Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

martedì 11 febbraio 2014

Troppa (o poca) Filosofia... Wittgenstein contro Popper (o viceversa)


Quella volta che Wittgenstein prese l'attizzatoio e si scagliò contro Popper
di Guido Marenco

Kant, Popper, liberalismo, comunismo, democrazia, Bobbio: queste le parole attorno alle quali si sta macinando dalle nostre parti. Sono parole che hanno un senso perché la comunità dei parlanti e dei leggenti che ci frequenta, più o meno ne intende il significato e l'uso corretto, nonché la rilevanza ed anche il sottinteso.
Ma fuori del "giro", ho qualche dubbio che se dici "teoria kantiana della conoscenza" qualcuno capisca che intendi. E con questo siamo a Wittgenstein, seconda fase, il Wittgenstein che riconobbe esserci espressioni che hanno un senso anche se non vengono da osservazioni della realtà, se non descrivono un segmento del mondo, ma si riferiscono ad un sapere memorizzato nei libri, od una costruzione intellettuale complessa quale l'ideale della ragione di cui parla Kant.
Il gioco a cui giochiamo, direbbe ancora Wittgenstein, non richiede particolari autorizzazioni alla ragione od al senso comune. Richiede solo di rispettare le regole grammaticali e logiche di esposizione. Di ciò di cui nessuno parla a ragion veduta fuori di questa sala-giochi, non è detto che si deve tacere. Che è pressappoco la conclusione cui giunsi molti anni fa pur'io, riconoscendo il che senso ha parlarne , visto che mi sono comunque trovato costretto a chiedermi: "che senso ha parlarne?"

Parlarne?
Ma nell'ottobre del 1946, finita la seconda guerra mondiale da un bel po', in un salotto del Moral Science Club di Cambridge, Ludwig Wittgenstein stava per scagliarsi contro Popper con un attizzatoio. Fu fermato da un tempestivo intervento di Bertrand Russell, che si tolse la pipa di bocca e disse: "Wittgenstein, posi immediatamente quell'attizzatoio."
Altro che parlarne!
Non era una normale disputa tra filosofi. O forse lo era. Nella sua totale anormalità, anche il filosofo ridiventa normale, fin troppo, quando viene toccato nel profondo, provocato, scosso, ridicolizzato. Perde il controllo e la dignità (ma forse, quella crede di averla già persa) e sente il bisogno di una scarica liberatoria.
Ma non generalizziamo. La maggioranza dei filosofi, per carità, è sicuramente gentile ed amabile, conosce le regole del gioco, sa che anche la polemica più aspra non deve ricorrere ai corpi contundenti per argomentare. Però... però mi sa che quella sera la posta in gioco fosse un poco più alta, non era solo un confronto di opinioni. E Wittgenstein la visse come una sfida mortale contro un avversario perfido e malvagio. Capire perché credo sia quasi impossibile, se nemmeno nelle testimonianze (quella di Peter Munz, ad esempio) si opera una ricostruzione esatta dei fatti e delle parole che furono dette.
Ho idea che Popper abbia offeso Wittgenstein rimprovendogli il fisicalismo della scuola di Vienna, in pratica rimproverandogli di essere ancora quello che non era più. Ed anche probabile che Popper non si sia limitato ad un uso garbato dei termini: nel gioco a cui stavano giocando dare del fisicalista a qualcuno era come dare del laziale a sor Annibale in un bar della Garbatella. O come dare del finocchio ad un tizio vestito di piumini e brillantini al raduno del gay pride.

Orbene, lo si sarà capito: Popper mi è sempre stato sui coglioni. Esageratamente. Il bello è che condivido alcune sue idee, forse molte più di quanto di quanto fossi disposto ad ammettere fino a poco tempo fa. Perché mi fa questo effetto pesante e sgradevole? Forse, per un motivo analogo a quello di Wittgenstein, perché anch'io potrei sentirmi accusare di fisicalismo, o persino di empirismo, di deduzionismo e di altri crimini filosofici, ovviamente secondo il codice Popper.
Una volta ammesso che io sia una persona di esperienza, avendo visto e toccato con mano molte cose e molta gente, molti modi di agire, di fare, di ragionare, mi sento in diritto di formulare alcune previsioni, anche negative su come andranno le faccende in certo contesto, ovvero in un certo gioco. Popper, questo diritto me lo ha sempre negato, tacciandomi come determinista oggi, come storicista domani (altro forma di offesa tra le più frequenti), negando quasi ogni forma di legittimità all'esperienza umana concreta, all'osservazione, al ragionamento sull'osservazione accumulata. Francamente non capisco questo livore preconcetto. Ed anche il ricorso a Kant non mi pare corretto, perché Kant ha sempre affidato all'esperienza il fondamento di ogni nostra conoscenza. Ha ragione nel dire che ogni ipotesi deve essere rigorosamente controllata, ma ci avesse detto una volta, in modo chiaro e comprensibile da dove vengono le ipotesi, se ce le manda Dio o l'arcangiolo Gabriello, oppure nascono da associazioni mentali ed alchimie neurali. Con Popper non si sa. E' geniale chi fa ipotesi, è stronzo chi prima di aprir bocca ci pensa su e ricapitola tutto quello che occorre a buttar lì un'ipotesi.

