Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

giovedì 19 giugno 2014

Insieme per Sempre

Come la luce ed il buio divisi appaiono
ma in un sol giorno insieme stanno,
le nostre anime insieme fuse scompaiono
ed unite per l'eternità rimarranno.

(LexMat)

Light and Darkness are divided
but in single day together are,
our souls need different care
but eternally remain united.

martedì 17 giugno 2014

Il Lucchetto sul Ponte

Concedimi piccola la tua dolce forte mano
per tingere d'azzurro l'orizzonte lontano
ed insieme voliamo con le fronti a sfiorare,
quest'aria pura che ci induce a sperare
con gioia bambina in un perduto paradiso
dove i corpi degli amanti sono un sorriso,
e chiave e serratura saranno i nostri cuori
di un dorato lucchetto sul ponte degli amori.

(LexMat)

Give me your little strong hand,
and fly touching each other
for blue dye the horizon distant,

pure air which leads us to sail
joy child in heaven on earth,

where bodies lovers are a smile
lock and key will be our hearts,

golden padlock on the bridge of love.

Eroi nel Tempo della Storia

Da "http://illuminations-edu.blogspot.it" : 

Eroi
 W. H. Auden

L’eroe è un individuo eccezionale che possiede un’autorità sull’uomo comune.
Quest’autorità può essere di tre generi: etica, estetica e religiosa.
L’eroe etico è colui che in ogni momento riesce a capire più degli altri.
L’eroe estetico è l’uomo cui la fortuna ha concesso doni eccezionali.
L’eroe religioso si dedica a qualcosa che per lui è la verità assoluta.
L’eroe si riconosce in base all’interesse che suscita nello spettatore o nel lettore. 
Uno studio comparativo dei diversi tipi di individuo che scrittori di vari periodi hanno scelto come eroe offre spesso degli utili indizi sugli atteggiamenti e le preoccupazioni di ciascuna epoca. 
Perché l’interesse dell’uomo si focalizza sempre, consciamente o inconsciamente, su ciò che gli sembra il problema più importante e ancora irrisolto.
L’eroe e la sua storia sono al tempo stesso una formulazione e una soluzione del problema.

Un Male necessario chiamato Vittoria

Da "http://illuminations-edu.blogspot.it/2013/07/un-male-necessario-chiamato-vittoria.html" :

«Può far cessare una minaccia, difendere la libertà, ma non dare la felicità»

