Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

martedì 8 aprile 2014

MOSES - I Sofisti


di Daniele Lo Giudice

Con l'affermarsi della democrazia e della partecipazione ad Atene, che nel corso del V° secolo a.C. era diventata una potenza anche militare oltre che commerciale, vennero ad assumere grande importanza le abilità politiche ed in particolare quelle oratorie.
In tale contesto, la retorica, cioè l'arte di costruire ed esporre discorsi incisivi, persuasivi, coerenti e ben ordinati assunse grande importanza, e con essa crebbe l'interesse per la dialettica, cioè il dialogo vivo, il confronto e lo scontro di posizioni, nonchè l'arte di contendere e di confutare, ovvero l'eristica (che deriva appunto da eris, contesa).
Fu allora che si cominciarono a vedere per Atene degli stranieri, anche se greci, che approfittando dell'occasione e della necessità, aprirono scuole a pagamento per insegnare l'arte di parlare, ed in particolare l'arte di parlare in pubblico ed ottenere i consensi dell'uditorio.
le testimonianze concorrono tutte nella medesima direzione: questi maestri, detti sofisti, furono un prodotto di importazione. Venivano ad Atene da ogni parte della Grecia; solo in un secondo tempo vi fu un'ondata di sofisti ateniesi, ma la loro importanza nella storia del pensiero, con la sola eccezione di Isocrate (il quale, peraltro, prese anche risolutamente posizione contro i sofisti, pur mantenendo moltissime posizioni comuni agli stessi) e, forse, di Antifonte, fu modesta.
I destinatari sociali delle scuole sofistiche non furono tanto i rampolli delle grandi famiglie aristocratiche, quanto i figli dei nuovi ricchi, dei mercanti e degli artigiani più prosperosi. Per stare in società c'era bisogno di cultura ed educazione, c'era bisogno di formarsi come uomini civili, più colti, anche per evitare figuracce.

Non bisogna credere, infatti, che Atene fosse allora già il centro della civiltà greca. Per lungo tempo la più grande città greca fu Mileto, che per ironia della sorte si trovava sulle coste dell'Asia Minore, cioè nell'odierna Turchia.
La stessa filosofia era nata a Mileto. I più grandi filosofi dei primi secoli ebbero i natali a Mileto e nelle vicine città di Samo, come Pitagora, ed Efeso, come Eraclìto.
La comparsa dei sofisti corrispose pertanto ad una sorta di sprovincializzazione di Atene ed è solo grazie a questo processo che si spiega, in parte, la sua ascesa politica, economica, militare e culturale.

Nei libri storici di Tucidide c'è un discorso di tipico impianto sofista: il celebre Epitafio di Pericle, pronunciato in occasione dei funerali dei caduti nella guerra del Peloponneso.
Siamo nel 431 a.C. L'esame dettagliato ci porterebbe troppo lontano dai temi che affrontiamo in questa sede ma, un accenno ci consente, al contrario, di avvicinarci.
Lo storico Domenico Musti ha scritto che l'Epitafio pericleo rappresenta il manifesto della teoria democratica, e questo indipendentemente dal fatto che sia più o meno autentico. Tucidide, che pure non fu un simpatizzante di Pericle, nemmeno un simpatizzante della democrazia, ebbe l'indubbio merito di condensare nel testo le più importanti convinzioni del grande uomo politico ateniese. Sono i pilastri della teoria democratica antica, ed allo stesso tempo le chiavi per comprendere quella moderna.
Non credo di dire una sciocchezza, se affermo che molti sofisti impararono da Pericle e non già che i sofisti, in particolare Protagora, insegnarono a Pericle.
Nell'uomo Pericle e nel suo discorso ognuno può rinvenire sia il meglio che il peggio della retorica politica, in particolare quella degenerazione demagogica che è alla base di tutte le dittature su base popolare, e del consenso di massa che riescono ad ottenere i partiti populisti nelle democrazie.
Ma, sia Tucidide che Aristotele in veste di storico (quello che scrisse la Costituzione degli ateniesi) concordano su un punto: il fenomeno dei demagoghi è successivo a Pericle. Questi non fu mai un demagogo, e il tono, il carattere, il contenuto dell'Epitafio riflette semmai, nei punti più rilevanti, un grandissimo realismo, un fiuto politico eccezionale, un senso del tempo storico e della direzione degli eventi straordinario.
Personalmente ci trovo anche il filosofo politico, quello che seppe anticipare anche alcuni temi importanti nell'etica e nella politica di Aristotele. Ma, questa potrebbe essere un'opinione azzardata.

Quel poco di capacità demagogica che si può evidenziare nel discorso di Pericle sta nella persuasività oratoria. Le stesse cose, dette in altro modo, ad esempio secondo un'asciutto stile filosofico, non avrebbero avuto la medesima efficacia.
Musti sottolinea giustamente che la forza del discorso di Pericle non sta nel rivolgersi al popolo dicendo: "Voi dovete..."
Pericle disse: "Noi siamo già...quello che altri dicono che dovremmo essere."
Ed ancora andrebbe evidenziato il carattere bipartisan, cioè unitario e rappresentativo dei sentimenti potenzialmente presenti in tutti gli ateniesi. Non c'è un filo di polemica diretta con avversari interni. Quando si sottolinea la diversità della condizione ateniese da quella spartana, si dice esplicitamente : "noi siamo così, ovvero più liberi, più indisciplinati, più portati a goderci la vita ed cercare la felicità perchè abbiamo voluto, tutti, essere così. E dove è scritto che noi siamo militarmente meno abili perchè ci rifiutiamo di faticare e soffrire per tutto il giorno e per tutta la vita?"
Che è come dire, è inutile nascondersi dietro all'ipocrisia. Chi parla di perdita degli antichi valori di disciplina e di sacrificio, chi detesta questo spirito di libertà nel quale ognuno è in grado di costruirsi una vita migliore, in realtà vorrebbe solo mantenere il suo privilegio, tenere solo per sé l'opportunità di una vita agiata e costringere gli altri ad una vita di sacrificio.
Pericle insiste su questo punto in modo tale da prestare il fianco a critiche di edonismo e permissivismo. E persino dalle file sofiste, udite udite, vi sarà chi, come Prodico di Ceo, insegnerà e propaganderà idee del tutto opposte. Ma il bersaglio è sbagliato, perchè a ben leggere Pericle, non vi è alcun estremismo edonistico, ma solo l'ideale di una vita equilibrata, inserita in una visione ottimistica e fiduciosa, in netto contrasto con il classico pessimismo greco.

Va compreso che senza il clima di tolleranza e di fiducia realizzatosi sotto Pericle né i sofisti, né altre scuole filosofiche avrebbero potuto trovare spazio ad Atene, una città restia ad accettare le novità ed i nuovi valori, un ambiente nel quale anche i democratici erano fondamentalmente conservatori e tradizionalisti, nonchè molto legati alla religione ufficiale.
Pericle ebbe bisogno dei sofisti, in particolare di Protagora, per dare spessore e penetrazione a quella che potremmo chiamare la sua politica culturale, ed i sofisti, o, almeno, una parte di essi, ebbero bisogno del sostegno e dell'incoraggiamento di Pericle.

Ovviamente non era sufficiente insegnare a saper esporre le proprie idee in modo sintetico, occorreva anche sapere cosa dire in modo persuasivo: i nuovi maestri avevano chiaro che era necessaria una paideia, cioè una cultura umanistica; gli ateniesi dovevano e potevano conoscere un po' meglio la tradizione poetica orale e scritta. In essa si potevano trovare esempi ed argomenti, con essa si rimpinguavano discorsi altrimenti banali e scontati, privi di riferimenti significativi e pregnanti.
La tradizione culturale greca, in particolare quella poetica, era vista come formativa ed educativa.
La parola sofista non ebbe all'inizio un significato dispregiativo, anche se, considerando l'assoluta vicinanza di significato che avrebbe oggi il termine intellettuale, possiamo legittimamente immaginare che la gente comune usava la parola sofista esattamente come oggi usa la parola intellettuale, ovvero con un misto di rispetto, di ammirazione, ma anche di critica. L'intellettuale è spesso un inconcludente chiacchierone, un cavillatore, un piagnone, e tali dovevano apparire moltissimi sofisti, a volte insopportabilmente saccenti, antipatici e parolai.

Possiamo ancora legittimamente immaginare che la gente comune non facesse grandi differenze non solo tra un sofista e l'altro, ma anche tra un sofista di professione ed un amante della sofia, un ricercatore di verità, ovvero un filosofo.
Per la gente erano sofisti anche Anassagora, Socrate, i suoi allievi, come Eschine e lo stesso Platone.

Nella loro specifica posizione, i veri filosofi, distinzione a cui Platone mostrò di tenere molto, cercarono di prendere le distanze dal mucchio dei sofisti, molti dei quali certamente di scarsa levatura morale, oltre che intellettuale, nulla più che avvocaticchi di gente di malaffare.
E il principio della distinzione fu subito chiaro: mentre il vero filosofo è un cercatore di verità, e quindi di principi supremi, il sofista è nient'altro che un facitore di discorsi, persino indifferente ai contenuti ed alle testimonianze che reca pubblicamente.
Ciò che conta è la forma, non il contenuto. Oggi il sofista può parlare persino appassionatamente a favore di una tesi, che so, la pace con Sparta, e domani dire o insegnare a dire esattamente il contrario, e cioè l'esigenza di una guerra.
Ora, tutto questo risulta sconcertante ed imbarazzante anche oggi, figuriamoci allora, in una città particolarmente morigerata come Atene. Il movimento sofista creò dunque anche imbarazzo e fastidio, specie tra i galantuomi del tempo, e non ha molta importanza se essi fossero aristocratici o democratici o persino sostenitori di una tirannia.
Per il tipico galantuomo "tutto d'un pezzo", ancor più che per il vero filosofo di scuola anassagorea o eraclitea, o pitagorica, il sofista rappresentava dunque anche una minaccia all'ordine ed ai costumi, un vero e proprio attentato all'ordinamento morale ed intellettuale della società.
Non credo sia utile, pertanto, credere che la pratica dell'insegnamento a pagamento si diffuse facilmente e senza incontrare ostacoli.
Gli stessi sofisti dovettero in qualche modo darsi delle regole, e professare, almeno esteriormente, una certa castigatezza.
Spesso si presentarono come maestri di virtù. Lo dichiara lo stesso Mario Untersteiner, quando scrive, citando Adolfo Levi, nella Premessa al suo lavoro I sofisti: "tutti sofisti ... dichiaravano d'impartire ai loro discepoli un insegnamento rivolto a finalità insieme individuali e sociali."
Ma a prescindere da questo proposito dichiaratamente comune, l'Untersteiner, come la quasi stragrande maggioranza degli studiosi, afferma con grande chiarezza che nei sofisti "non devesi scorgere una scuola filosofica abbastanza uniforme e coerente."
In realtà ognuno professava una propria visione del mondo e dell'uomo, nutriva personalissime opinioni sugli dei, la religione, i limiti della conoscenza umana; e probabilmente anche sul concetto di virtù, nonostante l'apparente unitarietà, si registrò una gamma molto vasta di posizioni.
Tra il già menzionato Prodico di Ceo e Protagora, non pare esservi nessuna convergenza. Ma anche tra Gorgia e Protagora le differenze e le contrapposizioni, come vedremo, saranno inconciliabili. Antifonte sarà l'antiGorgia per eccellenza, e pure esprimerà una posizione antitetica a quella di Prodico. Ippia, infine, per quanto dipinto da Platone come un vanesio pieno di boria, fu una sorta di mistico dell'idea di giustizia, un bravuomo che seppe comprendere molto della natura umana, e, forse, uno dei pochi democratici convinto, per prima cosa che, se si vuole la democrazia, della necessità di regolarla non in modo arbitrario, secondo convenienze di parte, ma con criteri obiettivi.

Per inquadrare meglio il fenomeno a noi interessa la critica che filosofi posteriori e contemporanei rivolsero ai sofisti.
E' stato osservato che, sotto un certo aspetto, il giudizio di Platone e di Aristotele si è rivelato esageratamente negativo. Per Platone, in particolare, "sofista" divenne sinonimo non già di sapiente, ma di imitatore del vero sapiente, quando non di mistificatore della sapienza a fini di lucro.
Senza dimenticare che chi insegna solo per lucro, quando non abbia l'autorità sufficiente, non può imporsi più di tanto come maestro, ma deve spesso accondiscendere ai capricci ed ai desideri dei propri allievi, onde evitare il licenziamento, è certamente vero che in tutti i sistemi a pagamento si nasconde spesso un sottile gioco nel quale la frode è sempre in agguato.
La lezione si protrae oltre il lecito. Un programma può presentarsi esageratamente lungo e complesso, quando potrebbe essere, al contrario, breve e conciso. C'è sempre un "di più da imparare" e non si sa mai quando arrivi la fine. Insomma, nella propria debolezza di salariato, il sofista non naviga in una condizione aurea ed invidiabile, ma in una precaria dipendenza dal padrone che lo paga, il padre del suo allievo, se lo paga, ed, allo stesso tempo si trova nella necessità di perpetuare all'infinito il proprio compito, onde evitare di trovarsi troppo presto senza lavoro.
A lungo andare, anche nei migliori, animati da una sincera passione o vocazione per l'insegnamento, si può essere infiltrata una forma di sottile ipocrisia.
Platone, che pure non si faceva pagare, ebbe allievi terribili come i tiranni di Siracusa; ma di gente come Dioniso sono piene le strade, le famiglie dei ricchi e dei potenti, come quelle dei poveri e dei deboli. Non possiamo dubitare che pure Aristotele ebbe grandissime difficoltà come precettore di Alessandro Magno, un ragazzo inquieto e smanioso di gloria, anche se, probabilmente, di grande intelligenza.
Ecco, allora, che il problema dei sofisti, tutto sommato, assume una luce diversa, diventa anche il problema della difficoltà dell'insegnante in generale, e dell'insegnante prezzolato in particolare, l'insegnante che deve piacere al padrone di casa ed alla signora, l'uomo che deve agire con tatto, prudenza, sapienza mondana.
Tutto questo avrebbe potuto portare al successo personalità fondamentalmente viscide. Non c'è dubbio, allora, che sulle pesanti considerazioni di Platone ed Aristotele influirono anche questi elementi.