Vi venisse in mente di considerare questo intervento non come un articolo tra i tanti, ma come un attizzatoio, scartate subito l'idea: è solo un boomerang. Se manca il bersaglio me lo ritrovo sul grugno, ahi che dolor... 


Da "http://www.violettanet.it/poesiealtro_autori/POPPER_2.htm" :

Karl Popper quando Wittgenstein lo minacciò...
di Dario Antiseri

La posizione di Popper nei confronti della metafisica non mancò di suscitare perplessità tra i neopositivisti. Queste critiche, però, non turbarono Popper, il quale, a cominciare dal 1949 se non prima, usò nelle sue lezioni l'espressione «programma di ricerca metafisico». Nel frattempo, all'inizio dell'anno accademico 1946-47, Popper aveva ricevuto un invito dal segretario del Moral Sciences Club di Cambridge perché leggesse un saggio su di qualche «perplessità filosofica». «Era chiaro - scrive Popper nella sua autobiografia intellettuale La ricerca non ha fine - che si trattava di una formulazione di Wittgenstein, secondo la quale in filosofia non esistono problemi genuini, ma soltanto perplessità linguistiche». Decisamente contrario a questa tesi, Popper accettò la sfida; scelse di parlare sul tema "Ci sono problemi filosofici?"; e iniziò il suo discorso, in modo un po' scherzoso, facendo presente che, negando l'esistenza di problemi filosofici, chiunque avesse scritto l'invito, aveva preso posizione su di una questione creata da un genuino problema filosofico. «Ma proprio a questo punto - ricorda Popper - Wittgenstein saltò su e disse, ad alta voce e così mi parve, con rabbia: "Il Segretario ha. fatto esattamente ciò che gli è stato detto di fare. Egli ha agito su mia istruzione". Io non ci feci caso, e continuai; ma accadde che almeno alcuni fra gli ammiratori di Wittgenstein, tra i presenti, se ne accorsero, e di conseguenza presero la mia osservazione, intesa come uno scherzo, come un grave rimprovero al Segretario».
In ogni caso, Popper andò avanti, affermando che, se non esistevano problemi filosofici, egli di certo non poteva essere un filosofo; e aggiungendo che, siccome tanti, o forse tutti gli uomini, si affidano in maniera sconsiderata e acritica a soluzioni insostenibili per tanti o forse tutti i problemi filosofici, è allora sufficientemente giustificata l'esistenza di filosofi. Ma ecco che Wittgenstein salta
su un'altra volta, interrompe Popper e parla a lungo sulle perplessità linguistiche e sulla non-esistenza dei problemi filosofici. Di nuovo, Popper: «Al momento che mi sembrò più
opportuno fui io ad interromperlo, presentando un elenco da me preparato di problemi filosofici, come: Conosciamo le cose attraverso i nostri sensi? Otteniamo la nostra conoscenza per l'induzione? Wittgenstein li respinse, dicendo che erano problemi logici piuttosto che filosofici. Posi allora il problema se esista l'infinito potenziale o forse anche quello attuale, un problema che egli respinse come matematico. Ricordai quindi i problemi morali e il problema della validità delle norme morali. A questo punto Wittgenstein, il quale sedeva vicino al caminetto e giocava nervosamente con l'attizzatoio che talvolta usava come bacchetta da direttore d'orchestra per sottolineare le sue affermazioni, mi lanciò la sfida: "Dai un esempio di una regola morale!". Lo replicai: "Non minacci conferenzieri ospiti con gli attizzatoi". Dopo di che Wittgenstein, infuriato, gettò giù l'attizzatoio e se ne andò adirato dalla stanza, sbattendo dietro di sé la porta».
Popper è pronto a riconoscere di essere andato a Cambridge con la speranza di provocare Wittgenstein e di combatterlo sulla tesi per cui non esisterebbero problemi filosofici autentici. Tuttavia, egli confessa che fu per lui una sorpresa il dover constatare che Wittgenstein era stato incapace di capire uno scherzo. «Solo più tardi - ammette Popper - mi resi conto che forse egli capì veramente che io scherzavo e che fu proprio questo ad offenderlo. Ma, anche se avevo voluto affrontare il mio problema in modo alquanto scherzoso, prendevo la cosa con la massima serietà, forse ancor più dello stesso Wittgenstein, giacché, dopo tutto, egli non credeva in problemi filosofici genuini».
Wittgenstein, dunque, lascia la sala; ma la discussione prosegue. Bertrand Russell fu uno degli interlocutori di maggior spicco; e Braithwaite si complimenta con Popper , dacché Popper era stato «l'unico che si fosse azzardato ad interrompere Wittgenstein allo stesso modo in cui Wittgenstein era solito interrompere chiunque altro». Il giorno seguente, durante il viaggio di ritorno da Cambridge a Londra, nello scompartimento del treno Popper trova due studenti, un ragazzo che leggeva un libro e una ragazza che leggeva un giornale di sinistra. «All'improvviso la ragazza chiese: "Chi è questo Karl Popper?". E il ragazzo replicò: "Mai sentito parlare". Ecco la fama. (Poi venni a sapere che nel giornale c'era un attacco a La società aperta). La storia dell'incontro al Club delle scienze morali non finì, comunque, sul treno da Cambridge a Londra; «divenne quasi subito oggetto di discorsi fatti a vanvera». Così ricorda Popper - «a breve distanza di tempo fui sorpreso nel ricevere una lettera dalla Nuova Zelanda, in cui mi si chiedeva se fosse vero che Wittgenstein ed io eravamo venuti alle mani, entrambi armati di attizzatoi. Più vicino a casa le storie erano meno esagerate, ma non tanto».