di Claudio Magris

"Corriere della Sera",  4 luglio 2013

Si racconta che Wellington, percorrendo la sera a cavallo il campo di Waterloo cosparso di cadaveri, dicesse che «dopo una battaglia perduta, la cosa più orribile è una battaglia vinta». Questa frase del vincitore di Napoleone ci fa sentire con forza come, in tanti o forse nella maggior parte dei casi, la vittoria può e deve essere sperata, perseguita e ove possibile ottenuta, ma non può essere mai amata. La vittoria, più che un bene, appare come un male necessario, come un male minore rispetto a mali più grandi che deriverebbero dalla sconfitta.
Una vittoria, in certi casi, può far cessare una minaccia di distruzione, porre fine a una barbarie, difendere la libertà, ma non può mai dare la felicità. Quando la Seconda guerra mondiale si conclude, grazie a Dio, con la disfatta del Terzo Reich, è ovvio il senso di liberazione, di festa che prova l'umanità. Ma, proprio in quel momento, Elias Canetti — che non solo in quanto ebreo ma in quanto uomo appassionato difensore di ogni palpito di vita umana ha tutte le ragioni per salutare con la più grande partecipazione quella liberazione — sottolinea l'esigenza di «entwerten den Sieg», di svalutare la vittoria; di non farne un idolo, di non inebriarsene, perché nell'ebbrezza di vittoria, non a caso così coltivata e messa in scena da tutti i regimi totalitari, egli vede la seduzione e la tentazione di ciò che per lui è il Male per eccellenza, il Potere, l'istinto di dominare gli altri, piegarli, umiliarli e distruggerli; la perversa strategia di sopravvivere agli altri.
La Vittoria sembra spesso accompagnata da un'aura di malinconia; nel carro di trionfo che porta il vincitore tra le ali festanti del popolo c'è sempre un presagio di caducità, di gloria mista al dolore e non solo per la vista dei prigionieri vinti in catene che, come nei trionfi celebrati nell'antichità, seguono il carro vittorioso. Naturalmente non soltanto le pacchiane dittature e le società totalitarie e belliciste hanno celebrato con enfasi la vittoria, spesso promettendola vanamente come una preda a portata di mano e conducendo in tal modo i loro popoli alla sconfitta, come quando Mussolini esaltava gli otto milioni di baionette. Anche grandi civiltà hanno celebrato la vittoria: le odi di Pindaro per i vincitori dei giochi olimpici dell'antica Grecia creano, con la loro potenza poetica, un'aura autenticamente divina intorno agli atleti che conseguono l'alloro. Ma la civiltà greca non è solo Pindaro; è anche Aristofane, che su quei celesti allori olimpici getta l'ombra — più che l'ombra, una feroce dissacrazione, uno smascheramento — di imbrogli e pastette, di giochi truccati, non troppo dissimili dalla corruzione odierna trionfante nello sport e non solo nello sport. Il dio che guida come auriga il cocchio dell'eroe può essere spesso il dio danaro.
Del resto, per quel che riguarda il rapporto tra la vittoria e la guerra, il più grande libro che sia mai stato scritto — e che probabilmente continuerà a esserlo sempre — sulla guerra, l'Iliade, racconta una guerra vittoriosa per i greci, popolo cui appartiene l'autore (o l'autrice, o gli autori) di quel capolavoro. Nell'Iliade la guerra e la vittoria stessa sono certo una celebrazione del valore, ma sono pure un grande lutto, una manifestazione di morte più che di vita e questo vale per tutti, per i vincitori come per i vinti. Non solo chi racconta la guerra e la vittoria, ma spesso anche chi la fa e la produce rivela questa simbiosi di valore, necessità e volontà di vincere e malinconia di vincere. Non a caso tanta letteratura vicina alla vita militare rivela questo senso di profonda malinconia che nasce proprio dalla vita militare — ossia dalla preparazione alla guerra e alla vittoria, almeno perseguita. Guerra e vittoria si accompagnano a un sentimento malinconico della vita. Pochi hanno fatto sentire la dignità, la grandezza e l'oscurità della vita militare come Alfred de Vigny, che non vuole certo demistificare l'esercito, ma che — proprio vivendo a fondo la triste necessità della sua disciplina, del suo sacrificio, del destino egualmente terribile di uccidere e morire — è uno dei più forti scrittori che evochino la guerra e anche la vittoria con un alone di grande tristezza. (...)
Forse l'unico modo di essere vincitori è saper accettare la propria sconfitta, le proprie sconfitte, pur continuando a combatterle senza compiacersi di esse. Non c'è nulla di più pericoloso che ritenersi vincitori. Manes Sperber, uno scrittore austriaco che proveniva dall'ebraismo galiziano, che fu da giovane rivoluzionario comunista e poi uno dei primi implacabili accusatori degli orrori staliniani, diceva che chi si ritiene vincitore, chi ritiene di essere in una stabile e sicura relazione con la vittoria, diviene facilmente un «cocu de la victoire», un cornuto della vittoria stessa.

Umberto Eco su Italo Calvino

Uno splendido Articolo di Umberto Eco su Calvino e gli Intellettuali.
Vero, ieri come oggi.
La Verità e l'Impegno non hanno tempo, non muoiono e non si corrompono.
LexMat

Da "http://illuminationschool.wordpress.com/2013/05/26/umberto-eco-su-italo-calvino/" :


La morale è nella leggerezza, “Domenica – Il Sole 24 ore”, 26 maggio 2013
Così il «Barone rampante» nel 1957 forgiò in Eco l’idea del ruolo dell’intellettuale, né organico né pifferaio della rivoluzione ma distaccato osservatore critico della realtà.


