Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

venerdì 28 marzo 2014

Problemi allo Specchio

Da "http://utenti.quipo.it/base5/index.htm" :

1. Il paradosso dello specchio
Perché lo specchio, che inverte la destra con la sinistra, non inverte anche l'alto con il basso?
A partire da Dudeney, 1932, questo problema si trova dappertutto: dai giornali di enigmistica ai testi di fisica e forse anche in qualche rivista di filosofia.


2. Chiodi allo specchio
Come mai certe parole, come "AMBULANZA", viste allo specchio appaiono invertite...


...mentre altre parole, come ad esempio "CHIODI" non appaiono invertite?


Provare per credere. Ma ci vuole una piccola accortezza...

3. Come sei fatto/a veramente?
Lo specchio inverte la destra con la sinistra, ma...
E' possibile fare in modo da vederci riflessi allo specchio esattamente come siamo?




Risposte & riflessioni


1. Il paradosso dello specchio

Risposta inviata da Lorenzo Navari
Il paradosso è creato dalla confusione tra soggetti ed azioni che sono scambiati.
Si vuole attribuire allo specchio un'azione che invece compie l'uomo.
Dunque lo specchio NON INVERTE, piuttosto RIFLETTE e.... riflette l'alto in alto, la destra a destra la sinistra a sinistra ed il basso in basso.
L'azione dell'invertire la fa l'uomo che vede nell'immagine riflessa un altro uomo, posizionato di fronte a se stesso e quindi gli assegna gli attributi di destra e sinistra invertendoli.

Facciamo un esercizio:

Se un uomo prova a sdraiarsi davanti allo specchio, conservando una posizione frontale e quindi ponendo, per esempio, i piedi a sinistra e la testa a destra con un fianco in alto e l'altro in basso.
Risulteranno comunque invertiti, nella testa dell'uomo, gli attributi destra/sinistra dell'immagine riflessa che, nel caso, sono posizionati anch in alto ed in basso.

Allora si può dire che se la parte in alto del soggetto che si specchia è la parte sinistra, nello specchio egli vedrà in alto la parte destra e così pur non potendo invertire l'alto con il basso abbiamo potuto spostare l'alto da sinistra a destra.
Ma forse adesso stiamo entrando nel campo della politica ?
Lo stesso vale se si compie l'esercizio chiudendo un occhio che invece in politica significa 'ammiccare'.

Risposta inviata da Rocco Si
Ma lo specchio di fatto inverte ANCHE il basso e l'alto!!
Ci sono 2 modi per posizonarsisi dalla parte dello specchio:

a) ruotare di 180 orizzontalmente,sinistra e destra risultano invertite

Se tengo nella mano destra un gelato e ruoto con asse verticale, anchel'immagine ruota e il gelato lo tiene sempre nella sinistra.

b) ruotare di 180 VERTICALMENTE(!)alto e basso risultano invertiti destra e sinistra invece no!

Quello che lo specchio inverte, dipende dal modo in cui cerchiamo di metterci dalla parte dello specchio!

Ci sarebbe anche un terzo modo......avanzare semplicemente, risulterebbero invertiti il davanti e il di dietro!
Quando io dico di ruotare, intendo muoversi idealmente mentre l'immagine dello specchio rimane fissa........
Dunque, perchè noi diciamo che lo specchio inverte destra e sinistra?
Perche se noi ruotiamo IDEALMENTE per metterci dal lato dello specchio, la nostra persona avrebbe destra e sinistra invertite rispetto all'immagine.... questo se noi IDEALMENTE ruotiamo orizzontalmente x metterci dalla parte dello specchio. Quello è UN modo!
Ma se noi, per porci dalla parte dello specchio(cioè di fronte a noi) ruotiamo VERTICALMENTE, ci troveremo dalla parte dello specchio con la testa in giù, quindi la nostra persona reale si troverebbe ad avere alto e basso invertiti rispetto all'immagine presente nello specchio che noi manteniamo idealmente fissa.
Se infine noi per porci al posto dello specchio,non ruotiamo, ma semplicemente avanziamo, avremo il davanti e il didietro "invertiti" rispetto all'immagine ma quest'ultima è piuttosto uno scherzo.... :)

2. Chiodi allo specchio

Francesco Veneziano
Per vedere CHIODI allo specchio è sufficiente porre lo specchio perpendicolarmente rispetto al foglio, al di sotto della scritta, in modo da vederla simmetrica rispetto a una retta orizzontale.

N.d.R.
Precisando meglio si può dire che le lettere come:
C, D, E, H, I, O che hanno un asse di simmetria "orizzontale", se vengono capovolte e poste davanti ad uno specchio danno un'immagine uguale alla lettera di partenza non capovolta.
Quali altre parole italiane si possono costruire con quelle lettere?

3. Come sei fatto/a veramente?

Rocco Si

Bisogna usare 2 specchi e invertire l'invertito...diciamo così.

Francesco Veneziano
Per vedersi allo specchio così come gli altri ci vedono si possono utilizzare due specchi piani disposti perpendicolarmente.


Da WikiPedia:

Lo Specchio: inversione destra-sinistra


Contrariamente a quanto creduto comunemente, lo specchio non capovolge le immagini da destra a sinistra e viceversa, ma tra fronte e retro.
I raggi di luce riflessi sono capovolti nella loro direzione ma il loro moto verso destra o sinistra oppure verso l'alto o il basso rimane inalterato.
Il motivo per cui percepiamo l'inversione destra-sinistra è che l'immagine virtuale essendo un enantiomero dell'immagine reale differisce da essa per l'inversione di uno qualsiasi degli assi.
Anche se nel caso particolare dello specchio l'asse invertito è quello fronte-retro la nostra struttura fisica grossolanamente simmetrica rispetto all'asse destra-sinistra ci porta ad associare l'inversione all'asse sbagliato.
È possibile uscire dall'illusione, rompendo la grossolana simmetria destra-sinistra, tenendo due oggetti diversi nelle mani destra e sinistra, ad esempio un cubo nella destra e una sfera nella sinistra; ora, mettendosi davanti a uno specchio apparirà chiaro come gli assi cubo-sfera e piedi-testa non vengano variati dalla riflessione, e come sia l'asse fronte-retro a essere invertito.
È facile anche confutare la vecchia, ma sbagliata, argomentazione secondo la quale l'inversione sinistra-destra sia dovuta all'allineamento orizzontale degli occhi.
Basta porsi davanti a uno specchio con un occhio chiuso per scoprire come il numero e la posizione degli occhi sia ininfluente.
Inoltre, secondo questa argomentazione errata, distendendosi davanti a uno specchio sufficientemente ampio si dovrebbe invertire l'alto con il basso, ma è facile verificare che questo non accade.
Si può cercare ulteriore conferma in uno specchio che inverta alto con basso, essendo montato sul soffitto o sul pavimento.
Ironicamente, la posizione dei nostri occhi non ci permette in alcun caso di utilizzare uno specchio che inverta realmente destra e sinistra; questo è invece possibile per i bovini (ad esempio le mucche), e molti altri mammiferi erbivori e uccelli non predatori, che hanno gli occhi posti ai lati della testa.

giovedì 27 marzo 2014

L'elenco dei Carnevali della Matematica

Il Carnevale della Matematica funziona in maniera molto semplice: qualche giorno prima del 14 di ogni mese il blog che si è candidato raccoglie i contributi matematici inviatigli da tutti, e prepara un post unitario che verrà appunto postato il 14 del mese in onore delle prime due cifre decimali di pi greco.
Qui sotto la lista (aggiornata man mano) delle varie edizioni.
Le righe in corsivo non sono ancora state pubblicate, non abbiamo a disposizione la macchina del tempo :-)
Negli ultimi anni è poi sorta l'usanza di dare un tema per il Carnevale, tema che non viene necessariamente seguito dai partecipanti: anche questa è una caratteristica tipica!

