanica celeste, teoria dei numeri, teoria dei grafi.
Sembra che Pierre Simon Laplace abbia affermato "Leggete Eulero; egli è il maestro di tutti noi".

Eulero è stato senz'altro il più grande fornitore di "denominazioni matematiche", offrendo il suo nome a una quantità impressionante di formule, teoremi, metodi, criteri, relazioni, equazioni. In geometria: il cerchio, la retta e i punti di Eulero relativi ai triangoli, più la relazione di Eulero, che riguardava il cerchio circoscritto a un triangolo; nella teoria dei numeri: il criterio di Eulero, l'indicatore di Eulero, l'identità di Eulero, la congettura di Eulero; nella meccanica: gli angoli di Eulero, il carico critico di Eulero (per instabilità); nell'analisi: la costante di Eulero-Mascheroni; in logica: il diagramma di Eulero-Venn; nella teoria dei grafi: (di nuovo) la relazione di Eulero; nell'algebra: il metodo di Eulero (relativo alla soluzione delle equazioni di quarto grado); nel calcolo differenziale: il metodo di Eulero (riguardante le equazioni differenziali).

Sempre a Eulero si legano altri oggetti matematici, attraverso l'aggettivo "euleriano", quali: il ciclo euleriano, il grafo euleriano, la funzione euleriana di prima specie o funzione beta, e quella di seconda specie o funzione gamma, la catena euleriana di un grafo senza anse, i numeri euleriani (differenti dai Numeri di Eulero).

Anche se fu prevalentemente un matematico diede importanti contributi alla fisica e in particolare alla meccanica classica e celeste. Per esempio sviluppò l'equazione delle travi di Eulero-Bernoulli e le equazioni di Eulero-Lagrange. Inoltre determinò le orbite di molte comete.

Eulero tenne contatti con numerosi matematici del suo tempo; in particolare tenne una lunga corrispondenza con Christian Goldbach confrontando con lui alcuni dei propri risultati. Egli inoltre seppe coordinare il lavoro di altri matematici che gli furono vicini: i figli Johann Albrecht Euler e Christoph Euler, i membri dell'Accademia di San Pietroburgo W. L. Krafft e Anders Johan Lexell e il suo segretario Nicolaus Fuss (che era anche il marito di sua nipote); a tutti i collaboratori riconobbe i meriti.

Complessivamente esistono 886 pubblicazioni di Eulero. Buona parte della simbologia matematica tuttora in uso venne introdotta da Eulero, per esempio i per i numeri immaginari, ? come simbolo per la sommatoria, f(x) per indicare una funzione. Diffuse l'uso della lettera ? per indicare pi greco.

Franco Basaglia e la rivoluzione psichiatrica italiana

Da "http://www.altritaliani.net/spip.php?page=article&id_article=481" :

Martedì 29 Giugno 2010 
di Andrea Piazzi
 
Nell’ambito del nostro mensile "Nati sotto Saturno", ecco il contributo dello psichiatra Andrea Piazzi dell’Ospedale di Tivoli che mette in evidenza i limiti e soprattutto alcune grosse non verità su una legge, la 180/78, fatta passare come ’rivoluzionaria’ nell’immaginario collettivo e divenuta con il tempo poco più che un feticcio.
Potete intervenire direttamente sull’articolo, il tema del "mensile", scrivere (in qualunque lingua) le vostre opinioni. Diamo spazio alla discussione.