La Repubblica


Su "http://www.swif.uniba.it" :

Quando Wittgenstein sfidò Popper a colpi di attizzatoio

Cronaca di una contesa non solo teorica, nelle aule di Cambridge, tra i due pensatori rivali, entrambi convinti di essere il punto terminale della storia della filosofia.

Provate ad immaginarvi questa scena: il 25 ottobre 1946, nell´aula 3 della scala H del King´s College di Cambridge, davanti ad un nutrito uditorio di specialisti e curiosi, su invito del Moral Sciences Club, il filosofo austriaco Karl Raimund Popper tiene una conferenza sulla reale entità dei problemi filosofici; ad un certo punto, il presidente del club che lo ospitava, Ludwig Wittgenstein, convinto che non esistessero effettivi problemi filosofici ma soltanto banali rompicapo linguistici, brandisce l´attizzatoio del camino con fare minaccioso nei confronti di Popper ed esce sbattendo fragorosamente la porta.

Questa scena deve aver dapprima attratto, poi ossessionato, due giornalisti della Bbc, David Edmonds e John Eidinow, che hanno scrupolosamente ricostruita La lite di Cambridge, seguendo differenti piste e testimonianze, conducendo una specie di indagine poliziesca che avrebbe dovuto approdare a qualche risultato certo. La premessa è che i nostri intraprendenti autori diffidano dell´unica versione ufficiale di quell´episodio, quella fornita dallo stesso Popper nell´autobiografia dal titolo La ricerca non ha fine; il filosofo austriaco, docente alla London School of Economics, che aveva da poco pubblicato la celebre opera La società aperta e i suoi nemici, racconta che all´invito per la conferenza era sottesa una provocazione dello stesso Wittgenstein, il quale peraltro, forse mentendo, affermava di non conoscere minimamente il signor Popper. L´ospite decide di accettare la sfida, convinto che l´identità del filosofo è tale soltanto qualora creda davvero all´esistenza di problemi filosofici e che, di conseguenza, chi nega tale presupposto - come faceva Wittgenstein - costituisce una minaccia per la filosofia; così pone le seguenti domande: conosciamo il mondo esterno attraverso i sensi? conseguiamo certezze mediante l´induzione? esistono norme morali universalmente valide?, esempi cioè di questioni ricorrenti nella tradizione filosofica da Aristotele a Kant. A quel punto, Wittgenstein perde le staffe, armeggia con l´attizzatoio rovente, inveisce contro l´ospite, lo sfida ripetutamente e, piuttosto che argomentare razionalmente a favore delle proprie tesi, lascia la stanza sbattendo la porta. Popper trae la conclusione esplicita che Wittgenstein non fosse capace di accettare uno scherzo o una polemica, nonché quella implicita che, sottraendosi ad un civile confronto, venisse meno ai più elementari principi di deontologia professionale; poi, colto da un attacco di narcisismo sfrenato (la patologia più diffusa tra i filosofi), ribadisce la convinzione che esistano davvero problemi filosofici e "perfino che alcuni io li abbia risolti", alludendo con ogni probabilità al problema dell´induzione risolto mediante il criterio di falsificazione (quello che mise in crisi il verificazionismo del Circolo di Vienna, che allora parteggiava per il Wittgenstein del Tractatus); inoltre sostiene che lo spirito della filosofia del linguaggio ordinario (quella propiziata dal secondo Wittgenstein) è inevitabilmente conservatore, perché fa perno su quel senso comune rivalutato qualche decennio prima da G. E. Moore (il quale oggi, tra l´altro, appare il filosofo più influente), il cui uso quotidiano non ne decreta la validità, anzi limita lo sviluppo del senso critico.