[77] 14 settembre 2014:
[76] 14 agosto 2014:
[75] 14 luglio 2014:
[74] 14 giugno 2014:
[73] 14 maggio 2014:Martino Sorbaro
[72] 14 aprile 2014:Popinga
[71] 14 marzo 2014: DropSea
[70] 14 febbraio 2014:Rudi Matematici
[69] 14 gennaio 2014: Matem@ticaMente - Macchine matematiche antiche e moderne
[68] 14 dicembre 2013:Maddmaths! - il tempo
[67] 14 novembre 2013:Il coniglio mannaro
[66] 14 ottobre 2013: Il Post - parole e numeri
[65] 14 settembre 2013: Proooof - La navigazione
[64] 14 agosto 2013: Popinga - tema libero
[63] 14 luglio 2013: Mr. Palomar - Le parole sono importanti
[62] 14 giugno 2013: Popinga - Matematica e genio
[61] 14 maggio 2013: Notiziole di .mau. - Costanti matematiche
[60] 14 aprile 2013: Il gloglottatore - Euclide
[59] 14 marzo 2013: DropSea - il \pi day
[58] 14 febbraio 2013: Rudi Matematici - Quante palle!
[57] 14 gennaio 2013: Matem@ticaMente - Matematica e nuove tecnologie
[56] 14 dicembre 2012: Scienza e musica - Algebra, algebre e storia dell'algebra
[55] 14 novembre 2012: MaddMaths! - Sorprese matematiche
[54] 14 ottobre 2012: Il Post - paradossi
[53] 14 settembre 2012: Rudi Matematici - Matematica della Scuola e Matematica della Crisi
[52] 14 agosto 2012: Mr. Palomar - connessioni, nessi, legami, collegamenti, relazioni...
[51] 14 luglio 2012: Popinga - a) La matematica dello sport, b) La matematica in Francia da François Viéte a Cedric Villani
[50] 14 giugno 2012: Rosalba
[49] 14 maggio 2012: .mau. - numeri strani
[48] 14 aprile 2012: MaddMaths! - il Math Awareness Month
[47] 14 marzo 2012: DropSea - il \pi day
[46] 14 febbraio 2012: Rudi Matematici - matematica e carnevale
[45] 14 gennaio 2012: Matem@ticaMente - Computazione, Storia del Pc e Dintorni
[44] 14 dicembre 2011: Popinga - Storia e storie: libri, personaggi, aneddoti, gossip matematico, evoluzione del pensiero, intoppi, errori.
[43] 14 novembre 2011: Pitagoraedintorni - Da dove proviene la matematica?
[42] 14 ottobre 2011: Il Post - matematica e letteratura
[41] 14 settembre 2011: Proooof
[40] 14 agosto 2011: Popinga
[39] 14 luglio 2011: .mau. - giochi matematici
[38] 14 giugno 2011: MaddMaths! - la matematica nella vita quotidiana
[37] 14 maggio 2011: DropSea
[36] 14 aprile 2011: Rudi Matematici
[35] 14 marzo 2011: Pi greco quadro
[34] 14 febbraio 2011: Rangle
[33] 14 gennaio 2011: .mau.
[32] 14 dicembre 2010:Matem@ticaMente - la "matofobia"
[31] 14 novembre 2010: Science Backstage
[30] 14 ottobre 2010: Popinga
[29] 14 settembre 2010: Rudi Matematici
[28] 14 agosto 2010: Proooof
[27] 14 luglio 2010: Il Post
[26] 14 giugno 2010: Science Backstage
[25] 14 maggio 2010: Matem@ticaMente - la bellezza
[24] 14 aprile 2010: Gravità Zero
[23] 14 marzo 2010: Popinga
[22] 14 febbraio 2010: Rudi Matematici
[21] 14 gennaio 2010: Chartitalia
[20] 14 dicembre 2009: Matem@ticaMente
[19] 14 novermbre 2009: Proooof
[18] 14 ottobre 2009: Science Backstage
[17] 14 settembre 2009: Gravità Zero
[16] 14 agosto 2009: .mau.
[15] 14 luglio 2009: Rudi Matematici
[14] 14 giugno 2009: Matematica 2005 (svanito nella nebbia...)
[13] 14 maggio 2009: Matem@ticaMente
[12] 14 aprile 2009: Gravità Zero
[11] 14 marzo 2009: Marcello Seri
[10] 14 febbraio 2009: Proooof
[9] 14 gennaio 2009:.mau.
[8] 14 dicembre 2008: Matematica 2005
[7] 14 novembre 2008: Marcello Seri
[6] 14 ottobre 2008: Matem@ticaMente
[5] 14 settembre 2008: Rudi Matematici
[4] 14 agosto 2008: Chartitalia
[3] 14 luglio 2008: Matematicamedie
[2] 14 giugno 2008: .mau.
[1] 14 maggio 2008: Proooof

Camus: contro il gioco della menzogna

La figura della madre.
La nostalgia per qualcosa di intravisto. Ma mai incontrato.
Un realista in rotta di collisione con gli intellettuali di destra e di sinistra.

di Mimmo Stolfi

Qualche anno fa uscì anche in Italia un libro di Albert Camus che l'editore francese, chissà perché, aveva tenuto in naftalina per decenni. Si trattava di un'autobiografia in forma romanzata, intitolata Il primo uomo. Lo scrittore francese si tuffava nei ricordi della sua infanzia africana inseguendo un qualcosa che nella sua vita era poi andato perduto: uno stupore, il senso di una possibile felicità. Era un romanzo scritto ad occhi sgranati, come quelli di un bambino, senza troppe preoccupazioni formali, ma con una grande domanda di verità. E forse quel libro, uscito in modo così rocambolesco, è la migliore fotografia di quello che Albert Camus ha rappresentato nella cultura europea: uno scrittore riluttante ad ogni ideologismo, affamato di realtà, e abbarbicato a un bisogno disperato di significato. Se questo tipo di paragoni non fosse un po' arbitrario, potremmo dire che il Camus de Il primo uomo rappresenta per la cultura francese quel che Pavese, il Pavese del Mestiere di vivere, ha rappresentato per quella italiana.

L'infanzia ad Algeri

Ma chi era Camus? È importante partire dall'anagrafe: infatti era nato nel 1913 a Mondovì in Algeria, da una famiglia operaia di umilissime origini. Attorno a lui c'è una madre dolcissima, uno zio sordomuto, un fratello chiuso e scontroso, una nonna severa. Nel romanzo postumo Camus racconta tutti questi personaggi con simpatia e comprensione commossa. Camus amava l'Algeria: nella sua anima povera e semplice ritrovava un po' se stesso. Una figura assente è quella del padre, che morì durante la Prima Guerra mondiale, quando il piccolo Albert aveva solo un anno. E in effetti tutta la vita di Camus si configura come una lunga, costante ricerca di un padre mai conosciuto. Sono bellissime, ad esempio, le pagine de Il primo uomo in cui lo scrittore racconta la sua prima visita, avvenuta a 40 anni, alla tomba del padre, sepolto nel cimitero di guerra di Saint-Brieuc sulla Manica. All'impatto con la tomba di «quello sconosciuto» i suoi sentimenti risultano paralizzati, condizionando persino la prosa. Ma poi un rimpianto struggente gli entra dentro con la naturalezza del respiro e scioglie la sua emotività raggelata in un canto: «Ora gli sembrava che quel segreto che aveva sempre cercato con avidità di conoscere attraverso i libri e le persone, fosse intimamente legato a questo morto, a questo padre ragazzo, a ciò che era stato e era diventato: e di aver cercato lontano ciò che gli era vicino nel tempo e nel sangue». In queste parole si scorge tutto Camus, la sua sincerità di uomo nudo di fronte alla realtà. È questo suo atteggiamento che lo mise in rotta di collisione con gran parte della cultura esistenzialista e progressista francese, pur facendo lui parte di quel mondo e di quella cultura.

Sotto le cicatrici

Camus rinunciava volentieri, quasi per istinto, a vestire i panni da intellettuale: era un perenne dimissionario dal ruolo che la cultura ufficiale, di destra o di sinistra, gli avrebbe volentieri affidato. È un uomo segnato dalla nostalgia per qualcosa di intravisto, ma mai davvero incontrato. Come scrisse una volta - anno 1951 - nei suoi Taccuini: «Gli uomini hanno il volto difficile del loro sapere. Ma altre volte sotto le loro cicatrici appare il viso dell'adolescente che rende grazie alla vita». Così per lo scrittore ritornare e rivivere il primo bacio, i silenzi della madre, la Prima Comunione, le giornate in fabbrica con lo zio significava assaporare una sovrabbondanza di vita e di amore. Il ritorno all'infanzia per Camus non si trasforma mai nella sterile mitologia di un'innocenza perduta, né, tanto meno, in una patetica negazione del male. Egli infatti fu soprattutto un realista. Un realista alla ricerca disperata di uno sguardo nuovo sul reale. Proprio questa sua posizione istintiva lo aveva messo in rotta di collisione con i rigidi e codificati ideologismi che trionfavano attorno a lui. «L'astrazione è il male», scrisse ancora nei Taccuini, «produce le guerre, le torture, la violenza, ecc. Problema: come conservare la visione astratta di fronte al male fisico, l'ideologia davanti alla tortura inflitta in nome di questa ideologia». Come l'eroe del suo più famoso romanzo, Lo Straniero (1942), Camus dichiara allora di essere uno che non sta al gioco: «Se mi chiedono perché il mio personaggio non sta al gioco rispondo che è semplice. Perché si rifiuta di mentire». Mentire, illudendosi che «il silenzio irragionevole del mondo sia all'altezza delle domande dell'uomo». La condizione umana è per Camus una condizione di prigionia. Mentire, come facevano le ideologie, significava negare questo dato di fatto, che lui accettava con dolore. Lui non evase mai da quella prigione, ma ne avvertì sempre la tragica angustia. La sua vita fu tutto un inesausto domandare una via d'uscita.

Orgoglio in briciole

Solo una volta gli capitò di intravedere quella via, e Il primo uomo è la documentazione di quello sguardo stupito che aveva lasciato un segno in un angolo remoto del suo cuore.
L'infanzia si lega a una purezza sperimentata, una purezza che è figlia del dolore, del male, dell'abiezione che lo circondava.
Emblematica di questa purezza è la figura della madre, fiore purissimo cresciuto in un roveto di sofferenza e di miseria: «O madre, o tenera bambina adorata, più grande del mio tempo, più grande della storia che ti assoggettava a sé, più vera di tutto ciò che ho amato in questo mondo, o madre perdona a tuo figlio di essere fuggito dalla notte della tua verità».
Quale intellettuale di questo secolo ha saputo inchinarsi con tanta verità davanti alla figura semplice, silenziosa, umile di una madre?
Di fronte a lei, Camus sente andare in briciole tutto il proprio orgoglio: «Adesso a 40 anni, regno su tante cose e tuttavia sono certo di essere inferiore ai più umili e comunque nulla in confronto a mia madre».
Una confessione del genere smonta tutte le costruzioni esistenzialiste che sono state fatte sulla figura di Camus.
Fa capire come l'immagine del nichilista in perenne rivolta appartenga più alla mitologia che alla realtà.
Lui è stato innanzitutto quello scrittore capace di vedere palpitare nell'esistenza offesa, gravata di sofferenza, di una donna, il mistero di un chiarore, una trasparenza sorprendente che penetra tutto.
Di intravedere il segno incarnato di una speranza che mai rinnegò e mai raggiunse.