Sarebbe interessante comprendere perchè Protagora incontrò comunque un certo consenso, mentre Anassagora venne rifiutato non solo dagli ateniesi comuni, ma persino da Socrate ( e da Platone).
Lo storico A. Heuss ha osservato che ciò non dipendeva solo dall'ambiente ateniese, ma anche da atteggiamenti intrinseci alle filosofie professate: i filosofi della natura di impronta ionica erano esoterici: le loro conoscenze non erano destinate a tutti.
Al contrario, i sofisti cercavano la pubblicità. "Pur avendo anch'essi teorie complicate, accessibili solo con uno sforzo mentale, ritenevano che almeno le loro conclusioni potessero acquistare una portata più generale, ed in un certo senso avevano ragione.
Anzitutto essi volevano spiegare l'uomo, e quindi questa illuminazione interessava gli uomini stessi. In realtà le loro scoperte erano stimolanti. Mentre i "fisici" avevano decifrato il mondo fenomenico come "natura" (physis), ai loro occhi l'ordinamento umano si stendeva su due piani. Da un lato esso si presentava essenzialmente come il regno della convenzione (thésis), dall'altro rivelava una realtà esistente per natura. Questo smascheramento della società poteva condurre a risultati sorprendenti. Per esempio si diceva che gli uomini seguono un istinto incessante di potenza e che il loro ordinamento sociale non è altro che il prodotto di una scelta arbitraria. Era facile giungere alla conclusione normativa che così, appunto, deve essere e che il più forte, quando prevale, ha sempre il diritto dalla sua parte."

In realtà il problema non è questo. Alcuni sofisti evidenziarono, piuttosto, e forse per primi, che tra natura, o meglio, istinto, e leggi e quindi educazione a rispettare leggi e regole, non vi è coincidenza, ma semmai contrapposizione. L'uomo si trova come tirato da due nature contrapposte, quella che poi Platone chiamerà poi come l'anima concupiscente e quella razionale. Nello spirito di Pericle esse trovano una soluzione armoniosa e compatibile, non deve esistere questo dualismo, di fatto non esiste, noi siamo già diversi!
E questa diversità, dirà ancora Pericle, è sotto i nostri occhi. Per noi non è vergognoso l'essere poveri, è vergognoso il non fare nulla per uscire dalla povertà. Nel rispetto della convivenza civile e delle sue regole, si può lavorare il giusto, faticare il giusto per conseguire benessere. Ogni singolo individuo è responsabile del suo futuro. (Schiavi a parte, ovviamente. Non lo si dimentichi mai.)
Questa teorizzazione implica di per se che il più forte, ma in una civiltà, il più abile, attivo ed intelligente, faccia più strada del meno abile, e questo, indipendentemente dalle sue origini sociali.
Coerentemente con questo impianto teorico, un certo senso della giustizia vorrebbe che a tutti fossero date medesime opportunità educative. E fu questo il limite della teoria periclea della democrazia, perchè non trovò una reale applicazione pratica.

La riduzione al conflitto tra egoisti e solidali che attuarono alcuni sofisti, fu, quindi, una rottura unilaterale, parziale, e, tutto sommato, politicamente irresponsabile, dell'ideologia liberal democratica di Pericle, e quasi un invito alla lotta di classe, da un lato, ed ad un rinchiudersi in una socialmente sterile ricerca del vero bene dall'altro.
Le conseguenze non mancarono di farsi sentire: l'epoca di Socrate e di Platone rispecchiò la degenerazione delle idee e dei costumi, ed è su questa decadenza della civiltà e della democrazia che si sviluppò una grande filosofia.
  

Protagora

La vita

Platone scrisse che Protagora era molto più vecchio di Socrate. Probabilmente, nacque ad Abdera nel 485 a.C., o addirittura nel 492.
Sull'identità di suo padre c'è qualche incertezza. C'è chi dice Artemone, e chi dice Meandrio, nome che sembra più consono ad una origine ionica. Pare si trattasse di un uomo molto ricco.

Non sembra possibile ricostruire il percorso formativo di Protagora e stabilire quali furono i suoi maestri. Filostrato racconta che ebbe rapporti con i Magi persiani in occasione della spedizione di Serse nel 480 a.C., ma questo costringerebbe a retrodatare ulteriormente la data di nascita.
Anche la notizia di un Protagora discepolo di Democrito, pure nativo di Abdera, pare altamente improbabile per questioni cronologiche.
Senza entrare nel merito di una disputa ancor oggi irrisolta, pare più accettabile la tesi di chi sostenne che Democrito e Protagora furono grosso modo contemporanei, e che fu il primo a polemizzare con il secondo, sia pure indirettamente, e che il terreno di contesa fu indubbiamente quello dell'insufficienza delle sensazioni per capire la struttura del reale. Mentre Democrito asseriva che i sensi possono anche ingannare, Protagora, al contrario, affermò che essi non ingannano mai, anche quando la stessa cosa sembra produrre in noi sensazioni del tutto diverse e quindi contraddittorie. Ciò è dovuto al cambiamento che si è verificato nella cosa, oppure in noi.

La vera storia di Protagora cominciò quando, venuto ad Atene, si incontrò con Pericle. Tra i due si stabilì una profonda intesa e il sofista ricevette appoggi, ed incarichi importanti, quale quello di preparare la legislazione di Turii, la colonia fondata da Pericle nel 444 a.C.
Lo statista ateniese avrebbe voluto fare della colonia una sorta di centro panellenico, non una copia di Atene.
In tal senso Protagora elaborò un testo che teneva conto non solo dell'ispirazione democratica ateniese, ma del contesto specifico e del diritto imperante nelle colonie greche dell'Italia meridionale.

Si sa, inoltre, che Protagora, ad Atene, fu amico del ricco Callia e frequentò la casa di Euripide.
Fece molti viaggi, ed in Sicilia conobbe il giovane Ippia, altro celebre filosofo annoverato tra i sofisti e protagonista di due dialoghi platonici.

Molti studiosi, tra cui Olaf Gigon, negano che Protagora sia stato processato ad Atene per empietà ed ateismo.
Ed altrettanto leggendaria pare la notizia che una massa di fanatici raccolse i libri di Protagora e li diede alle fiamme nell'agorà.
Ma su questo le opinioni sono discordi. In realtà, come confermano le vicende di Anassagora, e poi di Socrate, il conservatorismo ateniese, comune, come si è già detto nel file d'introduzione ai sofisti, sia agli aristocratici che ai democratici, potrebbe aver toccato picchi di intolleranza piuttosto alti.
Tutti concordano nel ritenere che Protagora sia poi perito in un naufragio, mentre si recava in Sicilia, a tarda età.
In alcuni testi di storia della filosofia si trova scritto che Protagora fu molto popolare. Ciò potrebbe essere vero in un senso, ed errato in un altro. Si può essere popolari in negativo. Come vedremo, ci sono molte ragioni per pensare che Protagora non fosse amato dal popolo ateniese, ed in genere, dalla gente comune.
Ma questo sembra un dato comune alla stragrande maggioranza, non solo dei sofisti, ma dei filosofi in generale.

Le opere

Non è facile determinare con certezza quanti e quali scritti compose Protagora. Sono andati tutti persi e rimangono solo alcuni frammenti.
Di certo, si riconosce generalmente che Protagora fu l'autore delle Antilogie, opera in due libri. Il titolo significa letteralmente Discorsi contraddittori e rinvia ad una delle concezioni fondamentali di Protagora, ovvero che sul medesimo argomento sono possibili discorsi completamente opposti e ugualmente veri e fondati.
Secondo l'Untersteiner, le Antilogie trattarono quattro problemi fondamentali: 1) intorno agli dei; 2) intorno all'essere; 3) intorno alle leggi ed a tutti i problemi che riguardano la vita delle città; 4) intorno alle arti.
Circa il primo problema è probabile che Protagora abbia anche scritto un paragrafo aggiuntivo Intorno alla sorte nell'Ade, negando un'esistenza separata dell'anima, e dunque una sua prosecuzione nell'al di là. Ma il punto focale dell'opera consisteva nell'affermazione che gli dei non hanno alcuna influenza nelle vicende umane.
Queste tesi, tuttavia, sembrano contraddire lo stesso assioma fondamentale proposto da Protagora, ovvero che sul medesimo tema sono possibili discorsi alternativi l'uno all'altro. E' mia convinzione, pertanto, che Protagora non si sia sbilanciato in un alcuna affermazione perentoria, ma si sia semplicemente pronunciato a favore delle tesi che a lui parevano più probabili, ovvero che gli dei non hanno alcuna influenza sulle vicende umane, e che l'anima non goda di alcuna esistenza eterna.

La seconda parte dell'opera, Intorno all'essere, consisteva principalmente in una polemica contro gli eleati e la loro dottrina. Per Protagora era inaccetabile la tesi eleatica che la percezione sensibile inganna soltanto.
E' probabile che lo svolgimento del terzo problema, quello riguardante le leggi e i problemi delle città, sia servito a Platone per riportare i punti salienti del pensiero di Protagora nell'omonimo dialogo.
Il quarto tema allude alle arti in generale: qui è possibile che Protagora abbia collocato le sue posizioni sulla matematica e sull'arte della contesa e della confutazione, ma sembra improbabile che il titolo del relativo capitolo fosse Intorno all'arte eristica. Secondo gli studiosi più accreditati, infatti, il termine eristico aveva un significato negativo persino presso gli stessi sofisti: voleva dire discorso cavilloso, pretestuoso e calunnioso.

La verità o Intorno alla verità è il titolo della più importante opera di Protagora. L'Untersteiner ipotizza che si tratti di un titolo posticcio, proposto da Platone, e ritiene possibile che in origine il vero titolo fosse Discorsi demolitori.
Lungi dall'avere un significato solo distruttivo, il discorso demolitorio aveva come scopo lo smascheramento della tesi preconcetta, e l'arbitraria disposizione umana a credersi nella verità, quando il lato soggettivo e parziale aveva la prevalenza su quello oggettivo.
Il merito del sofista Protagora stava indubbiamente nella scoperta delle ragioni dell'altro e nella comprensione dei motivi di tali ragioni.

L'opera platonica che spiega ed insieme evidenzia i limiti del pensiero di Protagora non è il dialogo omonimo, ma il Teeteto, scritto che insieme al Sofista, tocca davvero i vertici della speculazione filosofica.
Al contrario, leggendo il dialogo intitolato Protagora, viene da chiedersi se Platone renda di Protagora un profilo fedele all'originale.
Credo che nell'intento di mostrare i limiti e le incertezze del vecchio sofista da un lato, e nell'esaltare la profondità del pensiero socratico dall'altro, Platone abbia finito col deformare un poco il carattere ed il pensiero di Protagora.
Nel dialogo platonico, questi cade in difficoltà di fronte alla domanda socratica sull'insegnabilità delle virtù e sulla successiva domanda concernente il carattere delle virtù, il loro essere una cosa sola, oppure una serie di qualità particolari, non collegate l'una all'altra.
La vittoria di Socrate su Protagora, così come lo descrisse Platone, appare forzata. Certo non potevano mancare gli argomenti empirici a favore di una considerazione pluralista delle virtù. In molti individui esse sono concentrate, in altri del tutto assenti, ma è evidente che la media degli uomini dimostra che alcuni sono solo intelligenti, altri sono solo corretti, altri ancora sono solo buoni, ed altri ancora non difettano di coraggio e prudenza, ma possono essere pigri, oppure condizionati dal loro dovere e dai loro obblighi, e quindi necessitati ad agire in modo non conforme a principi virtuosi universali.
Nel dialogo platonico, in sostanza, viene a mancare il dato fondamentale della dottrina protagorea, ovvero che sul medesimo argomento, ad esempio, il carattere e la natura delle virtù sono possibili due o più discorsi del tutto diversi, ed ugualmente veri.
Se Socrate aveva dunque ragione a porre in risalto l'unitarietà della virtù, Protagora avrebbe potuto facilmente dimostrare quanti uomini sono solo una somma di qualità positive e negative.