Sono trascorsi più di trent’anni dalla approvazione della legge 180 avvenuta in un momento tra i più bui della nostra storia repubblicana, il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Era il 1978 ed eravamo in pieno compromesso storico con il Governo di solidarietà nazionale diretto dal Dc Giulio Andreotti, che si oppose, in nome della ’fermezza’, a qualsiasi ipotesi di trattativa per liberare Moro. Nonostante il tempo trascorso, i mille cambiamenti intervenuti, le politiche e i contesti sociali totalmente mutati, continua a essere proposta una mitologia dei fatti e dei personaggi che parteciparono alla rivoluzione psichiatrica italiana.
Senza nulla togliere al protagonista di quelle battaglie, Franco Basaglia, appare parziale e scorretto mostrare al pubblico una immagine della storia che poco corrisponde ai fatti e che non favorisce ne la verità ne la conoscenza. E’ ingiusto verso la persona stessa di Basaglia che non ha ancora acquisito la sua verità storica, non è onesto per i tanti altri protagonisti che in quella indispensabile battaglia spesero il loro impegno. Peraltro il risultato che ne deriva propone una immagine della psichiatria anti-istituzionale che non corrisponde affatto alla realtà.
Forse allora occorre in prima istanza raccontare i fatti che sono stati sempre taciuti e che danno all’avvenimento la sua giusta collocazione storica.
Al termine della seconda guerra mondiale l’Italia devastata, ricostruiva oltre le sue case e le sue istituzioni, anche una etica delle relazioni sociali che il fascismo aveva distrutto, tra queste la nuova costituzione riconosceva tra i diritti di ogni individuo all’articolo 13 la tutela della libertà personale, all’articolo 24 il diritto ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e all’articolo 32 la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e stabiliva che non si può essere obbligati ad un determinato trattamento sanitario.
Questi diritti riconosciuti per ogni cittadino si fermavano sulla soglia degli ospedali psichiatrici perché questi erano regolati da una legge ormai superatissima del 1904 che era stata concepita con l’intenzione di salvaguardare l’ordine pubblico e molto meno con l’intenzione di curare i malati.
Armonizzare le regole legislative con la costituzione repubblicana avrebbe dovuto essere uno dei doveri da affrontare con sollecitudine, ma, come in diversi altri casi, i legislatori di allora non si diedero molta fretta lasciando incancrenire il problema in una Italia che rapidamente si industrializzava, mutava completamente le relazioni sociali, acquisiva consapevolezza dei propri diritti.
L’ospedale psichiatrico restò per decenni a simbolizzare l’incapacità della classe dirigente democristiana a riconoscere il cambiamento della società.
Le prime sollecitazioni all’innovazione provenivano dalla stessa classe medica che non riusciva più a sopportare l’abissale differenza tra la vita fuori e dentro il manicomio. Basaglia era uno di questi. La sua esperienza del carcere fascista, sperimentato durante la guerra, lo rendeva sensibile come tanti altri psichiatri alla disumanità che regnava in molti padiglioni dei tanti ospedali psichiatrici.