Cerchiamo comunque di non vederci la figura della Madonna, chiaro?
LexMat

Popper, sul senso della Storia

Da "http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/POPPER_%20SUL%20SENSO%20DELLA%20STORIA.htm" : 

Per Popper non esiste nessun senso nascosto della storia. Essa ha il senso che noi riusciamo a darle. E soprattutto dalla storia dobbiamo imparare.
K. R. Popper, L’emancipazione attraverso la conoscenza, in “Controcorrente” aprile-giugno 1973, anno V, n. 2, pagg. 17-22

Possiamo tentare di dare uno scopo alla storia politica e con ciò a noi stessi. Invece di cercare un piú profondo, nascosto significato nella storia politica, possiamo chiederci quali dovrebbero essere i compiti degni e umani della storia politica: compiti fattibili e, nel contempo, a beneficio dell'umanità.
La mia prima tesi è, dunque, che noi dovremmo rifiutarci di parlare del “senso della storia”, come di qualcosa di celato in essa, o come di una morale nascosta nella divina tragedia della storia o nel senso di alcune tendenze evolutive o leggi della storia, o di alcuni altri significati che potrebbero forse essere scoperti da alcuni grandi storici, filosofi o capi religiosi.
Perciò la mia prima tesi è negativa. Io sostengo che non vi è nessun significato nascosto nella storia e che quegli storici e filosofi che credono di averne scoperto uno, ingannano se stessi e gli altri.
La mia seconda tesi, comunque, è molto positiva. Io credo che noi stessi possiamo tentare di dare un significato alla storia politica – o piuttosto una pluralità di significati; significati che sono fattibili da – e degni di – esseri umani.
Ma io vado ancor piú oltre. Perché la mia “terza tesi” è che noi possiamo imparare dalla storia che il tentativo di dare ad essa un significato etico, o dare a noi stessi uno scopo etico, non deve essere vano. Al contrario, non comprenderemo mai la storia se sottovaluteremo il potere storico degli scopi etici. Indubbiamente essi hanno spesso portato a terribili risultati, imprevisti da parte di coloro che per primi li avevano concepiti. Tuttavia, sotto certi aspetti, noi ci siamo avvicinati assai piú di ogni altra precedente generazione agli scopi ed agli ideali dell'Illuminismo rappresentati dalla rivoluzione americana, o da Kant. Piú specificamente, l’idea dell’auto-emancipazione o auto-liberazione attraverso la conoscenza, l'idea di una società pluralistica o aperta e l'idea di concludere la spaventevole storia delle guerre con l'instaurazione di una pace eterna, sebbene siano ideali forse ancora molto lontani, sono divenute lo scopo e la speranza della maggior parte di noi. [...].
La mia prima tesi, l'asserzione negativa che non vi è alcun significato nascosto nella storia politica – nessun significato che si possa cercare e scoprire, né una tendenza nascosta – contraddice le varie teorie del progresso del XIX secolo; per esempio, le teorie di Comte, Hegel e Marx. Ma essa contraddice pure sia la teoria di Oswald Spengler sul “declino dell'occidente”, formulata nel XX secolo, che le classiche teorie dei cicli, proposte, per esempio, da Platone, da Giovanni Battista Vico e da molti altri.
Io considero tutte queste teorie completamente sbagliate ed anche insensate. [...]. E dobbiamo pure stare attenti a non vedere in ciò delle leggi storiche che possano essere usate per predizioni di progressi, cicli o destini, o per ogni altra simile predizione storica.
Inoltre, sfortunatamente, il pubblico si aspetta e richiede, specialmente dopo Hegel e ancor piú dopo Spengler che un vero studioso – un saggio o un filosofo o uno storico – sia capace di giocare il molo di un augure o indovino, che sia capace di predire il futuro. E ciò che è peggio, questa richiesta si autoalimenta. Infatti l'insistente richiesta ha pressoché portato ad una sovrabbondanza di profeti. Senza eccessiva esagerazione si potrebbe dire che, oggigiorno, ogni intellettuale di una certa reputazione si sente irresistibilmente obbligato a diventare un esperto nell'arte della profezia storica. E l'abissale profondità del suo pessimismo (poiché il non essere pessimista sarebbe praticamente un'infrazione della etichetta professionale) è sempre unita all'insondabile profondità ed alla generale solennità delle sue rivelazioni da oracolo.
Io credo che sia tempo di fare un tentativo per tenere la predizione nel posto che obiettivamente le spetta. Non intendo affermare, naturalmente, che gli indovini non predicano mai la verità: se le loro predizioni sono sufficientemente vaghe, il numero delle predizioni vere supererà anche quello delle false. Tutto ciò che io asserisco è che non esiste un metodo scientifico, storico o filosofico che possa aiutarci a produrre qualcosa come le ambiziose predizioni storiche nella vena di Marx e di Spengler.
Se una predizione storica si dimostrerà vera o no, non è questione di metodo né di saggezza o di intuizione: è semplicemente questione di fortuna. Queste predizioni sono arbitrarie, accidentali e non-scientifiche. Ma alcune possono ben raggiungere un potente effetto propagandistico. Da un sufficiente numero di persone che credono nel declino dell'Occidente, l'Occidente declinerà, anche se, senza questa propaganda per il suo declino, esso avrebbe continuato a fiorire. Profeti e anche falsi profeti, possono muovere le montagne; la stessa cosa possono fare le idee, anche se erronee. Fortunatamente, vi sono diverse occasioni in cui è possibile combattere le idee erronee con quelle giuste.
K. R. Popper, Logica della ricerca e società aperta, Antologia a cura di D. Antiseri, La Scuola, Brescia, 1989, pagg. 171-172


Per Popper l’idea della possibilità di una società perfetta si deve spiegare con l’abbassamento del livello di razionalità. [M. Gilas, collaboratore di Tito in Jugoslavia, era poi diventato un severo critico della società comunista].
Colloqui di filosofia inglese contemporanea, a cura di B. Magee, trad. it. di I. Bertoni, Armando, Roma, 1979, pagg. 146-149

Magee: Perché la Sua filosofia politica ha assunto per lo piú la forma di aspra polemica contro le teorie utopiche?
Popper: Moltissimi aspetti della nostra vita sociale sono crudeli, ripugnanti, stupidi ed ingiusti: lo spazio per migliorare è sconfinato. Gli uomini hanno sempre sognato un mondo migliore ed alcuni di questi sogni hanno ispirato le riforme sociali; ma – come ho dimostrato in The Open Society – il sognare una società perfetta è pernicioso: i puritani speravano di fondarla ed altrettanto fece Robespierre, ma quel che essi realizzarono non fu il cielo in terra bensí l'inferno di una spietata tirannide.
Magee: Alcune delle Sue tesi di filosofia politica, dapprima trascurate, furono poi autonomamente riscoperte da altri: Gilas, per esempio, che era stato certamente una delle figure piú eminenti del mondo comunista, nel suo volume La nuova classe, diventato ora un classico, propone idee che Lei aveva pubblicato ben prima di lui in The Open Society.
Ancora nella sua ultima opera, La società imperfetta, non fa altro che sviluppare questo giudizio: “È mia convinzione che la società non possa essere perfetta”. È infatti sua ferma opinione che l'idea che la società possa essere perfetta sia l'errore basilare del comunismo.
Popper: Ritengo che Lei abbia davvero ragione per quanto riguarda Gilas: egli arrivò attraverso lunghi anni di sofferenza e di carcere ad alcune visioni cui altri erano giunti mediante il pensiero critico. Trovo, anzi, che per certi aspetti i suoi risultati hanno un senso piú forte e sono piú degni di considerazione.
Magee: Tuttavia noi stiamo assistendo ad una riviviscenza, tra i giovani piú intelligenti, proprio di quegli autori e di quelle dottrine contro i quali Ella ha vivacemente polemizzato: Hegel, Marx, la psicanalisi, l'esistenzialismo. Quale spiegazione potrebbe dare?
Popper: È di sempre la tendenza a cercare la pietra filosofale, una qualche panacea a tutti i nostri mali. La situazione odierna infatti è per niente nuova, fatta eccezione per un triste declino del livello razionale delle nostre discussioni. Ciò è dovuto contemporaneamente in parte ad impazienza ed in parte all'avvertimento che si son fatte troppe chiacchiere senza approdare a nulla: e cosí si è perso il gusto della discussione polemica, non si tenta nemmeno piú di scoprire quel che c'è di sbagliato nell'argomentazione opposta, si accettano teorie suggestive di largo consumo. È una tendenza che si può capire, ma è un ben triste andazzo, se diventa il marchio caratterizzante i giovani intellettuali: testimonia di uno scadimento di livello intellettuale e di intellettuale responsabilità.
Un esempio dell’incoscienza critica di questo tipo di anti-razionalismo è oggi la moda dell'anarchismo: certamente noi dobbiamo opporci all'elefantiasi burocratica, allo strapotere dello Stato; ma non riesco a concepire come le stesse persone che sono obbligate a rendersi conto che anarchia a livello internazionale significa guerra atomica possano poi credere che sia possibile vivere anarchicamente a livello nazionale senza precipitare, anche cosí, in una guerra atomica.

K. R. Popper, Logica della ricerca e società aperta, Antologia a cura di D. Antiseri, La Scuola, Brescia, 1989, pagg. 244-246

mercoledì 26 marzo 2014

Il nostro Chrome e la contingenza del LEGO


...
[LEGO] Fintanto che i miei mattoncini erano cristallizzati in quella forma, seppure meravigliosa, io non potevo utilizzarli per farci nient'altro e per questo avevano finito col perdere interesse e quindi significato.