Infine, il fautore del razionalismo critico sale sul treno che lo riporterà a Londra e scopre, nello stesso scompartimento, che due ragazzi stanno parlando proprio di lui, del suo ultimo libro che condannava ogni totalitarismo; bottino pieno dunque: la fama era arrivata, dopo aver nel 1934 demolito il primo Wittgenstein (quello dell´atomismo logico) e nel 1946 il secondo Wittgenstein (quello dei giochi linguistici). Ciò che Popper combatteva - sostengono i giornalisti inglesi - era l´enfasi sul linguaggio posta da Wittgenstein e dai suoi zelanti seguaci; nel 1970 confessava di aver trovato le Ricerche filosofiche "mortalmente noiose" perché precludono la possibilità di dissentire, mentre dal canto suo Bertrand Russell - forse il regista occulto e malizioso di quella serata - considerava le dottrine wittgensteiniane, alcune banali, altre infondate. L´indagine svolta in questo libro non contiene ipotesi interpretative degne di nota, si limita a riportare idee filosofiche di seconda mano e si dilunga inutilmente in una serie di aneddoti e ricostruzioni del background storico-culturale che difficilmente si traducono in congetture sulla portata teorica del rovente episodio cantabrigiano. Più godibili risultano le pagine da cui emerge il profilo psicologico-caratteriale dei due eminenti filosofi: Wittgenstein tormentato e ansioso, irascibile e arrogante, egoista e insensibile, dogmatico e intollerante; Popper aggressivo e veemente, rude e prepotente, sprezzante e vendicativo. Entrambi, come Hegel, pensavano di costituire il punto terminale della storia della filosofia, l´un credendo di aver risolto i problemi cruciali posti dai predecessori, l´altro forte della convinzione di aver dissolto la ragion d´essere di quegli stessi problemi. Il lettore che riuscirà ad appassionarsi a questa storia dell´attizzatoio potrà legittimamente persuadersi dell´opportunità di occuparsi delle teorie filosofiche ma si guarderà bene dal frequentare i loro ideatori.


Da "http://www.corriere.it/archivio/archivio.shtml" :

DISPUTE:
Un saggio ricostruisce lo scontro fra i due grandi filosofi austriaci, esuli in Inghilterra dopo l' avvento del nazismo. Con un testimone d' eccezione, Bertrand Russell.

Wittgenstein contro Popper. Un duello con l'attizzatoio.

Ludwig spazientito dalla freddezza del rivale. Alla fine il pensatore liberale conquistò la vittoria.