Analogamente, rispetto ad uno dei motivi di più accesa discussione, la celebre affermazione del poeta Simonide su quanto sia difficile l'essere buoni, che probabilmente era stata pronunciata con un sospiro, Platone non sembra qui così profondo come in altre occasioni.
L'essere buoni d'animo, persino il sapere che cosa sia la bontà, non ci risparmia affatto dalle prove della vita vera, nella quale è davvero difficile essere buoni sempre e comunque.
In Protagora vi era una consapevolezza dello sforzo che ognuno deve fare su sé stesso per essere buono, corretto, giusto, anche quando gli altri si comportano in modo contrario.
In Socrate questa dimensione politica, sociale e relazionale del comportamento umano quasi scompare. Tutto si risolve nella conoscenza del bene in sè, come se questa fosse sempre sufficiente, anche di fronte ai mali ed alle ingiustizie, a vincere la tentazione del male. Ma la soluzione socratica si arresta proprio di fronte alle situazioni più spinose: situazioni che lo stesso Protagora aveva invece ben intravisto. Potrebbe, ad esempio, essere lecito fermare con ogni mezzo un uomo che sta per compiere un assassinio?
E' l'esame delle circostanze che ci consente di decidere per il meglio o per il peggio, non il rispetto dogmatico di qualche principio. Lo stesso Kant, che pure credeva nella derivazione a priori dei principi morali, ammise che la regola dell'azione risiedeva nella massima di operare cercando di essere d'esempio in situazioni del tutto inedite.
Ed accusare Kant di relativismo morale pare davvero assurdo.

L'uomo misura di tutte le cose

La storiografia ha posto nella ormai celebre affermazione di Protagora, l'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per quello che sono, di quelle che non sono per quello che non sono, il centro stesso della sua filosofia.
Nicola Abbagnano, sulle tracce della confutazione che Aristotele svolse delle dottrine protagoree in Metafisica, suggerisce di cercare il presupposto di questa posizione in Eraclìto.
Protagora accettò il fluire ed il divenire come dati innegabili della realtà che ci circonda, ed allo stesso tempo accolse l'idea della diversità delle sensazioni e dei gusti. Come uomini abbiamo molto in comune, ma abbiamo tutti un modo di vedere e sentire particolare. Ed in situazioni particolari la stessa cosa che ci è parsa buona e gradevole, può sembrarci cattiva o sgradevole. Se siamo malati, ad esempio, ci ripugnano cibi che divoremmo se sani.
Invece di opporre a questa realtà dominata dalla doxa, cioè dall'opinione, un mondo di verità ideali, od addirittura il granitico concetto di essere parmenideo, Protagora, accettò la realtà del mondo e si persuase che era anche possibile istruire gli uomini a comprendere la diversità ed il valore della diversità, avendo come fine non un generico riconoscimento del pluralismo, ma una maggiore comprensione reciproca e lo scopo politico di arrivare a decisioni concordi attorno a ciò che è più utile al singolo ed alla comunità.
Condivise con Pericle la convinzione che la democrazia fosse il sistema politico più consono alla civiltà dei greci, in chiara antitesi alle forme di governo autoritarie dei barbari. E, sempre con Pericle, si fece promotore dell'idea che non gli dei, o il fato, sono padroni del destino umano, ma che, da un certo punto in poi, ognuno è responsabile della sua vita.
Sebbene non vi siano frammenti particolarmente illuminanti su questo punto, pare dunque probabile che Protagora non disdegnasse la ricchezza, l'accumulo di fortune e la vita agiata, in questo distinguendosi fortemente sia dai pitagorici, sia dalle scuole socratiche successive.
Si potrebbe dire che la vita per Protagora ha un valore in sè, ed è degna di essere vissuta pur rimenendo sempre al di qua dei grandi misteri della vita stessa, quali l'esistenza di un dio o l'eternità dell'anima.
Su questi punti l'agnosticismo di Protagora fu radicale e decisamente antimetafisico.
Disse: "riguardo agli dei, non so né che sono, né che non sono, né di che natura sono." Affermò ancora che la vita umana è troppo breve per venire a capo di del problema del divino.
Non deve sfuggire, tuttavia, che nel racconto platonico il filosofo di Abdera fece ricorso a poeti e miti per spiegare alcune particolarità del mondo.
Nei poeti, come nel resto negli autori tragici, egli vide dei maestri sia diretti che indiretti. La visione del tragico e degli eccessi umani costituiva in ogni caso un'occasione per riflettere, più che un incitamento alla vita passionale.

La confutazione socratica delle dottrine di Protagora nel Teeteto

Come ho già detto, ritengo il Teeteto di ben altro spessore filosofico rispetto al Protagora.
In esso Platone, attraverso la stringente dialettica di Socrate, evidenziò che tra sensazioni e conoscenza passa una differenza fondamentale: tutte le sensazioni arrivano alla mente, cioè all'anima, ed è essa che decide cosa sia vero e cosa no. Non è in discussione la verità delle sensazioni, ma il discorso, il ragionamento su di esse.
Ciò che distingue l'uomo da un qualsiasi altro animale è questa facoltà di ragionamento, di revisione critica.
Socrate afferma allora che l'uomo che conosce veramente è diverso dall'uomo che si ferma alle sole sensazioni, giacchè ogni uomo che ad esse si limitasse, essendo egli stesso oggetto di un mutamento incessante, diventerebbe tanti uomini quante sono le sue sensazioni ed i suoi stati d'animo. E cesserebbe di essere un uomo unito in sé stesso, che ragiona.
Socrate, allora, quando Protagora afferma che ciò che appare a ciascuno, questo anche è, obbietta che nel mondo ci sono uomini che sanno di più e uomini che sanno di meno, e chi sa ha opinioni vere, e chi non sa, opinioni false, sicchè, anche ammettendo che tutte le opinioni siano vere, si dovrà ammettere, e dovrà ammetterlo lo stesso Protagora, che hanno vera opinione anche quelli che affermano che non tutte le opinioni sono vere.
" E allora - dice Socrate - se è vero che tutti hanno opinioni vere, anche quelli che pensano che taluni o molti non hanno opinioni vere, necessariamente questi taluni o molti non potranno avere opinioni vere."
La conclusione paradossale è, dunque, che Protagora dovrebbe ammettere che anche chi afferma che Protagora dice il falso, avrebbe opinione vera e fondata.
Questa confutazione non sembra, tuttavia, ancora sufficiente. Socrate concede che le sensazioni siano del tutto personali, concede persino che negli affari pubblici si giudichino onesti o turpi determinati comportamenti secondo criteri di valutazione diversi, ma infine si chiede: cosa potrebbe accadere se anche di quelle cose che implicano un giudizio sui loro effetti ammettissimo l'opinione?
Ne andrebbe della scienza, cioè della sapienza vera ed incontrovertibile. Questo Socrate non lo dice, perchè, come al solito, cambia discorso al momento cruciale, lasciando a noi la fatica del concludere.
Ma a nessuno dovrebbe sfuggire che con questo ragionamento siamo davanti al problema fondamentale della filosofia, compresa quella contemporanea: quando possiamo dire che siamo davvero in possesso di una scienza e non di semplici opinioni?

Il significato di contraddizione in Protagora

E' interessante notare che quando Aristotele, nella Metafisica, cerca di chiarire in che senso sono impossibili ed assurde affermazioni opposte e quindi discorsi opposti sul medesimo oggetto, non chiamò in causa direttamente Protagora, ma i sostenitori della sua dottrina. Può darsi che questo dettaglio non abbia alcun significato particolare, ma sono propenso ad interpretare il dato come la sottolineatura, da parte di Aristotele, di una differenza qualitativa tra Protagora ed i suoi fedeli sostenitori.
Come spesso gli accadeva, Aristotele qui fu palesemente polemico ed ironico. "Non si può dire che l'uomo è una trireme e dire che l'uomo non è una trireme. L'uomo non è una trireme."
Non si può dire che entrambi i giudizi siano veri, a meno che, ovviamente, non si usi la trireme come metafora. "L'uomo è simile ad una trireme: quando ha il vento in poppa, viaggia senza fatica, quando ha il vento contro, deve remare."
Questo implicito distinguo tra Protagora ed i suoi allievi dovrebbe aiutare a ristabilire la verità storica sul vero significato della dottrina di Protagora, ovvero che non su tutti gli argomenti è possibile fare dichiarazioni opposte ed allo stesso tempo vere senza cadere nell'assurdo.
Aristotele fece quest'esempio: non è possibile dire che è la stessa cosa gettarsi in un precipizio e non gettarsi in un precipizio. Non è possibile dire che uno che si getta, si fa male; ed allo stesso tempo dire che uno che si getta, non si fa male.
Su temi come questi è dunque assurdo sostenere la verità di due discorsi alternativi.
Ma, sarà proprio vero che Protagora pensò la sua dottrina in termini così dogmatici ed assoluti?
Data la statura del personaggio, dato che Pericle l'avrebbe messo subito alla porta se si fosse presentato con simili teorie estremistiche, invece di accoglierlo, sono fortemente convinto del contrario.
Purtroppo, non disponendo che di frammenti, si tratta di una semplice ipotesi al momento indimostrabile.
Ma che lo stesso Aristotele avesse una certa stima di Protagora, e dell'importanza della sua dottrina nello sviluppo del pensiero, è dimostrato dall'ammirata citazione dello stesso in ordine al carattere teorico ed astratto della geometria.
Di fatto egli accettò come valida l'osservazione del sofista: nessuna cosa esistente ha le caratteristiche che la matematica attribuisce agli enti geometrici. Nella realtà non esiste alcuna tangente che tocchi un oggetto avente una circonferenza in un solo punto.


Gorgia di Lentini

Gorgia nacque a Lentini, in Sicilia, probabilmente nel 484 a.C. Fu allievo di Empedocle e crebbe in un ambiente culturale che si alimentava del contrasto tra seguaci dell'eleatismo, la setta pitagorica ed i sostenitori di Empedocle.
Visse a lungo, si dice 109 anni. Fu soprattutto un retore, diremmo noi: più un critico letterario ed un avvocato che un filosofo, ma scrisse un'opera, da alcuni giudicata semiseria, di chiaro contenuto antieleatico e, soprattutto antiparmenideo, che molti ritengono una sorta di burla.
Di essa vi è un ampio stralcio in Sesto Empirico ed un altro importante riferimento si trova nel testo di un anonimo pseudo-aristotelico del III secolo dopo Cristo.
In genere è conosciuta come Intorno alla natura, ma il vero titolo potrebbe essere stato Del non essere, giacchè la conclusione paradossale cui essa perviene è che nulla esiste, e che se qualcosa esiste non è conoscibile e comunicabile.
Tale radicale attacco aveva un duplice bersaglio: il razionalismo eleatico e l'empirismo, o meglio, il semiempirismo ionico ed eracliteo che ad esso si contrapponeva, muovendo dalla constatazione che la realtà è il molteplice, il divenire delle cose, la natura e non l'essere immobile di Parmenide.
La conclusione gorgiana preannunciava un radicale nichilismo ed un altrettanto radicale scetticismo ma, secondo diverse interpretazioni contemporanee, essa andrebbe intesa, piuttosto, come una denuncia della pretesa umana di avere certezze incrollabili, e di avere quindi una scienza della realtà.
In tale ottica, il senso delle confutazioni gorgiane sarebbe quello di far osservare ai più che le nostre convinzioni intorno alle cose non sono il frutto di ragionamenti logici o di autentiche esperienze, ma di un processo di autopersuasione dovuto ai discorsi che abbiamo letto od ascoltato.
In altre parole: vi sarebbe in Gorgia una sconcertante anticipazione di quella che è la nostra condizione attuale: pochissime esperienze dirette, pochissime conoscenze di prima mano, una conoscenza solo libresca e virtuale fondata sulla fiducia che assegniamo ai giornali, alle tv, alla scienza ufficiale, oppure alla stampa alternativa ed alla controinformazione.

Francamente tutto questo mi pare eccessivo, anche perchè in nessun frammento di Gorgia si può in qualche modo trovare la traccia di una concezione così vasta e profonda.
Di Gorgia si può solo dire, a mio avviso, che a differenza di Eraclìto, il quale intendeva il logos come comprensione e ragione delle cose e del loro fluire, concepì il logos come semplice discorso, e quindi come semplice capacità rappresentativa ed argomentativa.
Per Gorgia non vi era, dunque, un'opposizione tra discorso e realtà, ma solo un'opposizione tra discorso e discorso.
Tra le opere di Gorgia, sono particolarmente note ed importanti l'Encomio di Elena e la Difesa di Palamede, perchè è in esse che Gorgia diede davvero il meglio di sé come retore e come avvocato, ma ci sono giunti anche alcuni frammenti di un Epitafio, cioè un discorso commemorativo sui caduti in battaglia, di cui diremo in chiusura, per mostrare la dottrina etica di Gorgia.

Quando penso a Gorgia non posso sottrarmi all'idea dell'avvocato del diavolo, non già nel senso di difensore di cause che paiono impossibili a sostenersi, se non per illimitato credito che attribuiamo all'accusato e per la fede nella sua innocenza, quanto all'abilità che Gorgia dimostrò nel discolpare diversi tipi di accusati.
Fosse vivo oggidì, Gorgia non esiterebbe a difendere madri che uccidono i loro figli e figli che uccidono i loro genitori, non già per mancanza di un qualsiasi senso morale, ma per un senso umano forse più ampio del consueto.
Ciò che in fondo nobilita Gorgia è che egli non investì il proprio talento per accusare innocenti, come tanti procuratori dell'Inquisizione nel medioevo, ma solo per difendere presunti colpevoli, spesso condannati solo dalla normale inclemenza e dal sommario senso della giustizia del volgo.
E' tuttavia da notare che il tema di Elena non è il tema di Medea, la madre che uccise i suoi figli. Gorgia si scelse, per l'esercizio retorico, un oggetto più semplicemente difendibile e meno scabroso.