Ormai erano disponibili gli psicofarmaci e sul finire degli anni cinquanta si stava completamente trasformando la cura dei malati mentali. Erano possibili dimissioni fino ad allora inconcepibili, era possibile instaurare un rapporto umano con i pazienti che fino ad allora erano chiusi nel loro mondo deliranti e allucinatorio, gli psichiatri dovevano acquisire una nuova professionalità imparando a saper parlare con i pazienti. Occorreva una formazione non solo medica organica ma anche psicoterapeutica.
Con gli anni sessanta e l’inizio dell’esperienza politica del centrosinistra emerse finalmente una nuova sensibilità tra gli amministratori pubblici alle condizioni in cui versavano i malati ricoverati negli ospedali psichiatrici e un ministro socialista, Luigi Mariotti, ebbe il coraggio di denunciare la situazione definendo gli ospedali psichiatrici dei veri e propri lager.
Grazie all’impegno del ministro fu possibile un primo passo avanti e venne approvata la legge 431 nel 1968 che finalmente aboliva la vergogna dell’iscrizione al casellario giudiziario dei malati ricoverati, norma introdotta durante il fascismo. Ma non solo, la legge introduceva una serie di disposizioni che furono indispensabili a creare le condizioni per il superamento definitivo degli ospedali psichiatrici. L’ospedale psichiatrico assumeva finalmente una veste veramente ospedaliera, il direttore perdeva finalmente il ruolo di responsabile unico e assoluto, gli si affiancavano primari, assistenti medici, assistenti sociali, psicologi. Ma soprattutto erano istituiti i centri di igiene mentale con il loro personale autonomo e con l’incarico di curare i malati nel loro ambiente di vita, nelle loro case. E ancora i malati potevano chiedere di essere ricoverati senza il timore che il ricovero trasformandosi in definitivo li incarcerasse per sempre tra le mura dell’ospedale.
I dieci anni che passeranno dall’approvazione della legge Mariotti alla legge 180 sono stati anni di molteplici sperimentazioni psichiatriche. Le nuove regole legislative hanno consentito che si svolgessero moltissime esperienze di cambiamento negli ospedali e nell’assistenza territoriale. Fu possibile l’esperienza basagliana di Trieste, da tutti conosciuta, ma non fu l’unica. L’esperienza di psichiatria territoriale di Giovanni Jervis a Reggio Emilia non è stata di minore importanza. Ne nacque quel «Manuale critico di psichiatria» che ha formato migliaia di operatori psichiatrici alla prassi dell’assistenza territoriale. Ma sono innumerevoli le iniziative nuove, eterogenee, sperimentate in quegli anni. Nessuno ricorda mai che a Perugia la scelta di intervenire riducendo il ricovero in ospedale psichiatrico fu deciso dagli amministratori provinciali già nel 1964 e la organizzazione di un efficiente servizio psichiatrico territoriale portò senza molto clamore ad una imponente deospedalizzazione dei malati riducendo in un decennio a un quarto i ricoverati . E ancora in diversi ospedali come quello di Padova si iniziava addirittura agli inizi degli anni sessanta ad abbattere i muri. Con maggiore o minore entusiasmo, con più o meno coraggio, gli amministratori, i medici, il personale degli ospedali psichiatrici, iniziarono a constatare che il ruolo di custodi doveva essere superato e si dovevano iniziare pratiche nuove di assistenza.
La timidezza con cui la legge Mariotti affrontava il problema di fondo della psichiatria provocò comunque una grande delusione. L’Associazione sindacale dei Medici degli Ospedali psichiatrici (AMOPI) lo esplicitava pubblicamente denunciando il mantenimento della psichiatria separata dal resto della sanità pubblica, il rifiuto di attribuire all’assistenza mutualistica la cura della malattia mentale, la subordinazione dell’assistenza territoriale all’assistenza ospedaliera. Il vero problema di questa legge che modificava qui e là qualche difficoltà più urgente era però più complesso e esterno alla psichiatria. L’Italia aveva urgente bisogno di un riordino complessivo dell’assistenza sanitaria e il progetto di riforma non riusciva neppure a essere tracciato a grandi linee.
Ma la più grande delusione della legge Mariotti fu la mancata abolizione di quella dizione odiosa e violenta che permetteva il ricovero psichiatrico se si era «pericolosi per sé o per altri» o si dava «pubblico scandalo». Una norma che lasciava il campo libero agli abusi e alle sopraffazioni di tutori dell’ordine, amministratori o giudici moralisti e bacchettoni mentre l’Italia era scossa da una ondata di rinnovamento dei costumi e delle relazioni interpersonali, generata dal sessantotto.
L’esasperazione di fronte all’inadeguatezza della riforma non poteva che radicalizzare lo scontro nella psichiatria così come si stava radicalizzando lo scontro nella società. A fronte di norme stupide e vecchie si rispondeva con un tutto è possibile che avrebbe condotto a una ideologizzazione della lotta antimanicomiale. Ebbero allora lo spazio per radicarsi le ideologie più oltranziste per la psichiatria e l’interpretazione più in voga divenne la teoria del controllo sociale.
Certo, la psichiatria era utilizzata anche per questo, ma non era solo questo o non era per lo più questo. La constatazione che la psichiatria era una scienza medica, forse per certi aspetti poco scientifica, ancora grossolana ma pur sempre scienza medica, sfuggiva ai più che invece la definivano per i suoi aspetti più evidenti e esteriori, la segregazione, l’abuso, la violenza. Nell’impazzimento ideologico generale si giunse in quegli anni a gambizzare gli psichiatri che si ritenevano servi del controllo sociale così come si sparava sui poliziotti, sui magistrati, sui politici.
Lo stesso Basaglia fu aggredito durante un convegno a Trieste.
Sono così entrati nell’immaginario comune una idea di psichiatria violenta, prevaricatrice, illiberale e, nel contempo, si è resa mitologica l’esperienza anti istituzionale di Franco Basaglia.