LONDRA - La sera del 25 ottobre 1946, un venerdì, un gruppo di filosofi e studenti di filosofia dell' Università di Cambridge, che si facevano chiamare con il nome impegnativo di Moral Science Club e avevano come capo il celebre Ludwig Wittgenstein, tenne la solita riunione settimanale, nell' aula 3 della scala G del King' s College, per ascoltare un conferenziere e discuterne le tesi. La serata doveva essere interessante, se le sedie della stanzetta con vista sul fiume si rivelarono subito insufficienti, tanto che molti restarono in piedi: era infatti salito da Londra, dove insegnava a contratto alla London School of Economics, un certo Karl Popper, giovane e brillante filosofo austriaco, ebreo, arrivato da poco dalla Nuova Zelanda, dove s' era rifugiato durante la guerra. C' era chi intuiva che non sarebbe stato il normale dibattito accademico, e certo lo sapeva il filosofo più famoso di quei tempi, Bertrand Russell, che si mise in prima fila, vicino al caminetto, per non perdere una parola. Perché tanta curiosità? Perché si sapeva che Popper non condivideva le teorie di Wittgenstein, genio riconosciuto, nume di Cambridge, autore del maestoso e inaccessibile «Tractatus Logico-Philosophicus», pure lui austriaco, pure lui d' origine ebraica, pure lui sfuggito al nazismo. Ma nessuno immaginava che la serata sarebbe passata alla storia - se non altro aneddotica - della filosofia: Wittgenstein e Popper, come gladiatori del pensiero, in singolar tenzone. Con un finale sconcertante e, ancora oggi, avvolto nella leggenda: davvero Wittgenstein minacciò il rivale con un attizzatoio preso dal camino? Davvero, sopraffatto dalla logica di Popper, rimase senza parole, gettò l' attizzatoio e, ammettendo la sconfitta, sbatté la porta? Per sapere come andò a finire bisogna leggere fino in fondo un libro accattivante, «Wittgenstein' s Poker» (L' attizzatoio di Wittgenstein, appunto), scritto da due giornalisti della Bbc, David Edmonds e John Eidinow, che hanno rintracciato i superstiti testimoni della serata e hanno ricapitolato le vite dei rivali come se, per volontà del fato, avessero parallelamente teso verso la clamorosa «disputa di dieci minuti». Perché, in apparenza, il caso è unico nella storia dei dibattiti filosofici, se i precedenti sono ancor più dubbi: chi può giurare che Diogene ridicolizzò Platone, come raccontò sei secoli dopo un altro Diogene (Laerzio), e chi confermerebbe che Duns Scoto fu assassinato a colpi di penna, nel 1308, dagli allievi? In genere, si sa, la filosofia non accende gli animi sino alla violenza fisica. Invece, se davvero quella sera del ' 46 due inconciliabili teste pensanti s' affrontarono, con un vincitore e un vinto, la contesa sarebbe unica. Si capirebbe perché Popper, nell' autobiografia «Unended Quest», scritta negli anni ' 70 quando Wittgenstein era morto da un pezzo, avesse titolo per vantarsene: raccontò che dopo un botta e risposta in cui lui, Popper, aveva trionfato, Wittgenstein aveva preso l' attizzatoio dal caminetto e, brandendolo distrattamente ma certo inferocito, l' aveva sfidato a esprimere una regola morale. «Non minacciare i conferenzieri in visita con gli attizzatoi», dice di avere risposto lo spregiudicato venuto da Londra. E Wittgenstein, irriso davanti ai seguaci, gettò il ferro e, simbolicamente, la spugna. Storia bellissima: ma vera? Secondo il professor Peter Geach, che era nell' aula 3, il racconto di Popper è «falso dall' inizio alla fine». In più, pare che nelle minute del Moral Science Club conservate a Cambridge non ci sia il minimo accenno alla vicenda. Eppure, la conferenza suonava come una sfida già per il titolo scelto da Popper, «Ci sono ancora problemi filosofici?», dove la domanda stessa implicava che almeno un problema rimane. Perciò era evidente la provocazione: se Wittgenstein sosteneva che la filosofia deve solo concentrarsi sullo studio del linguaggio, Popper era convinto che essa debba affrontare le grandi questioni della vita e della morale. Secondo Popper i filosofi costruiscono teorie come gl' ingegneri costruiscono ponti, mentre per Wittgenstein la filosofia tradizionale si riduce a una serie di pseudo-risposte a pseudo-problemi. Unica attenuante: benché già pubblicate in «La società aperta e i suoi nemici», le idee di Popper, di 13 anni più giovane del rivale, erano ancora poco conosciute. Ma è mai possibile che Wittgenstein, preso dai suoi pensieri e dall' arrogante