Orbene, con Gorgia, siamo ad un punto altissimo della teoria della difesa. Non esistono cause perse in partenza. Anche Hitler, Milosevic o Bin Laden sono difendibili. Tutto sta ad intendersi su cosa sia la responsabilità, su cosa si possa applicare, in quale contesto, con quali motivazioni.
Ecco perchè, in Gorgia, la potenza del discorso, la sua capacità di abbagliare e persuadere è tutto, ovvero la cosa più importante.
Quello che in Protagora era un principio non portato fino alle estreme conseguenze, ovvero che è possibile organizzare su diversi argomenti un discorso del tutto alternativo, ma comunque vero, fondato su precise esperienze e ragioni, in Gorgia diviene un'applicazione del tutto sviluppata.
Tuttavia, a differenza di Protagora che assegnava grandissima importanza alle sensazioni ed alla percezione soggettiva delle cose e degli eventi, in Gorgia la percezione è di nuovo inganno dei sensi.
Per Protagora tutto è vero; per Gorgia tutto è falso, è impossibile la verità stessa. Le ragioni e le esperienze nascono dal discorso stesso, ed in esso tramontano. Tra discorso e realtà non c'è più comunicazione, perchè l'unica realtà, ormai, è la chiacchiera.

Gorgia è un finissimo ragionatore sia dove ci confonde, o comunque ci prova, sia dove, in fondo, cerca solo di chiarire in che senso una giustificazione è davvero una giustificazione e non un pretestuoso nascondersi dietro il classico dito.

La prima cosa che va compresa è la seguente: per Gorgia, ma non solo per lui, perchè la situazione si presentava simile per tutti quelli che bazzicavano agorà e tribunali, la società civile, la polis, aveva prodotto un mondo di leggi e di regole ben ordinato.
In questo mondo relativamente sicuro, in cui ognuno, perfino lo schiavo privo di diritti, poteva sentirsi al riparo dalla prepotenza dei più forti, il delitto, il furto, l'azione criminosa, la vendetta, l'adulterio, l'offesa, rappresentavano l'irruzione dell'irrazionale, una sfida non solo nominale alla legge ed all'ordine, bensì una sfida reale alle più ovvie convinzioni sulla razionalità.
L'essenza del tragico, secondo alcuni, stava proprio in questo: il fato e gli dei si incaricavano di ridicolizzare ogni umana pretesa di assicurare l'ordine e la sicurezza. Il caos ed il disordine rientravano da ogni lato della vita. E gli autori tragici si incaricarono di rappresentarlo.
Edipo non voleva uccidere suo padre, così come aveva decretato l'oracolo; eppure finì con l'ucciderlo.
E' facile comprendere che, se questo fatalismo è parte fondamentale della mentalità dominante, nessuna filosofia potrà averne ragione. Nemmeno la new age inaugurata da Pericle e dai suoi intellettuali: Anassagora e Protagora.
L'illusione della libertà umana, l'illusione di poter sfuggire ai decreti del cielo è regolarmente smentita dai fatti.
Che poi non siano fatti, ma solo storie di poeti, è tutto da dimostrare. La tragedia incontra il favore popolare non già perchè racconta storie fantastiche, ma perchè incrocia la realtà, pur esagerandola.
A Pericle che sostiene che "non è vergognoso l'essere povero, ma il non far nulla per non esserlo", la realtà stessa risponde che "solo uno su mille ce la fa, e, se ce la fa, è perchè così il cielo ha decretato."
In questo pessimismo di fondo, che si nutre di un dubbio radicato su quale sia la vera giustizia degli dei, ha buon gioco la tesi gorgiana dell'innocenza degli uomini, e si noti, persino delle donne.
Fu Gorgia, nell'Encomio di Elena, a rompere con il maschilismo ed il patriarcato. Era nell'aria, d'accordo, ma nessuno aveva osato tanto in modo così esplicito. La donna, secondo gli uomini, ma anche secondo le donne, doveva guardare al modello Penelope ed Andromaca: sposa fedele, buona madre.
Con la difesa di Elena, Gorgia, rovesciò una serie incredibile di principi, attingendo, si faccia attenzione, non già ad un mondo alieno ed inesistente, ma al mondo delle credenze e delle esperienze, al senso profondo del tragico che gli stessi greci coltivavano.
In sostanza, disse Gorgia, se noi crediamo che l'individuo non sia libero di fare le scelte che preferisce, allora nessuno è colpevole di niente.
Nessuno si è chiesto, per quanto ne sappia, se Gorgia abbia davvero creduto in quello che affermava. Personalmente credo di no.
Ma questa tesi, in fondo, era la risposta che molti si aspettavano. Una sorta di giustificazione dei loro errori, delle loro intemperanze e delle loro prepotenze.
Senza rendersene conto fino in fondo, come dimostrerà Platone nel dialogo Gorgia, il retore di Lentini aveva indicato la via maestra all'individualismo più sfrenato, alla ripulsa delle regole e delle leggi, al diritto del più forte di fare quello che più gli piace nella società.

L'encomio di Elena

Nella difesa di Elena, il ragionamento di Gorgia fu molto più sottile di come l'ho presentato finora. Esso abbracciava tutti i possibili punti di vista, tranne uno, quello per il quale la donna Elena era in grado di opporsi per fondata decisione al rapimento di Paride.
Si dirà che questo punto non poteva essere preso in considerazione, perchè Gorgia non postulava la sovranità della donna su sé stessa, ma la sua totale condizione di dipendenza. Ma questo non poteva significare che non c'era libertà di scelta, ma solo che Elena aveva innanzi a sé solo una scelta limitata: o la schiavitù in casa di Menelao, o quella in casa di Paride, in terra straniera, tra persone che potevano anche esserle ostili.
Più fondata mi pare l'obiezione di chi sostiene che, nel tentativo di giustificare, Gorgia abbia sortito un effetto opposto alle sue possibili intenzioni: chiese l'assoluzione per incapacità totale di intendere e volere. Non si può condannare una deficiente.

Ma, andiamo con ordine.
Gorgia sostenne che Elena poteva essere stata indotta a seguire Paride per quattro diverse ragioni: o per decreto divino, o per violenza, o perchè persuasa dal logos di Paride (cioè dai suoi discorsi di spasimante), o per decreto della necessità. Potrebbe sembrare che i sentimenti di attrazione o di amore dipendono, in Gorgia, più logos di Paride che non dal suo aspetto fisico. Ma, il significato gorgiano di logos si deve intendere come una sorta di discorso interno: è Elena che parla a sè stessa, è una voce che prende vita come persuasione e si nutre anche dell'apparenza sensibile.

Cosa intendeva Gorgia per decreto della necessità?
Mi pare che la risposta più plausibile sia questa: sia che si creda agli dei, sia non vi si creda, la condizione umana è tale per cui a Elena risultava necessario, ovvero indispensabile, pena la vita stessa, seguire Paride. Ne sarebbe morta, o fisicamente o spirtualmente, se non l'avesse fatto.
Questo argomento è il più sottile ed il più razionale, per quanto sembri riconoscere l'irrazionalità dei sentimenti.
Anzi, è tanto più razionale in quanto riconosce l'irrazionale. In questo sta il suo valore. Per quanti sforzi l'uomo possa fare per ordinare il mondo ed i costumi secondo leggi, norme e consuetudini, verrà sempre il momento nel quale una qualsiasi Elena ed un qualsiasi Paride, violeranno queste regole per loro necessità vitale.
Il filosofo razionalista rischia di non capire; il moralista fa naufragio, l'uomo comune condanna e persino si accinge a tirar pietre per la lapidazione.

La difesa di Palamede

Quest'opera è di più difficile interpretazione perchè i frammenti sono molto scarsi.
L'Untersteiner vi rinviene diversi temi, che probabilmente meriterebbero più ampia trattazione, non ultimo quello che sembrerebbe riportare Gorgia alla convinzione che la civiltà non è un dono del divino all'uomo, ma una conquista faticosa dell'uomo stesso.
Ma la tesi di fondo della difesa di Palamede pare essere stata quella dell'impossibilità tragica di dimostrare la verità, quando la dimostrazione stessa non può contare su dati e testimonianze di fatto, ma solo su una logica che si contrappone ad un'altra logica.

Il non-essere secondo Gorgia

Sia che la si prenda sul serio, come opera filosofica a tutti gli effetti, sia che la si consideri solo come un'esercitazione retorica, o addirittura una burla composta in età giovanile, il trattato sul non-essere ha fatto discutere gli storici del pensiero filosofico.
Persino Aristotele se ne occupò, peraltro in un trattato andato perduto. Nella Metafisica il nome di Gorgia non ricorre, e questo potrebbe sembrare strano, ma in realtà, dimostra solo che, forse, ai tempi dello stagirita, era già chiaro che il lavoro di Gorgia era nientaltro che una presa in giro dei filosofi seriosi.
Tuttavia, in chiusura del Libro IV della Metafisica, Aristotele dice: sia quelli (Protagora) che affermano che tutto è vero, sia quelli che affermano che tutto è falso (Gorgia, per l'appunto), cadono in una clamorosa autoconfutazione delle proprie posizioni, in quanto, se tutto è vero, sarà anche vero quello che dice che diciamo il falso, e contemporaneamente, se tutto è falso, sarà anche falsa la proposizione che afferma che tutto è falso.

Chi prende sul serio le tesi di Gorgia, tuttavia, non ha torto del tutto.
Il ragionamento ha un punto forte e di eccezionale rilievo nella sua conclusione, che, peraltro, non ha quasi nulla a che fare con le premesse e le confutazioni precedenti.
Gorgia dice, infatti, che se anche l'essere fosse, non sarebbe nè pensabile, nè comunicabile. E questo, pur facendo le debite considerazioni e precisazioni, viene comunque a presentarsi come un dato di tante situazioni, anche moderne. Infatti, l'essere potrebbe venire qui inteso da Gorgia come totalità. E legando strettamente il concetto di totalità a quello di verità, pare a Gorgia impossibile sia pensare che comunicare questo senso profondo dell'essere.

Ma andiamo con ordine: le tesi di Gorgia erano sostanzialmente tre, legate l'una all'altra, ma non dipendenti l'una dall'altra:

1) Nulla esiste;
2) Se anche qualcosa esiste, non è conoscibile;
3) Se anche fosse conoscibile, non è comunicabile agli altri.

In tutta franchezza, per chiudere il cerchio, se ne poteva aggiungere una quarta, ovvero: se anche fosse comunicabile, non sarebbe comprensibile a chi riceve la comunicazione.

Ma vediamo come giustifica la tesi che nulla esiste.
Per Gorgia, il non essere è non essere, dunque non esiste, perchè se ci fosse, sarebbe insieme essere e non essere, il che è assurdo. D'altro canto, l'essere, se ci fosse, dovrebbe essere o eterno o generato, oppure eterno e generato insieme. Se fosse eterno, sarebbe infinito, e se infinito, non sarebbe in alcun luogo, ovvero non sarebbe affatto. Inoltre, se fosse generato, dovrebbe provenire o dall'essere o dal non essere; ma dal non essere non nasce nulla, e se fosse nato dall'essere, c'era già prima di nascere. Conclusione: l'essere non può essere né eterno, né generato, e neppure le due cose insieme, perchè l'una esclude l'altra. Allora? Allora, né l'essere, nè il non essere esistono. Non ho mai compreso come le premesse giustifichino una simile conclusione, ma essa è lì ed ognuno è libero di trarre le sue conclusioni.

La seconda tesi gorgiana è: se anche l'essere esistesse, non sarebbe pensabile, perchè se tutto ciò che esiste fosse pensabile, non esisterebbe più il falso, e quindi tutto ciò che si pensa sarebbe vero, anche la favola di cocchi che corrono sulla superficie del mare o quell'altra di Bellerofonte che vola.
Anche qui, a ben vedere, è palese che per affermare il falso di un Bellerofonte che vola, bisogna comunque muovere da un'esperienza sensibile vera, ovvero che gli uomini non volano, ma questo non sembra preoccupare Gorgia, che procede imperterrito, affermando che se è vero che non esiste ciò che pensiamo, allora sarà vero che ciò che esiste noi non riusciamo a pensarlo, e quindi risulta inconoscibile.

La terza tesi afferma che se anche fosse pensabile, l'essere non sarebbe comunque comunicabile, giacchè tra parole e cose c'è una bella differenza in quanto le parole non sono le cose, ovvero i fenomeni, ed il suono può solo essere udito, ed il colore può essere solo visto. Quando dico "rosso" non dico la cosa, ma solo un suono che potrebbe significare "rosso". E poichè ogni uomo, secondo una dottrina di estremo pessimismo, non percepisce allo stesso modo, ma ognuno capisce solo la propria persuasione, la parola, così come il discorso intero, potrebbe essere equivocato.
Il tragico della vita è nel costante equivoco che genera inganni continui.

Nei testi scolastici l'interpretazione più ricorrente di questo testo gorgiano è quella che afferma l'avvenuta distruzione delle tesi eleatiche attraverso i suoi stessi procedimenti dialettici.
A me pare che, in realtà, Gorgia non abbia distrutto alcunchè, e non già perchè le tesi eleatiche siano ancor vive e vegete, ma perchè esse, pur nella loro incompletezza e parzialità, rappresentarono pur sempre un mozzicone di verità, la realtà dell'esistente, rispetto alla sua completa negazione.