Nessuno però ha il coraggio di dire che Franco Basaglia con la legge 180 non c’entra molto. A onor del vero la legge fu scritta e fermamente voluta da un meno conosciuto Bruno Orsini, deputato democristiano e psichiatra, che trovò il modo di evitare un referendum che rischiava di rendere impossibile il superamento della vecchia legge del 1904.
I fatti sono noti: nel 1978 I radicali avevano raccolto le firme per un referendum abrogativo della legge del 1904, era molto probabile che in caso di effettivo ricorso alle urne il quesito referendario sarebbe stato respinto. Diventava allora impossibile inserire la psichiatria nel nuovo servizio sanitario nazionale che era in fase di approvazione in parlamento. Il rischio era tale che nonostante la situazione di emergenza nazionale determinata dal rapimento di Moro, si ricorse ad una rapidissima approvazione di quei pochi articoli di legge che costituivano la legge 180.
Sei mesi dopo la legge 180 scompariva per essere inclusa nella «legge di Riforma sanitaria». La psichiatria entrava di diritto nel servizio sanitario al pari di ogni altra specialistica medica e per conseguenza il cittadino malato mentale acquisiva gli stessi diritti di ogni altro cittadino malato. Sembra paradossale ma a trenta e passa anni dalla legge di riforma sanitaria si continua a parlare di 180 come se fosse una legge ancora vigente e a rischio di essere abrogata. E si continua a parlare di esclusione e potere psichiatrico.
E’ di uso comune tra i difensori della legge Basaglia continuare a utilizzare una terminologia sociologico-filosofica mutuata dalle ideologie del 68 e allarmarsi ad ogni iniziativa che si proponga di intervenire sulle regole che organizzano l’assistenza psichiatrica.
Sembra che il vetero sessantottinismo si sia concentrato attorno alla materia psichiatrica come fosse l’ultimo baluardo prima della definitiva sconfitta. Si tenta di difendere qualcosa che non è più la riforma dell’assistenza psichiatrica ma qualcosa di più radicale e significativo. Dobbiamo allora pensare che il significato della 180 non è stato solo una riappropriazione di dignità sociale da parte dei malati e un riconoscimento di diritti ma il significato abbia travalicato l’ambito psichiatrico per rappresentare simbolicamente una conquista più generale della società.
La 180 è stato il simbolo delle lotte libertarie degli anni successivi al 68. Assieme alla legge sull’aborto, alla vittoria nel referendum abrogativo del divorzio, la 180 personifica un periodo di conquiste di libertà individuali che ha trasformato profondamente la nostra società. Ma se il divorzio e l’aborto sono leggi che riconoscono reali libertà individuali, esigenze di vita concreta, alla legge 180 si attribuisce un significato più ideologico che reale. La legge 180 è divenuta il simbolo di una rivoluzione libertaria in cui i malati psichici per il solo fatto di uscire dalle mura del manicomio, per incanto divenivano esseri umani normali. Coloro che hanno acriticamente sposato le tesi delle lotte anti-istituzionali hanno divinizzato la parola libertà non rendendosi conto o non avendo sufficientemente studiato e parlato con i malati per capire che la malattia mentale toglie la libertà personale, impedisce di decidere, obbliga a decidere in un solo modo, delirantemente.
Hanno creduto in un procedimento catartico che di un colpo risolveva l’irrisolvibile, la malattia mentale. Sparivano le centinaia di anni passati a cercare di capire cosa fosse la malattia mentale e quale potesse essere la sua cura. Si trovava la soluzione in un banale prendersi cura che avrebbe sciolto ogni difficoltà diagnostica e terapeutica.
Non sono state poche le accuse che in questi anni sono state rivolte ai medici che opponendosi a questa stupida equazione hanno continuato a percorre la strada della ricerca della cura. Nessuno, giornalisti, politici, amministratori, si è accorto che dietro questa ubriacatura collettiva si perdeva l’occasione di occuparsi realmente dei malati. Nessuno ha voluto accorgersi che in realtà la liberazione dei matti non aveva altro risultato che mantenerli per sempre nella loro malattia. Lo dimostra il dibattito attuale nella psichiatria italiana che è sempre più consapevole del problema della nuova cronicità: giovani che all’esordio della loro malattia non trovano altra risposta dai servizi che una lenta presa in carico per una assistenza lungo tutta la loro vita e nessuna cura per la guarigione. Ma la guarigione è per i parabolani della 180 una parola esecrabile, indicibile come lo è la parola cura se non è preceduta dalla parola prendersi. Hanno creduto di essere i rivoluzionari degli anni settanta e si ritrovano ad essere i reazionari del 2010.
Il risultato che ne è derivato, è che ancora adesso la popolazione non sa come affrontare la malattia mentale, perché gli hanno detto che non esiste. Si sono chiusi piu’ di 100 manicomi e si sono aperte centinaia di case di cura e cliniche gestite in gran parte da ordini religiosi, divenute di fatto piccoli manicomi per ricchi e sono stati lasciati per strada non meno di 60 mila malati. Le famiglie, su cui grava oggi tutto il peso e l’onere, non si rivolgono ai servizi perché gli viene risposto che i malati devono essere liberi di chiedere l’assistenza e intanto la malattia si cronicizza. I servizi psichiatrici sono sottodimensionati perché il loro compito istituzionale è stato ridotto all’assistenza più sociale che sanitaria visto che la malattia non è malattia ma solo una disabilità. La cura è limitata alla somministrazione di psicofarmaci e la psicoterapia non trova che spazi ridottissimi.
E di fronte a questa situazione ci si continua a pavoneggiare in dibattiti, conferenze, esercizi intellettuali con la convinzione che chi si nasce sotto Saturno, è solo diverso, è nato così, e lo si condanna alla sofferenza per tutta la vita. Ottusamente non si vuole indagare se è proprio vero che siamo tutti nati matti, o invece è questo modo di pensare che fa diventare matti.
Andrea Piazzi
Psichiatra, Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, Ospedale di Tivoli, ASL RM G.