Vorrei parlare del libro di Calvino che amo di più, Il barone rampante, e spiegare perché è rimasto sempre un testo che mi ha accompagnato durante tutta la mia vita, come una sorta di manifesto politico e morale.

Capisco che possa suonare strano parlare di lezioni morali e politiche per un libro che, al momento della sua pubblicazione, portò molti intellettuali impegnati italiani a lamentarsi del fatto che II visconte dimezzato (uscito sei anni prima) non rappresentasse più una parentesi nel lavoro di un narratore caratterizzato da una vena realista. Con questo nuovo romanzo, Calvino abbandonava definitivamente II sentiero dei nidi di ragno per una poetica del fantastico muovendosi per mondi possibili, galassie cosmicomiche, città invisibili e traiettorie astrali zenoniane.

Si fa fatica, oggi, a immaginare quanto la sinistra ufficiale italiana fu disturbata dal Barone rampante; è sufficiente ricordare che, nello stesso decennio, Luchino Visconti, che era un intellettuale comunista, osò rivolgersi, con il suo Senso, non a una storia di lavoratori, ma alla passione romantica e decadente di due amanti del XIX secolo, e ne ottenne, in pratica, la scomunica da parte dei difensori del cosiddetto realismo socialista. Vorrei farvi capire perché, per un giovane di venticinque anni – tanti ne avevo quando lessi II barone rampantenel 1957 – questo libro ebbe un impatto tanto devastante sulla mia nozione di impegno politico, o del ruolo sociale dell’intellettuale.

È superfluo ricordare che il libro mi colpì come uno stupendo lavoro letterario, facendomi sognare quei boschi incantati di Ombrosa, che digradavano superbi verso il mare. Alcuni giorni fa ho riletto il romanzo, ricavandone la stessa sensazione di felicità, «catturata nuovamente dall’incantesimo di una lingua trasparente, attraverso la quale (e non certo contro la quale) mi pareva di arrampicarmi, in maniera quasi fisica, di ramo in ramo con Cosimo, e di diventare poi un rigogolo, uno scoiattolo, un gatto selvatico, un passero, o persino una foglia d’ulivo o di ciliegio.

Quella del Barone rampante è una lingua cristallina, e Calvino (si veda la terza delle sue Lezioni americane) ha detto che il cristallo, con la sua sfaccettatura precisa e la sua capacità di riflettere la luce, era il modello di perfezione che aveva sempre accarezzato, come un simbolo. Ma nel 1957 la mia reazione principale fu, più che estetica, di natura filosofica - il che non dovrebbe stupire nessuno, dato che ero alle prese non con una fiaba (come molti la considerarono) ma con un grande conte philosophique.

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, i giovani intellettuali (poco importa se cattolici o comunisti) erano ossessionati dal dovere morale di essere – come si usava dire – “organici” al proprio gruppo ideologico. Davvero, era facile avvertire il ricatto di questa chiamata generale alle armi, al dovere della militanza, di usare il proprio potere intellettuale nella lotta contro i nemici ideologici. Solo due voci si erano levate contro questa concezione del ruolo degli intellettuali. Una, negli anni Quaranta, era stata quella di Elio Vittorini, con il quale Calvino aveva collaborato in gioventù e, più tardi, nel corso degli anni Sessanta, curando insieme «Il menabò», una rivista che doveva influenzare enormemente il corso della letteratura italiana di quel decennio. Vittorini disse, nel 1947, che gli intellettuali non dovevano suonare il piffero della rivoluzione. Con questo, egli intendeva dire che non dovevano diventare gli agenti stampa del loro gruppo politico, ma invece incarnarne la coscienza critica. Vittorini, all’epoca, apparteneva al partito comunista e curava una rivista abbastanza indipendente e dalla vita breve, «Il Politecnico». Ovviamente venne considerato un traditore del proletariato. «Il Politecnico» morì, e l’appello di Vittorini rimase a lungo inascoltato.