Le certezze che ci portiamo dentro sono così: just another brick in the wall.
E' bene non affezionarsi troppo alla forma contingente che possono assumere in un particolare momento, basta sapere che è sempre possibile costruirci qualcosa distruggerlo e ricostruirci qualcos'altro, in potenza i mattoncini hanno tutte le forme che possiamo pensare, offrono possibilità infinite.


Questo discorso vale anche per le persone.
Purtroppo però abbiamo spesso il bisogno di queste solide e rassicuranti forme contingenti, e non riusciamo a vedere altro che queste, nelle cose e persone attorno ed in noi stessi.
Degli altri e di noi non riusciamo a vedere altro che determinati atteggiamenti, comportamenti.
Invece dobbiamo ricordarci che loro, e soprattutto noi, possiamo e dobbiamo cambiare, andare avanti, costruire e decostruire la vita.

Dobbiamo avere il coraggio di una metamorfosi. 
E saremo in un continuo cambiamento, non esente da errori, ma perfettibile e comunque sempre diverso e migliore.

Dobbiamo bruciare il nostro Chrome ed andare oltre quel nostalgico, malinconico e dolente ricordo.
Oltre il Chrome della nostra infanzia, dei ricordi, rimpianti e rimorsi.
Verso una nuova sfavillante infanzia ed esperienza del nostro essere adulti.
Sempre avanti.
 
LexMat

martedì 25 marzo 2014

Nel Proprio Amor... e nell'Altrui

Non basta soltanto che ognuno faccia, nel proprio piccolo, qualcosa.
Occorre per il bene del prossimo, se non per sé stessi, soprattutto per i propri figli, che si faccia qualcosa di ben più.

Occorre un pensare ed un agire nel proprio grande.
Qualcuno deve fare per forza, qualcosa di più degli altri.

Le formiche, vivono e cooperano ognuna nel proprio piccolo.
Ma noi non siamo formiche.

E possedere "intelligenza", presuppone anche il dovere di dare di più agli altri ed esigere di più da noi.

LexMat

Demonatte

LEGGERE ! LexMat

Da WikiPedia:

http://it.wikipedia.org/wiki/Demonatte_%28filosofo%29

Luciano di Samosata

LEGGERE !  LexMat

Da WikiPedia:

http://it.wikipedia.org/wiki/Luciano_di_Samosata

http://it.wikiquote.org/wiki/Luciano_di_Samosata

Elenco Opere, in italiano e scaricabili:
http://www.liberliber.it/libri/l/lucianus/index.php

Articolo:
http://historiantigua.cl/wp-content/uploads/2011/08/Lofficina-di-Luciano-di-Samosata.-Nuove-prospective-critiche.pdf

Celso

Da WikiQuote:

Il discorso vero

Incipit

I Cristiani stringono fra loro dei patti che violano le istituzioni tradizionali.
I patti possono essere palesi, quando si fanno in conformità alle leggi, oppure occulti, quando vengono stipulati contro le istituzioni tradizionali.
La cosiddetta agape dei Cristiani nasce dal pericolo comune, e vale assai più dei giuramenti.
I patti fra Cristiani contravvengono alla legge comune.

Citazioni

  • La loro morale è banale, e in confronto a quella degli altri filosofi non insegna alcunché di straordinario o di nuovo. (I, 4)
  • Questi caprai e pecorai si convinsero che esisteva un solo Dio, Altissimo o Adonai o Celeste o Sabaoth o in qualsiasi altro modo piaccia loro chiamare questo mondo; e non sapevano nulla più di questo. Non fa differenza alcuna chiamare il Dio supremo Zeus, con il nome corrente presso i Greci, o con quel certo nome che ha, poniamo, presso gli Indiani, o con quel certo altro che ha presso gli Egiziani. (I, 24)
  • La dottrina cristiana è rozza, e per la sua rozzezza e la sua debolezza nelle argomentazioni ha conquistato solo persone rozze. (I, 27)
  • Di esser nato da una vergine, te lo sei inventato tu [Gesù]. Tu sei nato in un villaggio della Giudea da una donna del posto, una povera filatrice a giornata. Questa fu scacciata dal marito, di professione carpentiere, per comprovato adulterio. Ripudiata dal marito e ridotta a un ignominioso vagabondaggio, clandestinamente ti partorì da un soldato di nome Pantera. A causa della tua povertà, hai lavorato come salariato in Egitto, dove sei diventato esperto in taluni poteri, di cui vanno fieri gli Egiziani. Poi sei tornato, e insuperbito per questi poteri, proprio grazie ad essi ti sei proclamato figlio di Dio. (Il giudeo: I, 28)
  • Ma se era tenuto a tanto per dare una dimostrazione della sua divinità, egli [Gesù] avrebbe dovuto sparire dalla croce all'improvviso. (Il giudeo: II, 68)
  • Gesù minaccia e insulta con troppa disinvoltura quando dice: "Guai a voi" e "Predico a voi" perché con questo ammette senz'altro di non essere in grado di convincere, cosa che non dovrebbe succedere non dico a un Dio, ma nemmeno a un uomo di senno. (Il giudeo: II, 76)
  • [I cristiani] Deridono coloro che adorano Zeus perché a Creta se ne mostra la tomba; ciò non di meno venerano colui che è risorto dalla tomba, senza sapere come né perché i Cretesi si comportano in questo modo. (III, 43)
  • Dicono che Dio è stato inviato ai colpevoli. E perché non a chi è senza colpa? Che male c'è a non avere colpe? (III, 62)
  • Il loro maestro va in cerca di stupidi. (III, 74)
  • Anche se una cosa ti sembra cattiva, non per questo consta che sia cattiva: perché tu non sai cosa è utile a te, o a un altro, o al tutto. (IV, 70)
  • Se venisse detto che noi regniamo sugli animali, perché diamo la caccia agli altri animali e li divoriamo, si potrebbe rispondere: «Non potremmo, piuttosto, essere stati fatti noi per loro, dal momento che essi ci cacciano e ci divorano?» Noi d'altronde abbiamo bisogno di reti, di armi, di molti uomini che ci aiutino e di cani [da utilizzare] contro quelli che cacciamo: a loro invece la natura ha dato immediatamente delle armi corrispondenti, per ridurci senza sforzo in loro potere. (IV, 78)
  • E alla vostra affermazione, secondo cui Dio ci ha dato il potere di catturare le fiere e di usarne a nostro piacimento, risponderemo che verosimilmente prima che esistessero le città e le arti e rapporti sociali di questo genere e armi e reti, gli uomini venivano catturati e divorati dalle fiere, mentre era rarissimo che le fiere venissero prese dagli uomini. (IV, 79)
  • Se poi gli uomini appaiono superiori agli esseri privi di ragione perché hanno costruito le città e si sono dati una struttura politica e delle magistrature e dei governi, anche questo non significa nulla, perché altrettanto fanno le formiche e le api. (IV, 80)
  • Orbene, se uno guardasse dal cielo verso la terra, quale gli apparirebbe la differenza fra quello che facciamo noi e quello che fanno le formiche o le api? (IV, 85)
  • Se poi si ritiene che l'uomo sia superiore a tutti gli altri animali perché possiede sentimenti divini, sappiano i sostenitori di questa tesi che anche tale possesso può essere rivendicato da molti altri animali. E a buon diritto, certo. Quale facoltà potrebbe qualificarsi più divina di quella di prevedere o predire l'avvenire? Ora, questo potere gli uomini lo apprendono dagli altri animali […]. Inoltre nessun altro animale sembra esser più leale al giuramento dato, né più fedele nei riguardi della divinità, dell'elefante, e questo senza dubbio avviene perché gli elefanti hanno conoscenza della divinità. (IV, 88)
  • Riguardo alle cicogne, poi, si racconta che esse contraccambino la pietà filiale e portino nutrimento ai loro genitori in modo tale che sembrano esser più amorevoli degli uomini. (IV, 98)
  • Dunque l'universo non è stato fatto per l'uomo, e d'altronde nemmeno per il leone o per l'aquila o per il delfino, ma perché questo mondo, in quanto opera di Dio, risultasse compiuto e perfetto in tutte le sue parti: a questo fine tutto è stato commisurato, non in vista dei rapporti reciproci, se non incidentalmente, ma del complesso dell'universo. (IV, 99)
  • È dell'universale che il dio ha cura, è questo che la provvidenza divina non abbandona mai: [l'universo] non può subire alterazione, né il dio dopo qualche tempo può richiamarlo a sé, né la sua collera può essere provocata da uomini, più di quanto lo possa essere da scimmie o topi. A nessuno di questi esseri egli muoverà minacce: ciascuno di loro ha ricevuto il proprio destino, nella parte a lui assegnata. (IV, 99)
  • I Cristiani dicono che la sapienza umana è follia agli occhi di Dio. Il motivo di questa affermazione è stato esposto molto più indietro, ed è il fatto di voler fare proseliti solo fra gli incolti e gli sciocchi. (VI, 12)
  • I Cristiani sono impostori, ed evitano accuratamente le persone più sofisticate, perché poco disposte a lasciarsi ingannare; e adescano invece gli zotici. (VI, 14)
  • La sentenza di Gesù contro i ricchi, secondo cui «è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio», è stata evidentemente mutuata da Platone; Gesù ha alterato il detto platonico, in cui Platone afferma: «È impossibile per chi è eccezionalmente buono essere al contempo straordinariamente ricco». (VI, 16)
  • Di tal fatta è questo Dio, e merita di essere maledetto, secondo chi nutre queste opinioni sul suo conto, perché a sua volta ha maledetto il serpente che ha trasmesso ai primi uomini la conoscenza del bene e del male. (VI, 28)
  • Ma la più grossa stupidaggine è quella di suddividere la generazione del mondo in vari giorni, prima che esistessero i giorni: infatti quando il cielo non era ancora stato generato, la terra non si era ancora solidamente fissata e il sole non si muoveva attorno a essa, come avrebbero potuto esserci i giorni? (VI, 60)
  • È per aver frainteso la teoria della reincarnazione che i Cristiani parlano di resurrezione. (VII, 32)
  • Prestate aiuto all'imperatore con tutte le vostre forze, e impegnatevi assieme a lui nelle imprese giuste e lottate per lui e servite nel suo esercito, se egli lo esige, e combattete con lui.
    E accettate di governare la vostra patria, se è necessario fare anche questo per difendere le leggi e la pietà. (VIII, 73-75)