Gorgia è stato abile nel procedere alla scomposizione del nesso eleatico tra essere, pensiero e discorso, evidenziando in particolare la decisiva preponderanza del discorso sia sul pensiero che sull'essere. Il discorso, per Gorgia, è in grado di far essere ciò che non è, e di far sparire ciò che è, ovviamente solo nel pensiero, perchè nella realtà, né le cose, né le tracce, né i segni possono sparire mai del tutto.
Tuttavia, questa abilità non poteva e non può, in nessun caso, aver ragione delle cose stesse, le quali sono non solo sotto i nostri occhi, ma sotto le nostre mani, la nostra abilità tecnica nel manipolarle.
Nel nostro mondo quotidiano le cose esistono. Non c'è miglior argomento.

L'etica di Gorgia

Bisogna guardarsi dal credere che Gorgia fosse un immorale nel senso che noi oggi attribuiamo al termine.
Come gli altri sofisti, anch'egli, sia pure con meno enfasi, si presentò come un maestro di virtù, ma pose in chiara evidenza un dato, poi ripreso da Aristotele negli scritti di Politica, ovvero che non ci sono virtù assolute, ma solo virtù relative, che sono enumerabili. Diversa è la virtù del giovane, diversa è la virtù del cittadino maturo, diversa quella della donna e quella dell'anziano. E persino diversa saranno le virtù per un cittadino ateniese, per un barbaro e per uno spartano. L'importanza di un valore è data dal contesto in cui esso vive e dall'individuo che lo esprime.
L'Untersteiner valuta questo atteggiamento etico come irrazionale. Francamente non sono d'accordo, per il semplice fatto che a me pare del tutto irrazionale la pretesa di fondare un'etica assolutistica muovendo dal supremo concetto del bene e del male.
Del resto, se persino Platone riconobbe che anche in una banda di ladri devono vigere principi di reciproco rispetto e di legalità, pena il disfacimento della banda stessa, è evidente che il principio dell'etica non è diverso da quello della necessità che lo ispira: su quali basi è possibile una convivenza tra individui così irascibili, prepotenti, volubili e vanitosi come gli esseri umani?
Il punto da considerare, in Gorgia, è che egli anticipò Machiavelli nell'intendere che in guerra tutto è lecito.
Ognuno di noi, ovviamente, è libero di pensarla diversamente, ma intanto, i capi di stato continuano a pensarla così. I terroristi la pensano così. Tanti loschi affaristi credono di essere in guerra anche quando siamo in pace.
I politici credono di essere in guerra con il polo opposto, i colpi bassi si sprecano: tutti provano un fortissimo dolore sotto la cintura e le lacrime che si versano ogni giorno, in ogni parte del mondo, sono più numerose delle gocce di pioggia che provocano inondazioni.

Nell'Epitafio, un discorso di grande efficacia retorica, Gorgia scrisse, riferendosi ai caduti in guerra: "questi ispirati da dio possedevano il valore, di umana natura il destino di morte; ed effettivamente spesso si decisero per la bontà del vero giusto più che per l'arroganza del diritto positivo, e spesso più che per il rigore della legge per la perfezione del ragionamento, perchè credevano che questa legge è divina e universale: il dire e il tacere, il fare e il tralasciare ciò che si deve nel dovuto momento."
A coronamento della teoria della morte e del sacrificio su esposto, non potevano seguire parole più efficaci e persuasive, che hanno fatto scuola imperitura, purtroppo non solo tra i demagoghi. Quando il dovere chiama, con uno squillo di tromba, tutti a combattere, senza chiedersi il perchè.
Ma, ora, forse, è venuto il momento: sterminate masse umane, perchè?


Prodico di Ceo

Prodico nacque a Ceo, forse in un anno da cercarsi tra il 470 el 460 a.C.
Fu probabilmente un aristocratico e venne inviato più volte ad Atene come ambasciatore. Secondo l'Untersteiner, ottenne un vivo successo nelle assemblee popolari ed ampio prestigio come retore ed insegnante. Guadagnò, inoltre, molto denaro con l'insegnamento.
"Era, dunque, un vero sofista, ma libero da ogni interesse retorico - scrive l'Untersteiner - tant'è vero che definiva il sofista intermedio tra il filosofo ed il politico. "
Questa definizione sembra implicitamente ammettere che già nel V secolo era palese la la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva, cioè la partecipazione alla politica, e tra vita intellettuale e dimensione pratica.
Amante dei piaceri e cagionevole di salute, Prodico ebbe discepoli importanti come Socrate, Tucidide (al quale trasmise la sua passione per la storia), Euripide, Teramene, Isocrate e Damone.
Basterebbe questo a rivalutarne la figura, ma nascono difficoltà spesso insormontabili per ricostruirne fedelmente il pensiero, data la scarsità dei testi disponibili e la carenza di testimonianze, alcune delle quali, come quella di Platone, decisamente riduttive.

Prodico crisse un trattato intitolato Horai, Le Ore, dee della fecondità venerate a Ceo e significative dell'intero processo naturale.
L'Untersteiner sostiene che gli scritti Intorno alla natura e Intorno alla natura dell'uomo erano parte integrante delle Ore e non testi autonomi.

Origine delle cose, umanesimo, forse un "senso della storia"

Prodico guardò alla realtà del mondo con lo sguardo dell'uomo comune, ma per primo, ebbe consapevolezza della necessità di scrivere una storia in chiave antropologica. Fu uno dei primi pensatori a delineare il concetto di progresso, se non di "evoluzione", ed a tentare di chiarire i processi secondo i quali l'uomo, creatura originariamente fatta con il fango, fosse diventato in un certo senso signore della natura.
Scrisse l'Untersteiner: "Nella sua massima opera, le Ore, ove il ciclo delle cose e la legge etica, che tutto regola, trovavano una loro visione unitaria, noi possiamo immaginare che il primo argomento fosse proprio quello dell'origine degli enti, fuggevolmente accennato in Protagora, ma di certo perseguito, in più precisi sviluppi, da Prodico."
Secondo Prodico la condizione originaria dell'umanità era di "estrema fralezza" (Untesteiner), ma esso seppe progredire per opera di "scopritori" che, "con il loro errare, dopo che da essi erano state scoperte da poco le messi, giovarono all'utile degli uomini."
Il talento degli scopritori, secondo Prodico, era consistito nel conoscere la natura, e nel trovare in essa le più segrete risorse. Ne nacque l'arte dell'agricoltura, che fu preludio alla scoperta di tutte le arti.
Secondo l'Untersteiner, Prodico si collegava alla religiosità misterica di Eleusi, che appunto predicava Demetra come la dea datrice dell'agricoltura e la poneva a fondamento di tutto ciò che di buono esiste al mondo.
Non è chiaro, tuttavia, se Prodico debba essere considerato come un evemerista ante-litteram, ovvero se egli in qualche modo anticipò l'idea di Evemero di Messina, filosofo del III secolo a.C., secondo il quale gli dei erano stati solo uomini di grandi meriti, che gli uomini divinizzarono in seguito alla loro scomparsa.
Certo è che alla base delle convinzioni del nostro vi era un curioso impasto di filosofia di Empedocle e di tradizioni misteriche. Egli pose alla radice di una probabile cosmogonia la preesistenza dei quattro elementi e la comparsa del sole e della luna quali determinanti alla vita. Gli dei sono gli elementi stessi, ma nel significato più proprio di "radici" e non di entità sovrannaturali antropomorfe.
Secondo l'Untersteiner, la debolezza umana postulata da Prodico come condizione originaria conduce ad un pessimismo cosmico, in singolare contrasto con "l'ottimismo" di altri sofisti come Protagora e Gorgia. L'osservazione non mi sembra molto pertinente, se non altro perchè fatico a comprendere dove stia l'ottimismo di Gorgia.
Evidenzierei piuttosto, al contrario, che se, lentamente ed a fatica, si fa strada l'idea di progresso, proprio in Prodico, c'è una nota ottimistica che spezza la circolarità ciclica nella concezione del tempo storico nella mentalità greca, avvicinandolo ad una concezione, in questo caso davvero ante-litteram, ebraico-cristiana.
In Prodico la cronologia, visto che è ancora improprio parlare di storia (se historia significava allora primariamente ricerca, e non narrazione e ricostruzione degli eventi), assume già un senso ed una direzione.
E questa direzione è caratterizzata dal venire da un tempo di tenebre e di debolezza dell'uomo, ad un tempo di luce e di forza. La civilizzazione non è perdita, ma conquista. La cultura acquisita non è segno di una degenerazione della presunta natura umana, ma il frutto della particolare natura umana, che non è la stessa natura degli altri animali.
Sono pensieri moderni, antropologici.

Dunque, di fronte all'antitesi, presente in molti sofisti, tra legge (regole umane) e natura (impulsi ed istinti), Prodico mirò alla sintesi. La legge, il nomos, non è altro dalla prosecuzione della natura, come pure l'arte è la sua comprensione più efficace e raffinata.
La riflessione consente all'uomo di superare e trascendere la condizione naturale, senza tuttavia abbandonarla del tutto.
Ovviamente, non si tratta di interpretare Prodico come fosse Hegel. La sua filosofia della storia è ancora rudimentale, quasi istintiva. In essa la categoria dello spirito umano, della tempra e della mentalità che sono immanenti all'uomo stesso, e non trascendenti, sono semplicemente in nuce.
Prodico era ancora convinto della conciliazione reale, e non solo apparente e formale, tra filosofia e religione popolare. Mentre esaltava la divinità naturale come "insieme" e non come particolarità di nomi e di santi patroni (Hermes, Athena, Efesto ed Afrodite), non voleva muovere alcun attacco a tali sacre figure venerate dal popolo e dalla religione ufficiale delle città.
Se la filosofia si presentava comunque come superiore alla religione, per Prodico, essa non aveva comunque un oggetto diverso: portava comunque al riconoscimento del divino, alla sua definizione concettuale di benefattore dell'umanità.

Il grande merito di Prodico fu certamente quello di inaugurare la riflessione sul linguaggio e la sua origine in maniera feconda, anche se unilaterale.
Convinto della continuità tra natura e cultura, egli sostenne con convinzione che le parole ed i nomi non hanno origine nell'arbitrio, ma vengono dalla natura stessa.
Molti hanno visto in questa impostazione una indiretta polemica con Gorgia, il quale, asserendo che la conoscenza era incomunicabile, aveva scavato un fossato tra nome e parola, tra significante e significato.
Forse, nel tentativo di ricucire lo strappo, Prodico non trovò di meglio che cercare di rifondare la certezza del significante e del nome nella storia e nella genealogia della parola, evidenziando che gli equivoci e le imprecisioni non sono dovute alla debolezza della lingua, ma all'uso impreciso e sommario che se ne fa.
Questa ricerca sul significato delle parole e sui sinonimi, se ci si riflette bene, potrebbe aver influito grandemente su Socrate, inducendolo a portare avanti la ricerca sul concetto, la definizione del cosa è questo di cui stiamo parlando.
Non diversamente, secondo l'Untersteiner, Prodico, approfondendo la sinonimica, cercò di rispondere anche a Democrito, che aveva postulato l'origine convenzionale dei nomi, e quindi aperto a Gorgia la via della critica al rapporto tra pensiero, linguaggio e realtà.
C'è da dire che Platone fu molto critico con Prodico, asserendo che egli, aveva spaccato il capello, "esercitato violenza sulla lingua, senza pervenire all'essenza della cosa, al suo essere, e senza, allo stesso tempo, aver saputo destare autentico interesse filosofico per la vera sapienza e la virtù.

Non saprei pronunciarmi sulla fondatezza di tale rimprovero se non fosse che l'intero approccio di Prodico all'insegnamento della filosofia, o meglio, della sua sophia, era certamente compromesso dal fatto che era a pagamento.
Ma proprio da una polemica su tale questione, e sul connesso problema della ricchezza, venne dall'uomo di Ceo un insegnamento, a mio giudizio, di carattere fondamentale.
A chi, come lo stesso Socrate, asseriva che la ricchezza era un male in sé, Prodico rispose che: " per la persona di perfetta onestà e che sa in quale occasione si deve far uso della ricchezza, essa è un bene, mentre per i malvagi che non lo sanno, essa è un male.
E' una tesi che riecheggia la risposta che Gorgia diede allo stesso Socrate sul valore della retorica. Un semplice strumento: c'è chi la usa bene e chi la usa male; non si può dare la colpa a Gorgia se chi impara a fare discorsi, si volge alla calunnia, alla menzogna, alle malefatte.
Si tratta, com'è ovvio, di due approcci del tutto diversi e quello di Prodico, in apparenza solo più spregiudicato, era in realtà meno ideologico e più aperto, più aderente alla realtà nella quale è vero che non tutti i ricchi sono disonesti, anche se la ricchezza sembra portare in sé una qualche maledizione che se non colpisce i ricchi, colpisce comunque i loro discendenti, facendone dei "viziati".