Nel 1955, fummo affascinati da un libro di filosofia politica, Politica e cultura di Norberto Bobbio, che disegnava in maniera più rigorosa il profilo di un intellettuale che fa il proprio dovere cercando una verità che non si identifica con la verità ideologica del proprio gruppo. Laddove Vittorini aveva solo lanciato uno slogan, Bobbio sviluppava una severissima argomentazione filosofica. Rispettivamente troppo poco, o troppo, per produrre un’epifania. Questa fu prodotta dalBarone rampante, che aveva il potere persuasivo di una parabola, l’attrattiva profonda del mito, il fascino della fiaba e la forza gentile della poesia.

Calvino ha eliminato dalle prime versioni delle proprie opere certi paragrafi moraleggianti che avrebbero potuto rendere le sue lezioni troppo invadenti. Cosimo Piovasco di Rondò non insegna nulla, almeno, non ai lettori. Si limita a incarnare un esempio. Solo in due punti il romanzo suggerisce una possibile lettura/interpretazione morale. Il primo punto (nel capitolo XX) è quello in cui si dice che Cosimo riteneva che, se si voleva osservare la terra nel modo giusto, bisognava mantenere la giusta distanza da essa. Il che mi rimanda a un’osservazione dalle Lezioni americane: «È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sè, che assume come proprio fardello». Il secondo punto (nel capitolo XXV) è quello in cui il fratello di Cosimo si domanda, senza trovar risposta, come la passione di Cosimo per gli affari sociali possa essere riconciliata con la sua fuga dalla società.

Cosimo decide di trascorretela propria intera vita aerea sugli alberi, volando via dal mondo terreno. Ma quegli alberi non sono per lui una torre d’avorio. Dalle loro cime, osserva la realtà, acquistando una saggezza superiore, proprio perché la gente che egli vede gli appare piccolissima, e comprende meglio di chiunque altro i problemi dei poveri esseri umani che hanno la sventura di dover camminare sui propri piedi. Stando sugli alberi, Cosimo è spinto a prendere attivamente parte alla vita sulle proprie terre. Nella sua qualità di aristocratico, condivide i problemi degli emarginati. Trasformandosi in una sorta di dio dispettoso, 0 di “Schelm”, non così dissimile dagli animali che gli danno amicizia, nutrimento e vestimento, trasforma la natura in cultura senza distruggerla, e passo dopo passo è spinto a impegnarsi nella vita sociale, non solo nel suo piccolo territorio, ma sull’intera Europa.

Vivendo come un buon selvaggio, si fa uomo dell’Illuminismo, fuggendo dalla società diventa un leader rivoluzionario - ma uno che rimarrà sempre capace di criticare coloro che combattono dalla sua parte, e capace di provare dispiacere e disincanto per gli eccessi dei propri idoli.

Non nel romanzo, ma in un successivo commento degli anni Sessanta, Calvino riconobbe che, per essere un personaggio interessante, Cosimo non sarebbe dovuto essere un misantropo ma piuttosto un uomo coinvolto nei problemi del proprio tempo. E notò che la solitudine e la scomoda soggettività erano la vocazione del poeta, dell’esploratore e del rivoluzionario.

Questo tipo di lezione fu per me fondamentale. Ricordo che anni dopo, in una di quelle assemblee studentesche ultrapoliticizzate del 1968, quando mi fu chiesto di definire il ruolo dell’intellettuale, proposi il romanzo di Calvino come il solo testo affidabile e, citando Cosimo come modello, dissi che il primo dovere dell’intellettuale impegnato era quello di vivere sugli alberi per tenersi a distanza dai propri compagni, per poterli criticare innanzitutto, e non di fornire slogan contro gli avversari – pronto a fronteggiare un plotone di esecuzione per testimoniare che le proprie convinzioni sono vere. A quel tempo non si trattava certamente di una presa di posizione popolare, ma molti degli studenti che mi fischiarono oggi lavorano per Berlusconi, il leader della destra italiana.