Da WikiPedia:

Natura degli attacchi di Celso

Celso prepara la propria argomentazione polemica elencando i dileggi indirizzati dagli ebrei ai cristiani: Gesù sarebbe nato da un adulterio e sarebbe stato educato da maghi in Egitto; la sua pretesa dignità divina mal si concilierebbe se non per paradosso, con la sua povertà e la sua morte miserabile; il cristianesimo non troverebbe fondamento nelle profezie dell'Antico Testamento e l'idea di una risurrezione (quella di Gesù) che si è manifestata solo ad alcuni suoi adepti sarebbe una sciocchezza.
Ma Celso sostiene anche che gli ebrei non sono meno ridicoli degli avversari che attaccano; questi affermano che il salvatore dal Cielo è venuto, quelli ancora aspettano la sua venuta: tuttavia gli ebrei hanno quantomeno la dignità di una nazione antica con una fede antica.
L'idea di un'incarnazione di Dio è per Celso assurda: perché la razza umana dovrebbe considerarsi tanto superiore alle api, alle formiche e agli elefanti da essere protagonista di questo esclusivo rapporto con il proprio preteso creatore?
E perché Dio dovrebbe scegliere di incarnarsi proprio come ebreo?
Complessivamente l'idea cristiana di una provvidenza che tiene in così grande considerazione gli esseri umani in quanto tali, ed una singola nazione tra loro, è considerata priva di senso, un insulto alla divinità.
Celso paragona i cristiani ad un concilio di rane in una palude o ad un sinodo di vermi in un letamaio, gracchiando e squittendo: "Per il nostro bene il mondo è stato creato".
Sarebbe molto più ragionevole credere che ogni popolo abbia la propria specifica divinità; notizie di profeti e messaggeri celesti provengono anche da molti altri luoghi.
Oltre ad essere una dottrina basata su una vicenda fittizia, il Cristianesimo non è rispettabile.
Celso sottolinea come ai maestri cristiani, in larga parte tessitori e ciabattini, non possa essere riconosciuta influenza sugli uomini davvero istruiti.
I requisiti per la conversione sono l'ignoranza ed una puerile suggestionabilità.
Come tutti i ciarlatani, i cristiani hanno riunito nient'altro che una moltitudine di schiavi, ragazzini, donne e fannulloni. L'ambiente dei riti misterici è degno di ben altra considerazione perché accoglie nella sua cerchia ristretta solo i puri, gli esenti da colpe e delitti; per il Cristianesimo il ladro, la canaglia, l'avvelenatore, il saccheggiatore di templi e tombe sono bersaglio preferito dell'opera di proselitismo.
Gesù, dicono, fu mandato a salvare i peccatori, non coloro che per proprio merito hanno redento sé stessi dalla colpa.
Celso discredita gli esorcisti - che sono chiaramente alleati dei demoni - e l'invasione di profeti vagabondi e indisciplinati che vagano per le città e le campagne a condannare al fuoco eterno la terra ed i suoi abitanti.
Ma soprattutto i cristiani sono infedeli, e ogni chiesa è un illecito collegium, un'infiltrazione mortale per ogni epoca, e in particolare sotto Marco Aurelio.
Questi infedeli potrebbero tuttavia integrarsi: un "corretto" monoteismo non sarebbe infatti incompatibile con l'adorazione di una pluralità di dèi; i cristiani dovrebbero però sottomettersi alle grandi autorità filosofiche e politiche dell'Impero, ed abbandonare quel fanatismo che li porta a elevare la loro fede al di sopra dell'autorità e a organizzare ogni aspetto della vita in funzione dei comandamenti divini ed in spregio alla legge civile.

Il punto di vista di Celso

 Voce da controllare

Se tra Celso e Porfirio è possibile trovare diverse somiglianze, bisogna anche dire che profondamente differenti sono le loro concezioni religiose.
Porfirio è principalmente un filosofo puro, ma anche un uomo di profondo sentimento religioso, per il quale il fine della ricerca è la conoscenza di Dio; Celso, amico di Luciano, benché sia talvolta considerato epicureo o platonico non è un filosofo in senso stretto ma un uomo che guarda innanzitutto alle questioni dello Stato.
Era un vero agnostico come il Cecilio Natale descritto da Marco Minucio Felice.
La loro religione non era niente di più e niente di meno che l'impero.
Era acuto, positivo, logico; univa ad alcuni aspetti etici alcune forti convinzioni morali e una buona conoscenza delle varie religioni nazionali e mitologie il cui valore egli era in grado di apprezzare.
Il suo pensiero risente dell'influenza del platonismo eclettico del tempo, e non della dottrina epicurea.
È un uomo di mondo, un filosofo, che condivide molto del pensiero platonico del suo tempo ma non il suo sentimento religioso positivo.
Nella sua critica alla cristianità, che egli considera una religione barbara e superstiziosa raggiunge posizioni scettiche e satiriche, da uomo di mondo quale si considera, facendo affiorare a tratti delle tendenze epicuree.
Cita con convinzione dal Timeo di Platone: "è cosa difficile trovare il padre e creatore di questo universo, e dopo averlo trovato è impossibile renderlo conosciuto a tutti."
La filosofia può al più dare qualche nozione su di lui che l'anima eletta deve successivamente precisare e sviluppare; i cristiani al contrario sostenevano che dio è noto a tutti e che tutti possono conoscerlo.
Un altro punto di contrasto tra Celso e i cristiani è il problema del male.
Celso considerava il male costante in quanto esso era una caratteristica della materia; perciò considerava assurda l'idea della resurrezione del corpo (a quel tempo ancora non ben definita) e ridicolo qualsiasi tentativo di sollevare le masse dalla loro degradazione.
La differenza principale tra gli gnostici e i platonici era che i platonici consideravano la forma come il bene e la materia come il male.
A un certo punto si credette che La vera dottrina fosse stata scritta a Roma, ma degli indizi (interni all'opera) indicano piuttosto un'origine alessandrina.
Questa posizione è supportata non solo dai molti riferimenti, piuttosto precisi, alla storia e ai costumi egiziani, ma anche dal fatto che gli ebrei cui si riferisce Celso non sono greci o romani, ma sono ebrei orientali, in particolare ebrei appartenenti a quella cerchia giudaica che aveva appreso e fatta propria l'idea del logos.

Opere

Discorso vero


Nel Discorso vero di Celso, del 178 circa, viene stabilito un paragone tra iniziazione cristiana e quella pagana: nella tradizione classica l'iniziazione (telete) è riservata a "Chi ha mano pura e parola assennata… chi è immune da ogni infamia e ha l'anima incapace di ogni male ed è vissuto in modo buono e onesto…" ed è mirata alla purificazione (katharsia).
Quindi agli iniziati viene imposta la condizione preliminare di non conoscere il male e di vivere secondo giustizia.
Invece secondo i cristiani: "chi è peccatore, chi è ottuso, chi è puerile e, per farla breve, chi è un disgraziato, il Regno di Dio lo accoglierà; quindi per "peccatore" non intendete forse, voi cristiani, l'ingiusto, il ladro, lo scassinatore, l'avvelenatore, il saccheggiatore di templi o il violatore di tombe?
Un pirata non potrebbe accogliere persone diverse?" (III.59). 
"Il dio dei cristiani è stato inviato ai peccatori; perché non agli innocenti? Che male c'è a non avere colpe? Perché questa preferenza per i peccatori? I cristiani dicono queste cose per esortare i peccatori, poiché non sono capaci di attirare chi è veramente onesto e giusto. Per questo spalancano le loro porte agli uomini più empi e abominevoli. Il loro dio, schiavo della pietà per chi si lamenta, consola i malvagi e respinge coloro che non fanno niente di male. Questo è il colmo dell'ingiustizia" (III.62, 64, 65, 71).
L'associazione di katharsis (purificazione) con telete (iniziazione) richiama il battesimo (nuovo spunto polemico della fine del II secolo, che sostituiva la questione dell'eucaristia che veniva presentata come un rito cannibalista) in quanto proprio nella seconda metà del II secolo l'accesso al battesimo venne regolato attraverso l'istituzione del catecumenato. In Tertulliano, De Baptismo (203 circa), e in forma più compiuta in Ippolito, Tradizione Apostolica (215 circa), si parla per l'appunto del catecumenato e dei requisiti morali che si stavano definendo.