Questo inciso ci ha consentito di introdurci agli insegnamenti etici di Prodico che, nella concezione di Aristotele, sarebbe risultato forse più un saggio che un filosofo, un maestro di vita e non un maestro di scienza.
L'etica di Prodico, in realtà, è facilmente riassumibile nella storia che egli stessò raccontò, anche se non la inventò, quella di Eracle al bivio.
A circa ventanni Eracle si trovò ad un bivio dove incontrò due donne, l'una alta e bella, dai lineamenti armoniosi simboleggiava la virtù; la seconda, bella altrettanto, ma dalle forme prorompenti e lascive, impersonava vizio e corruzione.
Entrambe cercarono di attrarre Eracle, incitandolo a seguire una sola strada, vista l'impossibilità di percorrerle entrambe. Ed Eracle scelse la virtù.
A prescindere dal fatto che virtù non significava per i greci del tempo, e nemmeno per Prodico, solo il bene, la castità, la perfezione e l'altruismo, ma qualcosa di analogo al valore, al coraggio, all'onestà, cioè a doti più virili che monacali, è evidente che in Prodico era maturata la convinzione che bene e male fossero qualcosa di distinguibile in modo molto più certo e meno relativistico che in Gorgia.
L'antitesi, tuttavia, come già s'è detto, non era tra natura e cultura, o tra carne e spirito, ma tra due opposti richiami di carattere assai più primitivo, interni all'uomo stesso, alla sua umanità simboleggiata dalle due donne.
Ciò che colpisce è che Arete, la donna virtuosa, il valore, non fece appello alla ragione, all'anima razionale, ma alla natura di Eracle, al suo carattere, alla sua capacità di decidere, in quanto uomo, su quale strada immettersi.
 

Seniade di Corinto

Non ho trovato molti particolari sulla vita ed il pensiero di questo filosofo: probabilmente era di Corinto e fu allievo di Protagora. Potrebbe essere stato sofista egli stesso, almeno nel senso di maestro di cultura e virtù a pagamento, ma le due proposizioni fondamentali della sua filosofia lo collocano in area del tutto diversa, ovvero in quella della ricerca ontologica.
In chiara antitesi all'eleatismo, egli affermò la realtà indiscutibile del divenire, ed in antitesi a tutti i pensatori precedenti, non solo gli eleati, egli affermò ancora che tutto quello che esiste, viene dal non-essere e che "nel non-essere si distrugge tutto quello che si distrugge, ovvero che cessa di esistere."
Secondo l'Untersteiner, Seniade derivò da questa impostazione la conseguenza che non esistano cause, o più precisamente, una causa. Ciò che di nuovo si presenta ai nostri occhi è senza causa, perchè, se questa esistesse, "sarebbe uguale al suo effetto."
Nel mondo del pensiero greco antico, e non solo, giacchè anche presso gli alti popoli, pur non essendovi ricerca filosofica in senso stretto, vi erano miti che raccontavano la creazione e spiegavano la nascita del mondo con la volontà di un dio pre-esistente, non si era mai data un'impostazione così radicale e rivoluzionaria.
In generale era per così dire riconosciuto come assiomatico che dal nulla non può venire qualcosa.

La seconda importante affermazione di Seniade è che, dunque, non esiste l'essere. Tutto non ha spiegazione, tutto è falso, ed anche i nostri pensieri sono falsi, pertanto non esiste il criterio per conoscere.
Cercando di confutare il dogma parmenideo dell'essere, probabilmente, Seniade voleva affermare che non esiste alcun pensiero dell'essere che garantisca la verità; pertanto se solo il pensiero dell'essere significa la verità, non esistendo l'essere, non esiste alcuna verità, ma solo il "falso".
Con Seniade siamo quindi a quello che, per la prima volta, si potrebbe definire come un fenomenismo assoluto e la predicazione di una radicale impotenza dell'uomo a capire qualcosa del mondo in cui vive.
La critica di Seniade alle filosofie preesistenti, non risparmia nemmeno, quindi, i naturalisti di scuola ionica, i pitagorici, i poeti quali Esiodo e Ferecide.
Qualche studioso ha visto in questa posizione rivoluzionaria un'anticipazione di alcune tematiche dell'esistenzialismo moderno. In realtà Seniade precorse strade poi battute dallo scetticismo antico.


Antifonte

Ci furono almeno due Antifonte, l'uno oratore, e l'altro sofista; l'uno originario di Atene e l'altro originario di Ramnunte. Senza escludere l'ipotesi di un terzo uomo, autore, come vedremo, di un trattato sui sogni.
Antifonte di Ramnunte fu, forse, più celebre al suo tempo e nei periodi immediatamente successivi ma, non si sa bene, ancor oggi, chi sia davvero l'autore di un'opera in due libri sulla Verità. Ragioni stilistiche portano ad escludere che l'autore possa essere l'oratore e che, quindi, sia il sofista l'uomo che cerchiamo, ovvero quel tizio che tra i primi affermò che le leggi umane sono tutte convenzionali e che l'uomo dovrebbe seguire le leggi di natura, posto che sia possibile stabilire quali sono.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tuttavia, non fu questo l'aspetto più importante del contributo alla storia del pensiero di Antifonte. Se l'autore è la stessa identica persona, come vedremo, la tesi delle leggi di natura non quadra del tutto con l'affermazione che si deve cercare l'accordo e la convivenza pacifica, perchè, seguendo la natura, è assai probabile che si affermino aspetti egoistici, altro che accordi sociali armoniosi!
Viene da chiedersi se siamo di fronte ad un filosofo contraddittorio e paradossale, oppure ad una inedita profondità di pensiero, che seppe bene, infine, mostrare la conflittualità intima cui si trova spesso ogni individuo che ragioni.

Il secondo lavoro di Antifonte, Della Concordia, potrebbe risultare la continuazione necessaria della Verità, anche se, in proposito, si è osservato che lo stile è diverso, "più artificioso", in forma di dialogo e non di trattato.
L'Untersteiner si confessa contrario all'ipotesi del dialogo e francamente non saprei pronunciarmi.
L'opera Politico è di più difficile attribuzione perchè, come testimonia Senofonte nei Memorabili, rivelerebbe un uomo che vuole avere influenza sullo stato, quindi più il retore che il maestro di virtù. Ma l'Untersteiner è piuttosto deciso nell'attribuire anche quest'opera al sofista.
Analogamente, egli sostiene che anche Dell'interpretazione dei sogni mostra coerenza con la dottrina del sofista di nome Antifonte.
Risultassero vere tutte le ipotesi dell'Untersteiner, saremmo di fronte ad una personalità notevole, da distinguere decisamente rispetto all'Antifonte retore.
Altre notizie sulla vita sono impossibili a trovarsi. Siamo di fronte ad un piccolo enigma della storia e la cosa è non poco sconcertante, come vedremo, perchè il pensiero di Antifonte costituì una prima ed importante risposta alla sfida di Gorgia ed alle sue posizioni provocatorie. Sia Platone che Aristotele, ma soprattutto quest'ultimo, ricorsero ad argomenti elaborati da Antifonte e ragionando su molti temi sollevati nei libri di Fisica dello stagirita, si ha chiaro lo stimolo esercitato da questo pensatore.

Antifonte riprese certamente l'ideale protagoreo della pacificazione della vita sociale nel libero confronto di opinioni, ma dovette obbligatoriamente misurarsi, con la dottrina gorgiana della negazione di ogni validità alle esperienze sensibili, ed anche a quelle più squisitamente intellegibili, sentendosi certamente contrariato e negato da questo attacco alle sue più profonde convinzioni.
L'Untersteiner offre una citazione nella quale Antifonte riprese il pensiero di Gorgia, esponendolo per poi criticarlo: " di lui [cioè di Gorgia] apprenderai queste cose: « e che non vi è / per lui nulla che sia uno, fra quante cose può vedere con la vista più lungi e può pensare con l'intelletto chi più lungi può conoscere...»
In vista dell'obiettivo di rivalutare non solo sensi, esperienza e ragione, ma anche l'unità sostanziale dell'individuo, si può pensare che Antifonte abbia realizzato una contestazione puntuale ed articolata di tutte le tesi gorgiane, in particolare quella che affermava che né l'eternità, nè la corruzione siano predicabili dell'ente.

Come rispose Antifonte?

Egli pose, in modo davvero efficace, e prekantiano ante-litteram, il tempo come scienza del prima e del poi, misura degli eventi, ordine della loro successione. Gorgia aveva persino provato a negare l'esistenza del tempo, ma aveva sbagliato clamorosamente a confutarlo come esistente in senso ontologico, giacchè il tempo, disse Antifonte, non è sostanza, ma, certamente, sarà "misurabile" e noi lo misuriamo con giorni, ore, lune, cicli di anni.
Indirettamente vi è una precisazione rispetto anche a Protagora: l'uomo che conosce il tempo non è solo misura soggettiva di tutte le cose, ma anche misura oggettiva, ovvero comune a tutti quanti abbiano il senso del tempo.
Le esperienze si succedono nel tempo, dunque è possibile ordinarle e riflettere su di esse. Il loro verificarsi riporta ad un logos, una ragione per la quale, prima di questo, si è verificato quest'altro.
Possiamo avere dubbi, avrà certamente concesso Antifonte, sulla validità di una singola esperienza o sensazione, ma non sulla loro concatenazione. Gorgia nega la legittimità razionale della concatenazione, Antifonte l'afferma.
E l'argomento con il quale si volge contro Gorgia, ed a parer mio, vinse la contesa, fu che l'infinito non esiste in forma attuale, argomento che certamente convinse Aristotele, il quale l'elaborò in parte meglio ed in parte peggio.
Tutto sta nel comprendere che, se si vuol dare valore ad un'esperienza, essa deve considerarsi finita.
Così come cessiamo di osservare che quando il cielo si annuvola è possibile che piova, ma quando il cielo è sereno, è impossibile che piova. Non vi è alcun motivo per continuare all'infinito l'osservazione del cielo.
Su questo piano, e solo su questo, ovviamente, la logica di Antifonte ebbe la meglio. Ma bastava ad andar oltre le difficoltà opposte da Gorgia al processo conoscitivo.

Tutte le esperienze si attuano, si attuarono e si attueranno in parte per natura e per caso e in parte per arte

Questo disse Antifonte, ed è evidente in questa affermazione lo sforzo per distinguere il carattere e le qualità di ogni singola esperienza. Delle esperienze si può parlare in generale, ma rischiamo di fare d'ogni erba un fascio, se non le analizziamo e le classifichiamo una per una.
Il caso va inteso in senso soggettivo. Alcune esperienze ci sono capitate per caso e non perchè le abbiamo volute e cercate, ma non per questo sono meno istruttive delle altre.
Quelle per arte, sono dovute al fatto che siamo in grado di fare alcune cose, e l'arte di fare le cose è dovuta all'esperienza. Come potrebbe un inesperto costruire una casa od una trireme?

L'Untersteiner aggiunge una sorta di completamento a questa tesi: "tutto quello che viene fatto secondo la legge e indipendentemente dalla legge viene senz'altro compiuto in dato tempo o è stato compiuto o lo sarà."
Scrive a commento: " Il concetto unitario che ne risulta è chiaro: le esperienze, deve aver detto Antifonte, a qualunque ordine appartengano, sia naturale sia intellettuale, esistono perchè / si manifestano secondo quella successione temporale che, sola, rende possibile un giudizio di esistenza."
Per Antifonte, quindi la percezione sensibile, la memoria che abbiamo di questa, è garanzia sufficiente della validità del conoscere, confutazione oggettiva a qualsiasi contestazione dell'inganno dei sensi.
Non ci è dato di sapere a quale livello ci fu anche una polemica con Democrito e la sua teoria della soggettività assoluta in ordine al giudizio di dolce ed amaro, ma è probabile che Antifonte, mente analitica di eccezionale livello, come si sarà compreso, abbia avanzato qualche precisazione in ordine alla differenza tra sensazione elementare ed intensità di piacere o dispiacere che proviamo rispetto ad essa.

All'affermazione gorgiana della impossibilità umana di distinguere tra ciò che esiste veramente e ciò che esiste solo nella nostra fantasia, Antifonte rispose per le rime, asserendo che solo ciò che esiste è visibile e conoscibile, mentre la fantasia non ha riscontro materiale e formale con la realtà. L'impossibile non può concretarsi.
L'esempio avanzato fu quello di un letto di legno sepolto sottoterra, che per "putredine", producendo un germoglio, non si sarebbe mai duplicato come letto, ma semplicemente come legno.

Anche su questo piano, sembra dire l'Untersteiner, Antifonte distinse natura ed arte, e probabilmente vide nell'arte intesa come tecnica di manipolazione, un'estensione della natura, alla maniera di Prodico di Ceo.
Tuttavia, mentre Prodico negò e confutò l'opposizione tra natura e mondo dell'uomo, tra natura e civiltà, Antifonte ammise, anzi, affermò, che tutto ciò che è civiltà e legge, appartiene al mondo della convenzione, senza peraltro considerare che la convenzione stessa ha tratto origine dalla necessità di porre fine alla contesa tra uomo e uomo onde porre le condizioni della coesistenza pacifica.