Perché la lezione suggerita da questo romanzo fu così convincente per me (e penso, per molti altri in seguito)? Calvino l’ha spiegato, indirettamente, nelle sue Lezioni americane. Le lezioni morali sono, di solito, molto pesanti, e l’unica virtù di coloro che riescono a renderle memorabili è il dono della leggerezza. Aerea come il Barone, la prosa di Calvino non ha peso, è plus vague et plus soluble dans l’air – sans rien en lui qui pèse et qui pose, come avrebbe detto Verlaine. O, per concludere con le parole di Calvino: «Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno 0 nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro».

Questo Calvino ha saputo farlo, ed è questa l’eredità che ci lascia.

Tolstoj, la fine della gioia. I racconti delle ossessioni

Interessante Articolo che compendia e conclude il discorso su Tolstoj (vedere Post precedenti).
LexMat

Da "http://illuminations-edu.blogspot.it" :

Depressioni e paure dopo «Guerra e pace»

«Dio è un'incognita, senza la quale nulla esiste»


Pietro Citati

"Corriere della Sera", 2 luglio 2013

Quali impressioni sconvolgenti destano, in chi esca dalla lettura di Guerra e pace e di Anna Karenina, i racconti tolstojani degli anni ottanta! Là, anche dove il destino si accaniva con più ferocia sulle creature di luce, avevamo l'impressione della libertà, della ricchezza, della varietà, della molteplicità di connessioni della vita; e con quale gioia ne percorrevamo i labirinti. Le Memorie di un pazzo, la Morte di Ivan Il'ic, Il diavolo, La Sonata a Kreutzer sono invece storie di un'ossessione: ossessione di una malattia psicologica, della morte, dell'eros, dell'odio. Come se avesse dimenticato i colori della primavera e dell'estate, ora Tolstoj vive al chiuso, prigioniero del chiuso, tetramente trionfante nella propria claustromania. Non c'è libertà ma costrizione: non respiriamo ma soffochiamo. Se là Tolstoj intrecciava tutte le dimensioni e i toni diversi, facendoli echeggiare uno nell'altro, ora egli sceglie una sola dimensione, un solo tono, in capolavori di cupa monotonia. Kafka ha molto amato alcuni di questi racconti.
Le Memorie di un pazzo, scritte nel 1884, fingono di essere l'autobiografia di un proprietario di terra: mentre, in realtà, rivelano gli acutissimi punti di crisi nella tarda esistenza di Tolstoj. All'inizio siamo nel 1869, subito dopo il completamento di Guerra e Pace, «quest'orgia», come confessò più tardi alla cugina Aleksandra. Tolstoj si sentiva abbandonato dalla fantastica e lucidissima ebbrezza dove aveva abitato per qualche anno, e senza la quale «non è possibile vivere». Aveva vissuto immerso nella musica continua della vita: ora, all'improvviso, si sentiva gettato fuori dall'esistenza, che si arrestava davanti ai suoi occhi, fissa, immobile, sclerotica, funeraria. Se la vita si era arrestata così all'improvviso, come poteva non arrestarsi anche lui? Guardava tutte le cose come se fosse stato un morto tra i morti: non vedeva più quanto c'era da vedere: non sentiva più quanto gli altri sentivano; ogni piacere intellettuale e poetico era perduto. Non desiderava più nulla.
* * *
Il protagonista delle Memorie di un pazzo decise di lasciare la propria casa insieme al suo servo, per vedere un possedimento con un grande bosco, che desiderava acquistare. Quando scese la sera, viaggiava in carrozza, per metà assopito. All'improvviso si svegliò, perché l'aveva attraversato non so quale terrore. Gli balenò in mente che non avrebbe dovuto a nessun costo spingersi in queste contrade remote, che sarebbe morto quaggiù, lontano da casa. E gliene venne un brivido. Incominciò a provare una stanchezza, un desiderio di sosta. Aveva l'impressione che entrare in una casa, vedere gente, bere del tè e sopratutto dormire, l'avrebbe risollevato. Decise di pernottare nella città di Arzamàs. Arrivò alla casa di posta: era bianca, e gli sembrò tremendamente triste, tanto da dargli un nuovo senso di ribrezzo. Smontò a terra adagio adagio. Entrò. C'era un corridoietto. Un uomo sonnolento, con una macchia su una guancia (quella macchia gli sembrò orribile) gli indicò una stanza con la mano.