Collocazione temporale degli scritti

La data è chiaramente definita. Oltre all'indicazione generale che l'Impero stava vivendo una crisi militare, che porta a pensare all'esteso conflitto di Marco Aurelio contro i Marcomanni e altre tribù germaniche, c'è un riferimento (VIII.69) all'editto dell'imperatore che imponeva ai governatori e ai magistrati il compito di controllare con molta attenzione le stravaganze nella religione.
Questo editto fu proclamato nel 176-177, e inaugurò la persecuzione che durò da quel periodo fino alla morte di Marco Aurelio nel 180. Durante questi anni Commodo entrò a far parte dell'impero, e Celso ha una citazione di questo (VIII.71).

Argomenti trattati nelle opere di Celso

Celso mostra familiarità con la storia ebrea della creazione del mondo.
Qualsiasi pagano che volesse capire a fondo e criticare la cristianità doveva iniziare apprendendo le nozioni basilari dell'ebraismo, e ciò è evidente nei capitoli iniziali della sua opera.
Ha una buona conoscenza della Genesi e del libro di Enoch, ma non cita molto i profeti o i salmi.
Per quanto riguarda il nuovo testamento, la sua posizione è esattamente quella espressa dai suoi contemporanei. Parla di una collezione di scritti cristiani, conosce e cita i vangeli gnostici, ma non altrettanto il vangelo di Giovanni. Conosce le idee paoline, ma non cita le lettere di Paolo.
Conosceva bene gli scritti gnostici (VIII.15 e VI.25) e il lavoro di Marcione.
Ci sono anche indicazioni che avesse familiarità con gli scritti del martire Giustino e degli oracoli sibillini.
È perfettamente conscio delle divisioni interne tra cristiani, e conosce i vari stadi di sviluppo che il cristianesimo ha attraversato nella sua storia.
Usa abilmente queste conoscenze per evidenziare che il cristianesimo si presentava come una religione instabile.
Pone a confronto le varie sette cristiane del suo tempo, l'immagine di Cristo e degli apostoli con i predicatori suoi contemporanei, le varie versioni della bibbia e dei testi sacri e così via (anche se ammette che all'inizio le cose non stavano così male come ai suoi tempi).

Influenza di Celso

La vera dottrina ebbe scarsa influenza sia sulle relazioni tra Stato e Religione, che sulla letteratura classica. Alcuni accenni ad essa sono presenti in Tertulliano e in Minucio Felice[senza fonte], e successivamente fu dimenticata finché Origene non ne propose una confutazione, suscitando nuovo interesse in essa. Buona parte della polemica neoplatonica deriva naturalmente da Celso, e sia le idee che le frasi de "la vera dottrina" si ritrovano sia in Porfirio che in Giuliano, sebbene la definizione del canone biblico nel frattempo cambiò, in qualche misura, il metodo d'attacco di questi scrittori.
L'importanza di quest'opera è il quadro che dipinge della chiesa cristiana attorno all'anno 180.
Si può dire che Celso non condivideva le aspirazioni spirituali che il Cristianesimo cercava di soddisfare, considerandolo come una delle tante sette (più che altro gnostiche) in conflitto tra loro, spesso con finalità "sediziose" rispetto allo Stato, e considerandola come un elemento di pericolo per la società romana.
Da un punto di vista morale, accusa gli insegnamenti di Gesù di plagio, essendo molte sue frasi presenti in altri scritti dell'epoca.
Tuttavia, Celso non condanna in termini assoluti la cristianità. Molto importante è il suo appello ai cristiani che chiude l'opera. "Venite, egli dice, non tenetevi a distanza dall'attuale regime politico. Schieratevi a fianco dell'imperatore. Non cercate di costruirvi un altro impero, o di acquisire delle posizioni speciali.
È un'apertura che voi potreste fare alla pace. Se tutti dovessero seguire il vostro esempio e astenersi dalla politica, la gestione di questo mondo cadrebbe in mano ai selvaggi barbari senza legge" (VIII.68).
Ammettendo che alcuni cristiani hanno successo negli affari, vuole che essi diventino dei bravi cittadini, che mantengano le loro credenze ma che si adeguino alla religione di stato.
È un ardente ed efficace appello in nome dell'impero, che era chiaramente in grave pericolo, e mostra i termini delle offerte che si facevano alla chiesa, nonché l'importanza della chiesa in quel periodo.
I cristiani, a quel tempo, nelle città più cristianizzate d'Oriente costituivano circa un decimo della popolazione (per esempio, ad Alessandria ce n'erano cinquantamila o sessantamila)[senza fonte] ma la loro influenza per attivismo era maggiore di quella deducibile da questi numeri.
Sul totale della popolazione dell'impero (oriente ed occidente, città e campagne) probabilmente costituivano il 2 o il 2,5 % della popolazione essendo concentrati per lo più nelle città e nella parte orientale dell'impero.[senza fonte]

Libertà, cosa occorre?

Le ultime parole famose (di un Filosofo):

Per essere di libero pensiero occorre l'onestà intellettuale.
Per essere liberi nell'azione occorrono le palle.
La prima ce l'ho, invece per le seconde, c'è qualcunooo in sala, che me le presta?

LexMat

Fedone. La morte di Socrate (e della Tragedia) - SPIEGAZIONE

Da WikiPedia:

...
Dopo tanti discorsi, viene però il momento per Socrate di abbandonare questa vita.
La scena descritta da Platone, tuttavia, non è tragica: l'intero dialogo ha infatti dimostrato che all'uomo buono, che ha esercitato la filosofia per tutta la vita, non può succedere nulla di male né in vita né in punto di morte.

Si viene così delineando l'immagine di Socrate come anti-eroe tragico, e il Fedone risulta in questo modo l'anti-tragedia per eccellenza.

Si consuma in questo modo quella che Nietzsche ne La nascita della tragedia definisce la morte del tragico e dell'elemento dionisiaco in esso contenuto, ad opera dell'apollineo Socrate.

Socrate, con la propria morte, dimostra nella pratica ciò che era andato spiegando durante la propria vita: non può succedere che il saggio soffra senza colpa a causa del proprio destino, ma anzi, gli dèi non gli imputeranno dolore e sofferenza.

Questo è il più puro insegnamento che il logos socratico ci ha lasciato, la certezza, secondo ragione, che chi vive una vita morigerata, dedita alla filosofia e alla cura della propria anima, non deve temere alcun male.
...

venerdì 21 marzo 2014

Dove Dio fu senza un tetto, tu e io siamo a casa. Poesia di Natale di G. K. Chesterton (traduzione di Annalisa Teggi)

Da "http://www.gliscritti.it/blog/entry/1757" :

Una miriade di luci illuminano le nostre strade e soprattutto le nostre case in questo periodo.
E dicono che è festa perché la luce è entrata in casa nostra.
Abbiamo bisogno di paradossi come quelli che scriveva il signor Chesterton per poter guardare le cose vere con occhio strano quanto basta per continuare a meravigliarci,  di giorno in giorno, di anno in anno.
Tra le molte poesie sul Natale che Chesterton scrisse, questa, che riporto con una mia traduzione scritta per questa occasione, ci porta dentro quella capanna di Betlemme e ce la fa guardare una volta di più con occhi incuriositi: solo là dove Dio fu senza un tetto, tu ed io siamo a casa. (Annalisa Teggi)


Laggiù  una madre senza posa camminava,
fuori da una locanda ancora a vagare;
nel paese in cui lei si trovò senza tetto,
tutti gli uomini sono a casa.


Quella stalla malconcia a due passi,
fatta di travi instabili e sabbia scivolosa,
divenne qualcosa di così solido da resistere e reggere
più delle pietre squadrate dell’impero di Roma.


Perché tutti gli uomini hanno nostalgia anche quando sono a casa,
e si sentono forestieri sotto il sole,
come stranieri appoggiano la testa sul cuscino
alla fine di ogni giornata.


Qui combattiamo e ardiamo d’ira,
abbiamo occasioni, onori e grandi sorprese,
ma casa nostra è là sotto quel cielo di miracoli
in cui cominciò la storia di Natale.


Un bambino in una misera stalla,
con le bestie a scaldarlo ruminando;
solo là, dove Lui fu senza un tetto,
tu ed io siamo a casa.


Abbiamo mani all’opera e teste capaci,
ma i nostri cuori si sono persi - molto tempo fa!
In un luogo che nessuna carta o nave può indicarci
sotto la volta del cielo.


Questo mondo è selvaggio come raccontano le favole antiche,
e anche le cose ovvie sono strane,
basta la terra e basta l’aria
per suscitare la nostra meraviglia e le nostre guerre.


Ma il nostro riposo è lontano quanto il soffio di un drago
e troviamo pace solo in quelle cose impossibili,
in quei battiti d’ala fragorosi e fantastici
che volarono attorno a quella stella incredibile.


Di notte presso una capanna all’aperto
giungeranno infine tutti gli uomini,
in un luogo che è più antico dell’Eden
e  che alto si leva oltre la grandezza di Roma.


Giungeranno fino alla fine del viaggio di una stella cometa,
fino a scorgere cose impossibili che tuttavia ci sono,
fino al  luogo dove Dio fu senza un tetto
e dove tutti gli uomini sono a casa.

G. K. Chesterton 2 - Amare la Realtà, difendere la Ragione: guardare il mondo con gli occhi di Chesterton

E' davvero strano in un Blog Ateo pubblicare queste parole.
Rendere partecipi delle parole di Chesterton.

Ma sapete, io credo nella Fisica, nella Logica e nella Matematica, non in Odifreddi.
Credo nell'eccelso Russel e nel grande Chesterton.

Queste del Cristo sono le mie radici e non le dimentico e non dimentico "quelle parole".
Questo indipendentemente, se Lui esiste o no.
Le parole sono importanti, l'etica dell'umana solidarietà.

Disse: Se non credete in me, almeno credete nelle parole del Padre.