Opposizione di natura e legge civile

Si è scritto che Antifonte fu particolarmente sensibile al tema della costrizione dell'individuo in abiti civili e formali, e che egli detestava l'eccesso di leggi, di obblighi, di norme che si moltiplicavano all'infinito, ignare ed irrispettose della natura umana, e persino della libertà.
Non è chiaro, ovviamente, se questa particolare posizione fosse frutto di una contingenza storica e politica, il dilagare dei diritti del volgo e quella dittatura del conformismo delle masse deprecato da così tanti filosofi in ogni epoca, o se invece rispecchiasse una posizione più profonda e radicale.
Comunque sia, il contrasto con Prodico è evidente, dettato da un'insofferenza per l'eccesso legislativo che aveva una qualche dignità filosofica. Antifonte non era un guerrafondaio, e non mirava a liberare belve bionde.
Non teorizzò il diritto del più forte a fare i propri comodi nella società.
Aveva di mira la concordia politica e sociale. Credeva nell'accordo e nel compromesso, proprio per il suo carattere convenzionale.
E' pertanto da escludere che egli rappresentasse interessi forti compressi dalla legislazione populista.
Molto più probabilmente, egli vide che l'eccesso legislativo procurava effetti opposti a quelli desiderati: non più ordine e disciplina, ma caos, ingorghi giudiziari, sentenze contraddittorie, una macchinosità sempre più frenante e debilitante.
Fu dunque chiaramente consapevole che la legge interpretata in questo modo cavilloso ed ossessivo portava alla moltiplicazione delle ingiustizie, anzichè a giustizia.
E, per di più, esprimeva una visione totalmente pessimistica rispetto all'uomo vero, in carne ed ossa, all'uomo prodotto dalla natura e capace per questo, e non per educazione, di essere virtuoso.
Intendiamoci: non buono di natura, nel senso predicato da Rousseau, ma virtuoso nel senso di virile, onesto, quadrato, fermo e responsabile. O per dirla con Aristotele, in grado di deliberare e di cercare l'eccellenza in ogni cosa.

La legge come divisione tra gli uomini e le città

Un altro punto interessante della critica che Antifonte rivolse alla legge intesa come nomos fu quello del particolarismo. Ogni città ha la sua legge, e spesso ciò che è giusto e legale qui, è ingiusto ed illegale là.
L'eccesso legislativo è dunque un fattore di divisione, un'esasperazione delle differenze, un contrasto artificioso tra gli uomini. Nessuna legislazione particolare, portata all'estremo cavilloso, può considerarsi universale, e quindi davvero utile a metter fine alle incomprensioni, alle guerre.

Ateo

Pare certo che Antifonte si sia professato ateo. Si ricava questa impressione esaminando l'affermazione, riportata dall'Untersteiner, che "gli dei furono prodotti d'arte e non di natura".
Del divino vi potrebbe essere esperienza, tuttavia, in quanto il nome di ogni singolo dio rinvia all'esperienza che noi abbiamo di determinate funzioni ed operazioni. Isolate ed astratte dal contesto generale delle attività umane e naturali, il forgiare i metalli diviene arte di Efesto, l'usare saggezza, prudenza ed astuzia è arte di Athena, vedere lontano è arte apollinea, e ... la musica espressione del dionisiaco.

Distinzione tra arti fantastiche e tecnica di cose serie

C'è qualcosa che non mi convince nel quadro generale disegnato dall'Untersteiner, ed è la presunta condanna che Antifonte avrebbe formulato nei confronti di musica e poesia.
L'apertura mentale di Antifonte, se tutto quanto riportato fin qui corrisponde in qualche modo al vero, non può essersi improvvisamente richiusa di fronte al fenomeno artistico più spontaneo, naturale e genuino: il canto degli uccelli, il canto dell'uomo, la creazione di un testo che racconta esperienze ed emozioni.
Forse, Antifonte, ebbe una personale antipatia per la musica e la poesia, ma non al punto da farne una questione di politica educativa.
Supponendo, come l'Untersteiner, che Antifonte intendesse escludere dai programmi educativi musica e poesia, si viene di fatto ad ammettere una contraddizione radicale: ovvero l'intenzione di una legislazione per regolare l'educazione e fissarne a priori i contenuti, in maniera censoria.
Stabilito questo livello della contraddizione, pare francamente improbabile riportare il pensiero di Antifonte a quello d'un talebano nostro contemporaneo.
Piuttosto, pare accettabile l'idea della distinzione tra arti rivolte a produrre effetti artistici ed arti rivolte a produrre beni indispensabili, e quindi fondamentali. Poteva essere l'inizio di una riflessione sull'economia politica, ma non abbiamo alcuna notizia che giustifichi una simile ipotesi.

I sogni

Se l'Antifonte di cui abbiamo parlato finora sia lo stesso autore del trattato sui sogni non può essere certo nemmeno al 50%.
Tuttavia, potremmo prendere per buone le affermazioni dell'Untersteiner, in mancanza di meglio.
Il sogno è, in fondo, un evento naturale cui nessuna legislazione può imporre regole di svolgimento e tantomeno di interpretazione.
La posizione di questo Antifonte fu paradossalmente opposta al suo credo fondamentale: sbagliata la divinazione naturale, corretta la divinazione artificiosa.
Seguendo la prima, si ha che il sogno è propizio quando riporta eventi felici, e funesto quando propone situazioni drammatiche ed eventi funesti.
Al contrario, la divinazione artificiosa prescindeva da questo semplicistico punto di vista, e consentiva di interpretare in senso propizio anche gli incubi notturni.
Questo Antifonte cercò di evidenziare l'esistenza di una scienza mantica, e si disse in grado di padroneggiarla, ma francamente le argomentazioni dell'Untersteiner non mi risultano affatto persuasive e chiarificatorie.
Non credo che questo Antifonte sia lo stesso di cui abbiamo parlato finora.


Ippia di Elide

Due dialoghi platonici, Ippia maggiore ed Ippia minore, ci introducono ad un personaggio antipatico e pieno di sé, borioso, spavaldo e superficiale.
Ma, l'Ippia minore è un dialogo anomalo ed inquietante, nel quale Socrate sembra dare letteralmente i numeri, mentre lo stesso Ippia rimane sconcertato. Sfiderei chiunque a non rimanerlo. Il buon Socrate avanza una strana teoria, che poi rinnegherà immediatamente, ma intanto l'ha detta, e dicendola la sostiene anche con qualche argomento.
La cosa non quadra con una certa idea che abbiamo di Socrate e nemmeno con Platone. Ma c'è Senofonte a testimoniare la veridicità dell'episodio, a meno che non si ammetta che un ignoto burlone abbia scritto il dialogo speculando su quanto raccontato da Senofonte.
Di che si tratta?
Socrate afferma che chi fa volontariamente il male, sapendo cioè quello che fa, è sicuramente superiore a chi lo compie involontariamente. Ippia risponde che persino le leggi (che lo stesso riteneva sempre insufficienti e mancanti) riconoscono che il dolo volontario è di maggiore gravità, e quindi puniscono l'autore di un crimine volontario con pene più severe.
A questo punto Socrate confessa di non sapere a quale argomento appigliarsi. Eppure, preso da stato febbrile, propone ad Ippia di ascoltare qualcosa.
Ecco che poco alla volta viene in chiaro cosa intendeva Socrate. Chi sa distinguere tra bene e male e tuttavia sceglie il male, è intellettualmente più dotato, più completo, diremmo noi: più consapevole. Dunque, la conclusione paradossale è che solo un uomo dabbene può fare il male consapevolmente.
Uno degli argomenti di Socrate è quello del medico di cui ci serviamo. Chiede ad Ippia: " E' meglio servirsi di un medico che fa male involontariamente o di uno che procura malattia volontariamente? " E quello, ammettendo che è migliore chi sa fare il male, prepara la risposta finale di Socrate. " E infine, della nostra anima non vorremmo che fosse quanto di migliore è possibile?" "sì" risponde Ippia.
" E non sarà dunque migliore se fa il male volontariamente piuttosto che involontariamente?"
Ippia risponde:" Ma sarebbe enorme, Socrate,..."
Il dialogo prosegue ancora per un po', senza che le posizioni mutino sostanzialmente.

Ora, per quanto abbia riflettuto su tutta la vicenda, confesso di non aver trovato probabili che due alternative: o si tratta di un falso, redatto probabilmente da qualche acuto aristotelico, o si tratta di un'opera perfettamente compiuta, ovvero non di un lavoro tralasciato a metà da Platone. Il suo intento non era quello di trasmettere una conclusione, ma di far discutere, superando tutta una serie di luoghi comuni, non ultimi gli stessi luoghi comuni diffusi da Socrate in altri contesti, come quello che in genere fa il male chi non conosce il bene.
Il vero obiettivo di Platone era evidenziare, allora, la profondità di Socrate e la pochezza e superficialità di Ippia, che intendeva il termine migliore solo in un senso etico e morale, mentre Socrate lo intendeva nel senso di individuo in grado di discernere, valutare le conseguenze delle proprie azioni, avere una mente lucida.
La domanda che dovrebbe venirci spontanea di fronte all'affermazione sarebbe: migliore in che senso?
Non venendo da Ippia alcuna reazione di questo tipo, ma solo un rifiuto moralistico, abbiamo un ritratto dell'uomo convinto di avere raggiunto grandi conoscenze e grandi certezze, eppure assai scarso di acutezza intellettuale.
Così vengono ad evidenziarsi due metodi assai diversi per introdurre non solo l'insegnamento della filosofia, ma proprio il concetto di educazione in generale.
Per Ippia che, secondo l'Untersteiner, fu nientemeno che il fondatore del programmo educativo centrato sul quadrivio, la trasmissione del sapere è retorica, cioè discorso che fissa nella memoria concetti inquestionabili come il bene ed il male. Ed ovviamente si scandalizza di ogni possibile obiezione al dogma.
Per Socrate la discussione e la ricerca dialettica sono invece l'unico modo per produrre non solo un sapere superficiale, una cultura di nozioni, ma una consapevolezza, un saggiare le questioni sotto molteplici aspetti.
Insomma, è vera filosofia e vera pedagogia la via socratica e non quella di Ippia, niente più di un bravuomo molto preso da quella che poteva essere la sua missione ed il suo tornaconto, ma assolutamente inadatto a fare l'insegnante perchè incapace di suscitare la discussione e la ricerca, incapace di suscitare domande del tipo: in che senso intendi migliore?
Non si può prescindere da questo Ippia rappresentato da Platone per parlare di Ippia di Elide, matematico valente, insigne maestro di virtù, tuttologo, sapiente enciclopedico, anch'egli sostenitore della gorgiana teoria che il retore potrebbe imbastire discorsi sensati e persuasivi su tutto lo scibile umano.
Socrate, nel vero Ippia, l'Ippia maggiore, sembra dilettarsi nel farlo a pezzettini, nel ridurlo alla statura d'un nano.
Ma questa volta non riusciamo a comprendere Platone: non sapeva che riducendo il valore del contendente, veniva a deprezzare il valore di Socrate?
Era davvero così scadente, superficiale e vuoto tale Ippia, il prototipo di un certo tipo di sofista, capace solo di discorsi generici e grossolani, ampollosi e vuoti?

Qualche dubbio è lecito. Un matematico deve avere mente sobria e disciplinata, essenziale e logica. Ed Ippia fu l'unico tra i sofisti a poter vantare una solida preparazione matematica.
Certo, non era di scuola pitagorica. Ma il marchio di fabbrica del pitagorismo qualificava e certificava un matematico in modo particolare?
Il primo punto da chiarire è allora questo: a differenza dei pitagorici Ippia ricevette un'educazione alla geometria, o meglio, che privilegiava la geometria rispetto all'aritmetica. Gli storici della matematica grosso modo concordano sul fatto che egli diede un'importante contributo alla quadratura del cerchio, anche se poi, la vera dimostrazione venne riconosciuta come merito di Dinostrato. E, forse, Platone detestava Ippia per la sua superiorità in campo matematico, o, forse, per il suo rifiuto ad insegnare (gratis) nell'Accademia.
Ce n'è a sufficienza per capire come mai tra i due non corresse buon sangue.

Probabilmente, la verità attorno all'Ippia maggiore è una sola: non un dialogo, ma un pamphlet, uno scritto polemico dovuto a circostanze particolari, persino rabbioso.
A meno che, a differenza di tanti altri dialoghi, costruiti in atmosfere ideali e rarefatte, l'Ippia maggiore non fosse che un resoconto nudo e crudo di un vero scontro, un libro-verità su un Socrate più velenoso del solito, cioè il vero Socrate contro uno dei tanti Ippia rinvenibili sul mercato all'ingrosso delle scuole sofistiche.

Teniamoci questi dubbi e proseguiamo.

Dopo aver letto i dialoghi platonici nutrivo nei confronti di Ippia un pregiudizio che non era sano.
E' come quando incontri per la prima volta una persona che tuttavia ti è stata descritta attraverso aneddoti e resoconti sommari. Ha detto questo, ha fatto quest'altro, di solito è nervoso, aggressivo, parla troppo, gli piace la letteratura russa, ha la casa piena di quadri comprati lungo i navigli, non legge i giornali tutti i giorni, spesso mangia in quei bar dove si fa il brunch verso le 11 di mattina, ecc.
So tutto di lui senza aver mai visto niente. O, forse, so niente?

Merito dell'Untersteiner, indubbiamente, è la ricostruzione del probabile pensiero di Ippia in termini più oggettivi.
Scrisse moltissimo, con incursioni in ogni campo, ma non rimangono che frammenti, oppure testi di seconda mano, che è sempre avventuroso riconoscere come legati al vero pensiero di Ippia.
Certamente fu enciclopedico; aveva una cultura enorme, allevata da una memoria formidabile.
Nacque ad Elide in un molto probabile 443 a.C. Nel 399 era già famoso, ma dei suoi maestri non si sa nulla.
Viaggiò molto, anche come ambasciatore e fu spesso a Sparta dove, secondo l'Untesteiner "sperimentò quella rigidità della legge, che doveva combattere nella sua teoria." Fu ad Atene almeno due volte, e in Sicilia esercitò una grande influenza, specie sul tiranno di Siracusa Dionigi il giovane.
Ippia era di orientamento democratico, fece attivamente politica su scala internazionale. Fu ucciso mentre "tramava insidie contro la propria patria." Aveva sposato una certa Platane, dalla quale ebbe tre figli.