Era una cameretta tetra, quadrata, bianca di calce, con una sola finestra dalle tende rosse. Che la cameretta fosse quadrata, gli riuscì stranamente penoso. Così, per mezzo del suo protagonista, Tolstoj penetrò per la prima volta nel mondo quadrato: proprio lui che aveva rappresentato la vita come qualcosa di sinuoso, circolare, femminile. Una volta il quadrato era per lui il segno dell'intelligenza astratta, dei programmi e dei propositi: ora, nella casa di posta di Arzamàs, diventa l'incarnazione degli orrori che germogliano tra le pareti della nostra mente.
Mentre il servo metteva su il samovàr, il protagonista si allungò sul divano. Non dormiva. Gli faceva paura alzarsi, allontanando il sonno: perfino stare seduto in quella camera gli faceva paura. Cominciò ad assopirsi. E dovette prender sonno, giacché — quando riaprì gli occhi — nessuno c'era più nella stanza, ed era buio. Riaddormentarsi (lo sentiva) non era possibile. Perché era venuto quaggiù? Dove andava portando sé stesso? Da che, e dove fuggiva? «Io fuggo — si diceva — da qualcosa di tremendo, e non posso sfuggirne. Io sto sempre con me stesso, e sono proprio io che riesco tormentoso a me stesso. Eccolo, quest'io: sono tutto qui». Avrebbe voluto addormentarsi, perdere coscienza, ma non poteva. Non poteva allontanarsi da se stesso.
Le sensazioni che il protagonista provò — il terrore indeterminato, la camera bianca e quadrata, l'unica finestra rossa, la angoscia del sonno e dell'insonnia, l'orrore di sé stesso — sono le prime, acutissime sensazioni di un accesso di mania depressiva, che viene fisicizzato, trasformato in oggetti, e proiettato all'esterno. Quando il protagonista-Tolstoj uscì nel corridoio, credette di allontanarsi da ciò che lo faceva soffrire. Ma quello gli era uscito dietro, e spandeva su tutto la sua tetraggine: sempre a un modo. «Ma insomma — disse a sé stesso — di che cosa m'angoscio, di che cosa ho paura?». «Di me — rispose senza suono la voce della morte — Io sono qui». Un brivido gli fece aggricciare il corpo. «Sì, la morte. Verrà, quella, verrà: già eccola; eppure non deve esistere». Vedeva, sentiva che la morte incombeva sopra di lui e, nello stesso tempo, sentiva che essa non doveva esistere. Questa lacerazione interiore era spaventosa. Tentò di scrollarsi di dosso quell'orrore. Trovò un candelabro di bronzo, con la candela ridotta a un mozzicone, e l'accese. Il candelabro, la fiamma rossa della candela, tutto intorno a lui gli ripeteva la stessa cosa. «Non c'è nulla nella vita: c'è la morte. Eppure essa non deve esistere».
Il protagonista provò a pensare a ciò che di solito lo interessava: l'acquisto dei terreni, sua moglie. Ma tutto era sparito sotto lo spavento di questo disfarsi della propria vita. Bisognava dormire. Appena coricatosi, balzò su dal terrore. E un'angoscia, un'angoscia — un'angoscia nell'animo, identica a quella che precede il vomito: solo spirituale. Poteva sembrare un orrore della morte, ma se rifletteva, era il morire della vita che lo spaventava. La vita e la morte confluivano in una cosa sola. Ancora una volta provò a dormire: sempre quel medesimo orrore, rosso, bianco, quadrato. Dolore straziante, e senso straziante di aridità e di rancore: non una stilla di bontà, ma solo un eguale, calmo rancore contro sé stesso e contro ciò che o chi l'aveva creato.