Forum



Franco Basaglia e la rivoluzione psichiatrica italiana
30 giugno 2010, di CRISTINA
"L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"
SONO MADRE DI UN RAGAZZO CHE ALL’ETA’ DI 19 ANNI,DOPO LA MATURITA’ E’ LETTERALMENTE IMPAZZITO:SENTIVA LE VOCI E DICEVA COSE SENZA SENSO. LO ABBIAMO PORTATO AL CENTRO DI IGIENE MENTALE E L’UNICA COSA CHE GLI HANNO FATTO E’ STATA QUELLA DI DARGLI GLI PSICOFARMACI.DI PSICOTERAPIA NON SE NE PARLA PROPRIO, AL MASSIMO DEI COLLOQUI SUPERFICIALI CHE NON AFFRONTANO LA PATOLOGIA DEL PENSIERO LATENTE NON COSCIENTE.INFATTI LA MALATTIA NON STA NEL PENSIERO RAZIONALE MA IN QUELLO NON COSCIENTE CHE SI MANIFESTA NEI SOGNI, E QUINDI SENZA L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI NON CI PUO’ ESSERE CURA.E CHI LA SA FARE L’NTERPRETAZIONE DEI SOGNI? DALLE RICERCHE CHE HO FATTO HO CAPITO CHE MASSIMO FAGIOLI CON LA SCOPERTA DELLA PULSIONE DI ANNULLAMENTO HA TROVATO LA VERA CAUSA DELLA MALATTIA MENTALE E CHE CON L’ANALISI COLLETTIVA HA CURATO MIGLIAIA DI PERSONE INTERPRETANDO LORO I SOGNI.SCRIVENDO A MASINI IL DIRETTORE DELLA RIVISTA "LE ALI DELLA FARFALLA" MI HA RISPOSTO CHE GLI PSICOFARMACI DEVE CONTINUARE A PRENDERLI E CHE MI POTEVA DARE GLI INDIRIZZI DI ALCUNI PSICHIATRI A ROMA A PAGAMENTO. SICCOME,ABITANDO LONTANO DA ROMA, NON MI POSSO PERMETTERE NE’ LA SPESA X IL VIAGGIO NE’ QUELLA X LO PSICHIATRA,VORREI SAPERE COME POSSO FARE.