Scrisse moltissimo e le sue opere più importanti dovrebbero essere Troiano, Consigli di Chirone, Nomi dei popoli, Registro dei vincitori di Olimpia.

Le fonti per conoscere il pensiero di Ippia sono, secondo l'Untersteiner, oltre ai frammenti, il capitolo di Tucidide che interpreta i fatti di Corcira, l'Anonymus Iamblichi, le cui idee rispecchierebbero fedelmente il pensiero di Ippia. Ed il Proemio spurio ai Caratteri di Teofrasto sarebbe opera di Ippia.

Su queste basi ecco un quadro del pensiero di Ippia.
Un politico deve saper parlare in pubblico in modo elegante e persuasivo. Ma l'arte retorica non basta, occorre avere i materiali da plasmare: i contenuti. Essi si ricavano con la conoscenza di tutto, una conoscenza enciclopedica, e qui è la differenza con Gorgia, non solo perchè Ippia afferma che la conoscenza è possibile, ma perchè è anche comunicabile.
La meta della conoscenza, tuttavia non è la sapienza separata di ogni campo, ma la superiore visione della realtà, la quale è natura della realtà stessa. Ha la sapienza politica necessaria chi perviene a conoscere la natura, la physis della realtà.
Questa natura della realtà corrisponde alla verità. Sembrerebbe, se non parlassimo di Ippia, che parliamo di Aristotele.

Gradi della conoscenza

La conoscenza della natura delle cose avviene attraverso tre gradini da salire: la conoscenza delle parole e del loro significato, la conoscenza dei numeri, il concetto di giusto ed il concetto in generale.
La conoscenza delle parole deve essere analitica prima ancora che semantica. La parola si compone di lettere e fonemi la cui esatta pronuncia, con la giusta considerazione per ritmi ed accenti porta alla perfezione del linguaggio.
La scelta delle parole è estremamente importante perchè è attraverso di essa che perveniamo alla precisione del discorso, la quale rispecchia l'acutezza del proposito, del cosa vogliamo comunicare.

Il secondo gradino da scalare è quello della matematica, non solo il numero nella sua forma aritmetica, ma l'immagine sensibile delle cose, nella loro forma scheletrica e strutturale, la geometria fondata sulle immagini, le figure.
Ippia privilegia l'impatto sensibile, l'esperienza della figura, rispetto ad una concezione idealistica. In questo quadro si spiegherebbero i suoi tentivi, storicamente documentati di fornire una dimostrazione della quadratura della circonferenza, in un quadro dinamico, di geometria animata, di linee mobili, di curve.

Il terzo gradino è quello rappresentato dalla conoscenza del concetto di giusto, in diversi significati: appropriato, conforme a norma naturale, regolato da leggi che rispecchiano questa conformità alla natura delle cose.
Questo terzo gradino è certamente il più importante perchè Ippia vi fonda la sua convinzione fondamentale: l'aver egli stesso compreso la natura delle cose, e dell'uomo in particolare.

La critica alle leggi

Su questa base egli mosse una critica generale alle leggi, al nomos, asserendo, come Antifonte, che le leggi esercitano violenza sulla natura dell'uomo: siamo così agli antipodi da quanto teorizzato da Prodico di Ceo.
Ma il senso dell'affermazione non è chiaro, anche se, muovendo da posizioni democratiche, sostanzialmente protagoriche e periclee, si può pensare che non volesse affermare il diritto del più forte ad esercitare prepotenze, ma qualcosa di radicalmente diverso, ovvero denunciare la gabbia legislativa che limita il libero sviluppo delle persone, proibendo quello che non deve essere proibito, ed imponendo quello che non può essere imposto, come, ad esempio, la religione ufficiale.
Avremmo dunque un Ippia radical-democratico, una ragione di più, guarda la combinazione, per un intensa contrapposizione al giovin Platone, simpatizzante per l'aristocrazia e filo-spartano.
E questa sarebbe ragion più che sufficiente per realizzare l'antipatia reciproca, se non fosse che, proprio tra i democratici ateniesi della fase post-Pericle, si fosse instaurata una convinzione del tutto anti-democratica, ovvero il diritto della maggioranza di esercitare una sorta di dittatura con la forza della legge.
Ippia era un democratico, allora, ma per nulla in sintonia con i democratici reali, la nuova ondata di demagoghi, la canea dei sofisti dei secondo e terzo ordine che concionavano agli angoli delle strade.
Queste considerazioni concorrono ad arrichire il quadro già mosso e complesso, per nulla lineare.
Raramente, nella storia, progressisti e conservatori hanno formato blocchi monolitici l'un contro l'altro armati, e men che mai questo accadde ad Atene. Raramente gli intellettuali si sono prestati ad essere "organici", cioè servi di strategie di puro esercizio del potere. Spesso hanno teso a criticare ciò che prediligevano, perchè delusi dai comportamenti dei capi.
Come del resto oggi, in Italia, gli interessi puramente economici, il conflitto oggettivo tra le classi passa spesso in secondo ordine rispetto a problemi di potere, istituzionali, giudiziari, a vere e proprie vanità ed ambizioni di singoli, così in Grecia le cose non andavano tanto diversamente.
Ecco perchè non convince fino in fondo il ritratto del vanesio disegnato da Platone: quando Ippia affermava di aver compreso la natura dell'uomo e di aver quindi trovato una ricetta, un farmaco alla crisi sociale, morale e politica, doveva, in effetti, aver scoperto qualcosa di importante e di nuovo.
Le leggi scritte dagli uomini non riflettevano che in poco le leggi non scritte, ma scolpite nella natura umana.
Ad una fase nella quale, come ritiene l'Untersteiner, Ippia credette che le leggi umane fossero il metro di misura della giustizia, seguì una fase nella quale si persuase che le leggi umane negavano la vera giustizia, quella non scritta, ma rinvenibile in ogni uomo e nel logos afferrato da Eraclito.
Ma il problema della traduzione di questa giustizia fisica in giustizia legislativa e diritto positivo non pare risolto, e non solo per impossibilità politica, ma per difetto teorico e chiarezza di intenti.
Non ne abbiamo le prove, ma nemmeno l'Untersteiner potrebbe esibire prove in senso opposto. Ippia rimane un mistico della giustizia, con una fortissima idea confusa che non riescì ad esporre, se non negando la giustizia realmente esistente, forte delle delusioni e delle amarezze che procura.
Solo su un punto egli seppe avanzare una proposta concreta: punire chi calunnia. Constatato che la legislazione delle città greche in generale non prevedeva pene contro chi avanzava accuse ingiuste, oppure spargeva dicerie contro qualcuno al fine di denigrarlo e renderlo odioso, Ippia se ne fece scrupolo e punto d'orgoglio, imbastendo una specie di campagna perchè la falsa testimonionza resa contro qualcuno diventasse un reato, tra i più gravi.
Basterebbe questo a smentire la stereotipata superficialità di Ippia?
Credo di sì: egli disse, pressapoco, che è ancora più ripugnante chi sparge menzogne rivolte a denigrare altri di chi commette prepotenze: quest'ultimo agisce alla luce del sole; il calunniatore agisce nell'ombra, come Jago, che seppe suscitare i più bestiali sentimenti di gelosia in Otello, fino al punto da indurlo all'assassinio.
Grazie a Shakespeare (ed a Giuseppe Verdi), forse anche Ippia può trovare finalmente il giusto riconoscimento.
Punendo duramente chi calunnia, anche per legittima difesa, forse la legge umana incontra quella naturale, o divina, che dir si voglia.


Trasimaco

Trasimaco nacque a Calcedone in Bitinia, una colonia di Megara e fu attivo soprattutto negli ultimi tre decenni del secolo V. La data di nascita potrebbe collocarsi intorno al 450, 460 a.C.
Giovenale diffuse la notizia che morì malamente, pentito e rammaricato per le dottrine che aveva insegnato ma, non si è trovata alcuna conferma di quanto affermato successivamente dallo scoliaste, ovvero che si impiccò.

Fu soprattutto un retore, un avvocato più che un sofista.

Essendo uno dei personaggi protagonisti del dialogo platonico Repubblica, dobbiamo credere che le dottrine morali e politiche quivi patrocinate corrispondano al pensiero di Trasimaco, anche se, come abbiamo visto nel caso di Ippia, non sempre Platone fu un testimone obiettivo del pensiero altrui.
Trasimaco è presentato come persona irruente, irriverente, antipatica, che nemmeno ama pardersi in chiacchiere. Dopo un primo passaggio, attacca frontalmente Socrate, sfidandolo a dire qualcosa di concreto anzichè perdersi in lunghi giri di parole sulla giustizia.
Trasimaco ha la sfrontatezza di chiedere del denaro per dare quella risposta che Socrate dichiara di ignorare, secondo il classico schema dell'unica cosa che so è di non sapere.
Trasimaco dichiara, al contrario, di sapere, ed afferma: " Io dico che la giustizia altro non è che se non ciò che giova al più forte...O perchè non mi lodi? ... Ma non lo vorrai."
Socrate obbietta con ironia che se a Polidamante, il pancratiaste (un lottatore ndr), giova la carne di bue, questo potrebbe significare che essa giova anche a noi, meno forti di lui?
Trasimaco risponde in modo offensivo: -"Sei un buffone, Socrate. Tu fingi d'intendere la mia definizione in modo da falsarla addirittura."
- "Tutt'altro, eccellente uomo; ma di in modo più chiaro che cosa vuoi intendere."
- "E non sai che alcune città sono rette da tiranni, altre dal popolo, altre da ottimati?"
- "E come no?"
- " E in ogni città la forza non appartiene al governo costituito?"
- " Senza dubbio"
- " Orbene, ciascun governo si fa le leggi che meglio gli giovano: la democrazia se le fa democratiche, la tirannide tiranniche e gli altri al pari, e fattele i governanti dichiarano giusto per i sudditi quel che giova a se stessi e puniscono chi trasgredisce i loro ordini come violatori delle leggi e colpevole di ingiustizia. Questo è dunque, bravuomo, quello che tutte le città io dico essere ugualmente giusto: ciò che giova al governo costituito, che è poi il potere dominante; e però chi ben ragiona deve riconoscere che giusto è dappertutto egualmente questo: ciò che giova al più forte."

Socrate chiede a Trasimaco se qualche volta i governanti sbaglino, e questi lo ammette. Ma ciò porta ad un'incongruenza: se i governanti sbagliano significa che emanano disposizioni che non giovano a loro stessi.
Ciò porta Trasimaco a contraddirsi, ed ad affermare che i governanti non sbagliano mai, e che comunque il popolo deve obbedire.
Ciò, secondo Socrate, contraddice ciò che avviene nelle scienze, nessuna delle quali osserva ed ordina quel che giova al più forte, bensì quel che giova al più debole, come la medicina.

Trasimaco concede un assenso superficiale all'affermazione socratica, ma subito riprende da capo la sua teoria, asserendo che la giustizia è ciò che giova a chi comanda, mentre l'ingiustizia governa gli ingenui ed i giusti.
I giusti, secondo Trasimaco hanno sempre la peggio; dunque chi osserva le leggi è un infelice, mentre il vero ingiusto è sempre felice, soprattutto quando sa comportarsi in modo da non passare per ingiusto.

Dalla lettura e dalla riflessione conseguente su questa prima parte del dialogo, mi pare evidente, che tra Trasimaco e Socrate, oltre ad una buona dose di antipatia, si registri anche una mancata comprensione del senso delle rispettive affermazioni.
Quella di Trasimaco, infatti, non era una sorta di teorizzazzione dell'ingiustizia, ma una denuncia del carattere strumentale della cosiddetta giustizia. Gli uomini chiamano giustizia l'ipocrisia e la parvenza della legalità, che è dettata dal potere. Ma il potere fa sempre le leggi a sua misura. Trasimaco è dunque in linea con Antifonte ed Ippia, e riprende la loro denuncia del carattere di classe e di parte della legge civile.
Socrate, nel tentativo di definire, al contrario, il concetto stesso di giustizia, urta contro la parzialità delle leggi senza, tuttavia, dar loro un gran peso, almeno in questa prima fase. Per lui, infatti, era fondamentale pervenire in primo luogo alla concettualizzazione della giustizia stessa, per chiarire in primo luogo che cosa si andava cercando.

Messo a fuoco, spero proficuamente, il tipo e la qualità del contrasto tra Socrate e Trasimaco, viene in evidenza che il vero protagonista di questo primo spezzone del dialogo platonico è l'incomprensione.
Socrate e Trasimaco hanno due linguaggi diversi e nessuno dei due sembra particolarmente interessato a capire il motivo dell'altro, anche se, ovviamente, Socrate esce (più apparentemente che realmente) vincitore della contesa. Non è infatti accettabile che l'ingiustizia possa diventare in qualche caso virtù e che un uomo che viola leggi della propria città sia da definirsi virtuoso.
Trasimaco, dal canto suo, pur avendo una chiara e realistica visione di come vanno realmente le cose nel mondo civile, non sembra in grado di trarne delle conseguenze politiche. L'unico modo di salvarsi dalla giustizia delle città è l'ingiusto agire individuale di chi è abile a violare le leggi senza farsi scoprire.
Non vi è in Trasimaco alcuna speranza di una giustizia giusta, a differenza, ad esempio, di Ippia, per il quale, un giorno, la legge naturale diventerà la legge giusta.

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