Quando Tolstoj tornò a casa, riprese a vivere come prima. Bisognava che la sua vita si svolgesse senza mai sosta, e, sopratutto, senza mai uscire dalle condizioni abituali. Come uno scolaro recita senza pensarci una lezione imparata a memoria, allo stesso modo lui doveva vivere la vita, per non cadere di nuovo in balia di quella angoscia, che per la prima volta l'aveva assalito ad Arzamàs. L'acutissima mania depressiva diventò abitudine. Viveva apatico, indifferente a tutto e a tutti: triste, abbattuto, senza emozione e senza gioia, per giorni e settimane intere: ogni fiamma sembrava spenta nella sua anima: aveva voglia di piangere: temeva di essere malato; gli sembrava che tutto fosse finito per lui, e non gli restasse che morire.
* * *
Anni dopo, il protagonista di Memorie di un pazzo dovette andare a Mosca. Arrivò d'ottimo umore, e scese all'albergo. Entrò nella sua piccola camera. Il greve tanfo del corridoio gli stava nelle narici. La cameriera accese la candela. La fiamma calò, poi si ravvivò, illuminando il turchino strisciato di giallo delle pareti, il tramezzo, il tavolo logoro, il divanetto, lo specchio, la finestra e l'angustia di tutta la cameretta. E d'improvviso, il terrore di Arzamàs gli si commosse dentro: i piccoli oggetti quotidiani incarnavano l'orrore; ciò che era fisico suscitava uno spavento metafisico. «Dio mio! Come farò a pernottare qui dentro?» pensò. Per salvarsi, decise di andare a teatro con un amico: si infilò la rigida, gelida camicia inamidata, abbottonò i polsini, indossò la redingote, calzò le scarpe nuove. A teatro, mentre vedeva il Faust, e dopo teatro, al ristorante, il tempo passò piacevolmente: l'angoscia di Arzamàs sembrava dimenticata.
Passò una nottata terribile: peggiore di quella di Arzamàs. Soltanto la mattina si addormentò; e non sul letto, dove aveva provato invano a stendersi tante volte, ma sul divano. Tutta la notte aveva sofferto in maniera intollerabile: di nuovo, tormentosamente, si dilacerava l'anima dal corpo. «Io vivo — pensava — ho vissuto, vivrò ancora; e tutt'a un tratto, la morte, l'annientamento di ogni cosa. A che scopo, dunque, vivere? Morire? Uccidersi subito? Mi fa paura. Vivere, allora. Ma a che scopo? Per morire?». Non usciva da questo circolo. Pregava Dio: «Se tu esisti, rivelami dunque: a che scopo, cosa sono io?». Si curvava a terra, recitava quante preghiere sapeva, ne componeva di sue, e poi soggiungeva: «Rivelami dunque!». E restava in silenzio, in attesa d'una risposta. Ma risposta non c'era, come se non ci fosse, neppure, qualcuno che potesse rispondergli.
Nelle ultime pagine delle Memorie di un pazzo, qualcuno risponde al protagonista e a Tolstoj: ci sono le Scritture, le vite dei santi, il pane consacrato, i mendicanti. Finisce, o finisce per qualche tempo, l'angoscia e il timore. Da lontano, Dio invia la sua luce, e salva Tolstoj dalla disperazione e dalla morte. Così, diventa l'alfa e l'omega, il principio e la fine. Questo Dio è una X, un come se, un'incognita: «ma sebbene il significato di questa X ci sia sconosciuto — insiste Tolstoj — senza questa X non si può cercare di risolvere, ma neppure porre nessuna equazione».

giovedì 5 giugno 2014

Mauro Corona

Vivere è come scolpire, occorre togliere, tirare via il di più, per vedere dentro.
(da Nel legno e nella pietra)

Alain de Botton

La libertà di pensare è il coraggio di imbattersi nei propri demoni.

Forse è proprio vero che di fatto non esistiamo finché non c'è qualcuno che ci vede esistere, che non parliamo finché qualcuno non è in grado di comprendere ciò che diciamo; in sintesi, che non siamo del tutto vivi finché non siamo amati.