Non ho bisogno di rinascere, ho bisogno di vivere bene, ed insieme, almeno una volta.

LexMat


Da "http://www.gliscritti.it" :

di Edoardo Rialti
scritto dalla Redazione de Gli Scritti: 30 /12 /2012

Si riprende dal sito del Meeting di Rimini una relazione di Edoardo Rialti tenuta il 23/8/2011:



Buongiorno da parte mia. È sempre un grande onore e una grande gioia essere qui al Meeting, e parlare di Chesterton al Meeting, è una gioia nella gioia.
Al centro di uno dei primi romanzi, che lo ha reso famoso a livello internazionale, L’uomo che fu Giovedì, viene raccontato un duello con le spade.
Il protagonista, il poliziotto Gabriel Syme, si trova a fronteggiare un tenebroso barone francese vestito di velluto nero, che non soltanto riesce a parare praticamente tutti i colpi del protagonista ma, ogni volta che viene infilzato, non versa neanche una goccia di sangue, come fosse uno stregone o, peggio ancora, un demonio.
Man mano che il duello va avanti, l’abito nero del nemico sembra essere una sorta di buco di inchiostro che risucchia tutta la luce attorno: Syme sta combattendo contro un buio che sta inghiottendo tutto il mondo. E nell’ultimo disperato tentativo di lanciarsi contro il nemico, si trova addosso qualcosa che non sospettava.
Leggo: “Syme raccolse tutte le proprie forze e tutto quello che c’era di buono in lui. Cantò alto nell’aria, come un vento alto canta tra gli alberi. Pensò a tutte le cose comuni in quella pazzesca storia, alle lanterne giapponesi di Saffron Park, alla chioma rossa della ragazza nel giardino, agli onesti marinai che trincavano birra lungo il dock, ai suoi leali compagni lì accanto. Forse era stato scelto proprio lui come campione di tutte quelle cose fresche e buone, perché incrociasse la spada col nemico della creazione”. 
Questa immagine, secondo me, è una sorta di vero e proprio filo rosso di tutta l’opera e di tutta la vita di Chesterton.
Pensate a tutte le storie che ha raccontato: non ha sempre raccontato qualcuno che punta la spada del proprio coraggio, della propria dedizione, contro un buio che, secondo l’espressione di una bella canzone di Chieffo, molto nota a molte persone qui, “le cose divora”? Persone che non si sono arrese al buio che le cose divora.
Pensate al primo romanzo che Chesterton scrive, Il Napoleone di Notting Hill, in cui un piccolo quartiere si ribella contro una standardizzazione che divorerebbe le specificità personali, che cancellerebbe la gloria di quella piccola stradina che non è nota al mondo ma è il luogo dove una persona si è innamorata o dove è avvenuta una memorabile discussione tra amici. 
Pensate a quella che è forse la scena più famosa di Le avventure di un uomo vivo, in cui il protagonista punta la pistola contro il fumoso nichilismo di un professore universitario che sta negando il valore, la bellezza, la poesia di tutto l’universo, a partire dalle cose più grandi e più vaste fino ai dettagli più comuni della casa che gli sta davanti. 


Questo è il fulcro di TUTTO, di tutte le banali ed idiote questioni umane, della cattiveria e del fanatismo, c'è assoluto bisogno (questo l'unico dogma sensato) di entrambe le visioni, c'è bisogno di Ragione e Sentimento, di Onestà Intellettuale, di fede nella Ragione e di una ragionevole Fede (LexMat):


Oppure, pensate ai protagonisti di La sfera e la croce, un ateo e un cattolico, in lotta l’uno con l’altro ma soprattutto – cosa ancora più decisiva – in lotta contro un mondo intero che vorrebbe impedire loro di incrociare le spade sull’unica questione che conti per davvero e che tutte le forze della modernità vogliono mettere a tacere: Dio esiste oppure no?
E l’ateo e il cattolico, che pensavano di dover puntare l’uno la spada contro il petto dell’altro, si trovano invece nella paradossale situazione di essere fianco a fianco a puntarla contro tutto il resto del mondo.


Oppure, che cosa fa il capitano Dalroy se non combattere, ne L’osteria volante, insieme a quel che rimane della Merry England, dell’Inghilterra allegra e gioiosa, contro il gelido salutismo del mondo contemporaneo?
Via via, fino alla Ballata del cavallo bianco, oppure alle Storie di Padre Brown, Chesterton ha sempre raccontato questo lottare per quel che si ama, questo amare e lottare.


Scriverà, in un suo saggio su Dickens: "La nostra civiltà moderna mostra molti sintomi di cinismo e decadenza, ma di tutti i segnali della fragilità moderna e della mancanza di principi morali, non ce n’è uno così superficiale o pericoloso come questo, che i filosofi di oggi abbiano cominciato a dividere l’amore dalla guerra e a collocarli in campi opposti."


Non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse pure un Nietzsche, affermare che dovremmo andare a combattere invece che amare, e non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse pure un Tolstoj, affermare che dovremmo amare invece di andare a combattere.
Una cosa implica l’altra.


Una cosa implicava l’altra negli antichi romanzi e nella vecchia religione, che erano le due cose permanenti dell’umanità.
Non si può amare qualcosa senza voler combattere per essa.
Non si può combattere senza qualcosa per cui farlo”.


Ebbene, questo filo rosso è in realtà il filo rosso dell’arte perché della vita di Chesterton.
Pensiamoci: cosa ha fatto Chesterton nel ’900, se non puntare alla gola del mondo la spada di questa sorpresa, rimetterci davanti e cantare limpidamente un amore per tutto ciò che tutti noi già conosciamo e a cui teniamo, e che per Chesterton costituiva quanto di meglio e di più glorioso esista nell’universo, l’avventura di essere al mondo?
“Tutto è magnifico paragonato al nulla”, dirà nella sua Autobiografia.

E questo è anche il motivo per il quale egli ha avuto la libertà di scrivere di tutto, di dialogare con chiunque senza mai litigare perché, come diceva, la cosa brutta dei litigi è che interrompono le discussioni.

Ha avuto la prontezza di spirito, perché del senno di poi si riempiono i mari, di affrontare e denunciare le riduzioni dell’umano del suo tempo quando invece molti si inchinavano a una persona che si chiamava Adolf Hitler.
Già nel ’33 e nel ’36, Chesterton ha avuto la libertà di attaccarlo, quando si discettava con grande, buona educazione, di eugenetica o vivisezione umana, quando attaccava la famiglia, quando attaccava l’amore.
Chesterton ha avuto questa capacità di essere continuamente in prima linea.
La domanda che vorrei fare oggi, e tentativamente cercare di fornire qualche elemento di risposta, è: cosa ha sostenuto il polso di Chesterton nel tenere puntata questa spada alla gola della modernità, sorprendendo, colpendo e interrogando persone diversissime da quelle che condividevano le sue opinioni?


Perché Chesterton non è stato amato da chi la pensava come lui: ha colpito persone come Hemingway, ha colpito persone come Borges, ha fatto dire a un animo straziato, come quello di Kafka: “È così gioioso che verrebbe da dire che sia proprio vero, quello che dice Chesterton”.


Cosa ha permesso a quest’uomo di tenere il polso stretto intorno alla spada, fosse pure la penna con la quale ha vergato centinaia, migliaia di articoli, quello che gli ha permesso di viaggiare il mondo?
Perché Chesterton ha raccontato ed espresso sempre, come tutti i grandi artisti, quello che innanzitutto è arrivato ed è stato consegnato alla sua vita, ci ha donato quello che gli è stato donato.

Come ha detto giustamente e in maniera così profonda la professoressa Milbank, Chesterton non ha aggirato la coltre, il corridoio buio dello scetticismo, della negazione, della paura, anzi, ha dubitato di tutto, perfino della sua stessa esistenza.

È arrivato al punto di abbracciare le filosofie nichiliste di quando era ragazzo.
Eppure, a 18 anni, sono parole della sua Autobiografia, “provò l’impulso interiore a ribellarsi”, provò a scuotersi di dosso questo buio che, non soltanto da fuori ma anche da dentro lui, sembrava stesse conquistando tutto, questa negazione radicale.
Ma cosa ha sostenuto questo suo moto di ribellione, e non l’ha fatto cadere?
È sempre lui a raccontarlo: il fatto che questo moto del cuore, questa intuizione non sia stata lasciata alla propria capacità espressiva, ai propri sforzi, alla propria, per quanto immensa, genialità ma sia stata continuamente raggiunta, sostenuta e illuminata da qualcosa e da qualcuno che, da fuori, è arrivato a sostenere, valorizzare, confermare questa iniziale intuizione di bene.

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Chesterton diceva che quando nasciamo c’è una sorta di primavera eterna, questa sorta di mattino eterno di quando si è bambini e le cose sono belle perché sono fresche, è come se conservassero i colori del primo giorno del mondo. Come si fa a conservare questo, quando si diventa grandi?

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Chesterton lo racconta nella sua Autobiografia e in tanti altri luoghi: innanzitutto per quello che nella nostra vita è stato sedimentato, anche quando non ce ne accorgevamo.
Chesterton ha iniziato a inoltrarsi nel mondo con una ipotesi positiva [...] anzitutto per il rapporto con suo padre, che non gli ha fatto tanti discorsi sul valore positivo dell’esistenza ma ha giocato con lui, amava fare le cose con lui, costruire dei teatrini, disegnare.
E Chesterton, nella sua Autobiografia, dirà: “Soltanto fare delle cose? Non si può dire cosa più grande di Dio stesso che il fatto che Egli faccia le cose”.
È l’intuizione per cui, da bambino, una delle prime cose che Chesterton ha visto è stato un teatrino fatto con amore da un padre che era impiegato di banca, che gli ha permesso poi di guardare ogni giorno, riaprendo gli occhi, all’immenso teatrino del mondo, percependo anche lì che forse c’era davvero un altro Padre, ancora più grande, che quel teatrino di carta, fragile e bellissimo, lo ridisegna e lo tiene in piedi ogni giorno della sua vita. 