consapevolezza del proprio genio, non avesse capito che la serata poteva rivelarsi una trappola? A dividerli, comunque, c' era il passato. Popper, nato nel 1902, era figlio d' un celebre avvocato che aveva lo studio nel cuore di Vienna, teneva in casa una biblioteca di diecimila volumi, per hobby traduceva classici greci e latini, e in più faceva la beneficenza che gli guadagnò l' Ordine di Francesco Giuseppe: poco credibile che Wittgenstein non conoscesse uno dei borghesi più in vista della città. Impossibile, poi, che Popper non sapesse chi erano i Wittgenstein, la famiglia viennese più ricca dopo i Rothschild, che abitavano un palazzo sulla Alleegasse e vivevano, secondo le parole di Johannes Brahms, «come se fossero a corte». Né il padre di Ludwig coltivava solo musicisti (Mahler, Schoenberg, Webern, Berg...), ma incoraggiava anche pittori e scultori, se Gustav Klimt, per la sua influenza, lo chiamava «il ministro delle belle arti». Gente che stava tutti i giorni sui giornali, nei discorsi mondani e perfino nelle satire di Karl Kraus. Ovvio che tra due tipi così ci fosse rivalità, umana e ideale. Le loro filosofie erano tanto estranee, «come due navi che s' incontrano e si perdono nella notte», da escludersi l' una l' altra. Wittgenstein credeva che la filosofia fosse una sorta di terapia per esorcizzare demoni immaginari, una medicina che vale solo per gli individui: uno può vincere i fantasmi metafisici che lo tormentano, ma altri patiranno ancora. Popper invece faceva della filosofia un' arma nella guerra per la libertà: spiegò a Isaiah Berlin d' avere scritto, con «La società aperta e i suoi nemici», un «libro combattente» contro i totalitarismi, nazismo e comunismo. Un confronto che, a tanti anni di distanza, deve avere prodotto un vincitore. Quale? Popper, riassumono Edmonds ed Eidinow, ha avuto un tale successo che le sue idee sono ormai luogo comune, tanto che non si studiano quasi più: perfino la London School of Economics l' ha dimenticato, e ha convertito il suo ufficio in un gabinetto. Wittgenstein, al contrario, ha raggiunto «il canone filosofico» di Platone, Aristotele e Kant, benché il suo pensiero resti così oscuro che i seguaci «meditano sui suoi testi come studenti del Talmud che divinano saggezza dalla Torah». E il terribile scontro del 25 ottobre ' 46, nell' aula 3G del King' s College? Quello, naturalmente, rimane il segreto meglio conservato della storia della filosofia. Ovvio che Popper volesse provocare Wittgenstein, e pochi dubbi restano sulla complicità di Bertrand Russell, che aveva trovato in Popper un alleato contro lo strapotere del nume di Cambridge. Il confronto, naturalmente, ebbe luogo. E Wittgenstein, esasperato, prese in mano l' attizzatoio: disse qualcosa a Russell, lamentando di essere malinteso. E fu Russell, forse, a replicare: «Sei tu che fai confusione». Si udì una porta sbattere, tutti si ritrovarono a guardare la sedia di Wittgenstein, vuota. Il ferro giaceva accanto al caminetto, inerte. E fu allora che Popper, come rispondendo a una domanda non for [Esplora il significato del termine: mulata, intimò: «Non minacciare i conferenzieri in visita con un attizzatoio». Battuta spiritosa, ma Wittgenstein se n’ era già andato. L’ attizzatoio, ormai raffreddato, fu dimenticato e, presto, buttato via. Perciò, non restano impronte digitali del più furioso diverbio nella storia della filosofia. Il libro: «Wittgenstein’ s Poker: The story of a ten-minute argument between two great philosophers» (l’ attizzatoio di Wittgenstein: la storia della disputa di dieci minuti tra due grandi filosofi), è pubblicato dall’ editore Faber, pagine 267, euro 17,60 Altichieri Alessio Pagina 37 (15 febbraio 2002) - Corriere della Sera] mulata, intimò: «Non minacciare i conferenzieri in visita con un attizzatoio». Battuta spiritosa, ma Wittgenstein se n' era già andato. L' attizzatoio, ormai raffreddato, fu dimenticato e, presto, buttato via. Perciò, non restano impronte digitali del più furioso diverbio nella storia della filosofia. Il libro: «Wittgenstein' s Poker: The story of a ten-minute argument between two great philosophers» (l' attizzatoio di Wittgenstein: la storia della disputa di dieci minuti tra due grandi filosofi), è pubblicato dall' editore Faber, pagine 267, euro 17,60

Altichieri Alessio

Pagina 37
(15 Febbraio 2002) - Corriere della Sera

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