  • risposta a "l’interpretazione dei sogni"
    4 agosto 2010, di nicoletta
    Fra pochissimi mesi sarò una psicologa. Passando per questo sito mi ha colpito molto la richiesta di aiuto di questa madre, ma ciò che ancor di più mi sconforta è che non sembra aver ricevuto alcuna risposta. Io non sarò certo in grado di darle grandi consigli, e spero che di questo se ne occupino ad esempio quegli stessi psichiatri che con tanto ardore scirvono grandi articoli su grandi riviste o pubblicano i loro saggi su siti dedicati.Non mi stupisce purtroppo che l’unico approccio che suo figlio ha conosciuto in un CSM sia quello farmacologico. Ed inorridisco al pensiero che l’unica soluzione possa essere quella di pagare più soldi per avere un servizio migliore, come si trattasse di una prestazione qualunque, tuttavia questa è spesso la cruda realtà dell’assistenza sanitaria, e quindi anche psichiatrica, nel nostro paese e non solo. Nell’approccio alla malattia mentale, purtroppo o per fortuna,non c’è una soluzione unica per tutti i tipi di pazienti. L’analisi del contenuto inconscio dei sogni, individuale o di gruppo, è solo una delle possibili vie di accesso alla sofferenza dell’individuo. Premetto che quanto le dirò è solo ed esclusivamente nell’intento di portarle un minimo di conforto, e che non si tratta affatto di un parere professionale, per evidenti motivi tecnici, e perchè non è pensabile che lo sia una semplice risposta su un sito internet, che riguardi un essere umano. Non importa in quale particolare metodo psicoterapeutico è specializzato il sanitario che prenderà in cura suo figlio (naturalmente si intende che debba trattarsi pur sempre di pratiche approvate dalla comunità scintifica internazionale e certificate), ma le consiglio di rivolgersi, ad uno psicologo-psicoterapeuta (che anche privatamente le costerà comunque meno di uno psichiatra), che si occuperà di ascoltare i problemi di suo figlio, mentre parallelamente continuerà ad essere seguito dallo psichiatra del CSM. Se non altro le ho dato ascolto. I miei auguri più sinceri. Nicoletta

  • risposta a "l’interpretazione dei sogni"
    4 agosto 2010, di Altritaliani
    Grazie Nicoletta da parte della squadra di Altritaliani per queste righe. Avevamo inoltrato ovviamente il messaggio di questa madre che ci ha commosso al dottore Andrea Piazzi. Purtroppo non ha risposto e ne eravamo dispiaciuti. Lei lo sa tuttavia quanto è difficile su internet dare consigli personali, cosi importanti per un ragazzo, una famiglia, senza essere superficiali. Noi, non eravamo in grado di farlo. Grazie ancora.

risposta a "l’interpretazione dei sogni"
4 settembre 2012, di farenheit-451
Sono stato per due anni in un gruppo di psicoterapia di un adepto di Massimo Fagioli e l’esperienza è stata devastante, ancora dopo anni dall’interruzione volontaria da parte mia subisco gli effetti deleteri che quei due anni buttati hanno avuto sulla mia vita.
Nel web sono presenti alcuni forum di critica a Massimo Fagioli e ai suoi terapeuti. Il più importante è sicuramente quello di Antonello Armando: www.antonelloarmando.it o anche www.nicolalalli.it
E’ stato anche scritto un libro da questo forum di discussione: Il paese degli smeraldi a cura di Armando e Seta Edizioni Mimesis.
Ad ogni modo, ripeto: NON ANDATE DA PSICOTERAPEUTI CHE SEGUONO MASSIMO FAGIOLI! E’ UNA SETTA DI PERSONE MALATE DI MENTE CHE DISTRUGGERANNO LA VOSTRA VITA E LA VOSTRA INDIVIDUALITA’. DOVREBBERO ESSERE MESSI IN GALERA LORO E MASSIMO FAGIOLI. FANNO DI TUTTO PER SEDURRE E CIRCUIRE PERSONE CHE SI TROVANO IN UN MOMENTO DI DIFFICOLTA’ PER AUMENTARE GLI AFFILIATI ALLA SETTA E OVVIAMENTE SPILLARE LORO UNA QUOTA NOTEVOLE DI DENARO.
Se non siete convinti voglio farvi leggere la recensione a un bel libro che mette in luce i meccanismi delle psicoterapie dannose, le cosidette psicoterapie folli: Psicoterapie «Folli». Conosc Psicoterapie «Folli». Conoscerle e difendersi di Thaler Singer Margaret; Lalich Janja, 1998, Centro Studi Erickson.
La recensione potete trovarla al link: http://xenu.com-it.net/txt/folli.htm
Sono molti gli elementi in comune con la psicoterapia fagioliana.
Sarei curioso di sapere cosa ha da dire in merito il dottor Piazzi, anch’egli fagioliano. Soprattutto se a parte le belle parole dell’articolo su Basaglia, non è costretto poi a pensare, come vuole il Maestro Fagioli, che il grande psichiatra fenomenologo scomparso:"è un poveretto, un delirante e infatti gli è anche venuto il tumore al frontale".
Non fatevi ingannare dalle sirene!