E poi, gli incontri con gli scrittori che non ha mai visto personalmente – Dickens, Stevenson, Chauser, Dante, Shakespeare – e che, dice, “lo hanno aiutato e lo hanno sostenuto nella speranza”, perché erano “cantori di tutte le cose buone che sono sulla terra”, della bellezza di essere vivi.

E poi, ancora, l’incontro con sua moglie Frances, una donna che non soltanto pensava che Dio esiste ma viveva una vita conforme a questa certezza.
E Chesterton, passo passo, ha iniziato a fare come faceva lei. E gli amici intelligenti e profondi, che avevano una visione della storia e del mondo completa, come il cattolico Hilary Belloc.

Oppure l’incontro con padre O’Connor, il sacerdote che sarà all’origine di Padre Brown.

E guardate Padre Brown, la rappresentazione visiva di questo sacerdote che è un particolare quasi insignificante nel panorama dei personaggi che vengono raccontati nei suoi racconti: ha un’aria dimessa, è sempre molto impacciato, sembra essere fuori posto.
Invece ha una capacità di penetrazione nel cuore dell’uomo di cui gli investigatori di professione, gli intellettuali, i filosofi che lo circondano, non dispongono.

Padre Brown è la Chiesa per Chesterton, l’emblema di tutta quella trama di volti e rapporti che vi ho raccontato prima, il fatto che da fuori siamo raggiunti da Qualcuno che non ci guarda per quello che facciamo ma per quello che desideriamo.

Questo è ciò che racconta quella che secondo me è la vera controparte narrativa di Chesterton, il miglior amico – perché prima miglior nemico – di Padre Brown, l’enorme, immenso ladro gentiluomo Flambeau, che è l’avversario di Padre Brown nei primi 3, 4 racconti. E poi, ad un certo punto, cambia vita e diventa investigatore privato, mette il suo genio di ladro del crimine al servizio del fare giustizia.

Ad un certo punto, quando parla di sé di fronte ad un intellettuale che dice che i criminali vanno arrestati, che ci vogliono i metodi migliori della scienza per impedire loro di fare quello che fanno, e che invece i discorsi che fa Padre Brown sul desiderio e la libertà, sul cuore di ogni uomo, fosse pure il più tenebroso e il più depravato, non contano niente, Flambeau che nessuno sa essere il ladro ricercato, fa un passo avanti e dice: “C’è un criminale in questa stanza, sono io, sono Flambeau e la polizia di due emisferi mi sta dando ancora la caccia. Ho rubato per vent’anni con queste mie mani e sono sfuggito alla polizia con questi miei piedi.
Spero ammetterete che le mie attività furono pratiche, come spero che ammetterete che i miei giudici e inseguitori trattavano davvero con il crimine.
Credete che non conosca a fondo tutto ciò che riguarda i loro modi di reprimere il crimine?
Non ho forse ascoltato i sermoni dei giusti e visto il freddo sguardo delle persone rispettabili?
Non sono forse stato catechizzato con quello stile elevato e distaccato?
Non mi è stato forse chiesto come fosse possibile per qualcuno cadere così in basso per farmi dire che nessuna persona decente avrebbe mai potuto nemmeno sognare una simile depravazione?
Credete che tutto ciò che mi hanno fatto non mi ha causato altro che riso?

Solo il mio amico qui (e indica Padre Brown) mi disse esattamente perché rubavo, e da allora non l’ho più fatto”.

Frasi che, fra l’altro, tanti immorali moralisti di oggi farebbero bene a meditare.

Ma la cosa impressionante è che quello che Flambeau dice qui è quello che Chesterton dice di sé nella Autobiografia: “Ho trovato una sola religione capace di scendere con me nelle profondità di me stesso”, laddove l’uomo sperimenta, come Flambeau, che, per quanto siamo innamorati della vita, per quanto siamo innamorati di ciò a cui teniamo, siamo i primi a sciuparlo misteriosamente.

Qual è il dramma di Flambeau? Che da ladro gentiluomo sta diventando un brigante, sta diventando qualcuno che non soltanto ama così tanto le cose, da rubarle senza fare del male a nessuno ma sta iniziando a ingannare, a insozzare, a rovinare altri.
E Padre Brown, che lo guarda per quello che desidera e non per quello che fa, è in grado di arrivare esattamente in quel punto di congiunzione e offrire a Flambeau e a Chesterton ciò di cui ogni uomo, da grande, ha bisogno per tornare bambino: il perdono! Cioè, un dono che ritorna ancora e ancora a sconfiggere il male fuori e dentro di noi.

Esattamente come, all’inizio della Divina Commedia, succede a Dante Alighieri.
È questo – l’ultima cosa che voglio leggervi – che ha sostenuto la forza di Chesterton per tutta la vita, così come la racconta in una pagina che molti di voi avranno certamente gustato, meglio declamata, ieri sera, dalla Ballata del cavallo bianco.
Mi permetto brevemente di recitarla perché, in filigrana, qui si può leggere tanto del percorso umano e quindi del dono che il pensiero e l’arte di Chesterton sono per il nostro tempo.

Nel cuore della battaglia, il manipolo dei cristiani si trova a un certo punto a fronteggiare un principe pagano vichingo che si è fatto incantare la propria lama da delle streghe e che, con questa lancia stregata, sta devastando il campo nemico.
Tutti scappano tranne un italiano, Marco, un patrizio romano convertito, che invece tiene la linea e grida: “State fissi come un’aquila”, nella bellissima traduzione di Annalisa Teggi.

“State fissi come un’aquila” gridò Marco “state saldi come le mura di Roma, avanti, nelle vostre case le luci si stanno spegnendo, cadono i frutti dai vostri rami”.

È il buio, vedete: “Proprio adesso il tuo vecchio tetto brucia, Gurt, ora il giorno del Giudizio sulla terra, ora il corpo a corpo con la morte”.
Cosa succede? Che la maggior parte degli inglesi sono neoconvertiti dal paganesimo e quindi hanno una fede incerta, molto superstiziosa: di fronte alla magia nera iniziano ad allontanarsi e a scappare, perché quegli uomini mescolavano Dio con la magia, Dio, il miracolo che è la forza di un altro, con la magia, che invece è un potere, un calcolo.
Mescolavano Dio con gli dei, con la torre e il vetro del mago.

A questo punto, Chesterton invece fa un inno al luogo e all’educazione che hanno forgiato lo sguardo di Marco: secondo me è una delle cose più belle sull’Italia che siano mai state scritte. Io poi vengo da Firenze, in cui questi versi hanno come un peso specifico; invece Marco proveniva “dalle città splendenti dove sempre nuovi dettagli si mostrano, dove l’uomo può raccontare e discutere”.

E la sua fede era cresciuta su un terreno difficile, fatto di dubbio, di ragione e di menzogne scoperte, dove nessun’altra fede può crescere: “perché un credo che cresce tra mille credenze si disperde da un momento all’altro ma un credo che sorge nello scetticismo – ecco Chesterton – si fortifica come il ferro e si distingue.

Marco non ha paura, uccide il principe e spezza la lancia, e il popolo cristiano improvvisamente grida: “Dio ha spezzato la lancia del male”.
Un miracolo, per quanto sia stata una mossa umana. E a quel punto, Marco nuovamente grida: “Lancia in resta, a morte gli dei della morte! Sopra i troni dell’oscurità e del sangue”, sopra tutto ciò che c’è di male “corre Dio che è il bracciante buono e l’oro e il ferro, la terra e il legno, Egli li ama e li lavora”.
C’è Qualcuno che ama la realtà più ancora di quanto l’amiamo noi: “i frutti spuntano nelle vostre fattorie”, è un verso opposto a quello di prima, dove i frutti “cadevano”.
“Le luci si accendono in ogni casa, il Dio di tutte le cose buone che sono sulla terra, delle ruote, delle trame di ogni fattura, il Dio che ha costruito il tetto, il Dio che ha fatto la strada, il Dio che falcia i re come le querce, che scrive canti sopra le pelli, il Dio dell’oro e del vetro rovente confregit potentia arcum et scutum et gladium et bellum. 

Che cosa succede? Che Marco, nel cuore della battaglia, si è messo a cantare i salmi di Re Davide, che raccontano che Dio non lascia solo il suo popolo e combatte con lui.
“Acciaio e scintille si infransero su di lui, cavalli da battaglia e pugni”: tutti sembrano volerlo mettere a tacere, “ma tutti i re del mare vacillarono quando si sollevò il legno delle armi allo squillo della parola del romano, al rombo del salmo”. 

Secondo me, questa è una immagine straordinaria anche di quello che è stato Chesterton nel ’900.
Chesterton, nel ’900, è un uomo che si è messo, nel cuore delle nostre battaglie, a cantare il latino, cioè si è messo a cantare in nome di tutto ciò che amava e si è trovato addosso delle parole che erano le più adeguate.
Non per un tradizionalismo o un  estetismo, ma perché erano le parole con le quali da migliaia di anni ci viene tramandata continuamente la perenne alleanza che c’è tra l’uomo e Dio, la certezza che ogni volta che l’uomo impugna la spada per combattere per ciò che ama, l’uomo regge la spada ma è Dio che regge il polso dell’uomo.

Grazie infinite.